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Usa-Egitto. crisi risolta?

di Michele Paris - 05/03/2012








Dopo settimane di polemiche e tensioni diplomatiche, ai dipendenti di alcune ONG finanziate dal governo americano, finiti sotto processo in Egitto, è stato finalmente permesso giovedì di lasciare il paese nord-africano. Il rimpatrio degli attivisti è avvenuto dietro pagamento di una cauzione di oltre 4 milioni di dollari ed è stato seguito da uno strascico di polemiche tra i vertici del regime egiziano e dalle proteste di una popolazione tra cui il sentimento anti-americano continua ad essere ampiamente diffuso.

Secondo quanto riportato dalla Reuters, i dipendenti delle ONG rilasciati sarebbero 15, di cui 8 americani, 3 serbi, 2 tedeschi, un norvegese e un palestinese. Alcuni di loro erano detenuti in carcere, mentre altri si erano rifugiati presso l’ambasciata americana al Cairo. Agli attivisti che hanno lasciato il paese è stata fatta firmare una dichiarazione nella quale si impegnano a tornare in Egitto in occasione del processo a loro carico, anche se, com’è ovvio, nessuno di loro è intenzionato a farlo. Un cittadino americano indagato, in ogni caso, avrebbe deciso di rimanere al Cairo per difendersi dalle accuse in un’aula di tribunale.

Per giungere alla liberazione, l’amministrazione Obama ha fatto ricorso alla minaccia di bloccare sia un prestito in fase di erogazione al governo egiziano da parte del Fondo Monetario Internazionale sia lo stanziamento degli aiuti americani al Cairo, pari a circa 1,3 miliardi di dollari all’anno. Fondamentale per la buona riuscita dell’accordo, di fronte all’impopolarità delle organizzazioni statunitensi, viste come mezzo dell’interferenza di Washington nelle vicende locali, è stato l’intervento dei Fratelli Musulmani e del loro braccio politico (Partito Libertà e Giustizia) che dopo le recenti elezioni detiene la maggioranza nel Parlamento egiziano.

Come ha scritto il New York Times, non è stato però possibile individuare alcun esponente politico, militare o del sistema giudiziario egiziano che abbia dato il proprio assenso all’evacuazione degli attivisti indagati. Quello che viene descritto dal quotidiano newyorchese è un vero e proprio scaricabarile, nel quale accuse reciproche vengono scambiate tra politici e giudici egiziani, nessuno dei quali appare disponibile ad accollarsi la responsabilità dell’accordo con gli USA e a scatenare su di sé l’ira della popolazione. A questo scopo, gli stessi Fratelli Musulmani si sono resi protagonisti di un’operazione di facciata, chiedendo in Parlamento l’apertura di un’indagine ufficiale per stabilire con certezza chi abbia concesso agli attivisti l’autorizzazione ad uscire dal paese.

La contesa era iniziata più di un mese fa con l’emissione da parte dell’autorità giudiziaria egiziana del divieto di lasciare il paese per alcuni attivisti stranieri in seguito all’apertura di un procedimento legale contro organizzazioni no-profit, come le americane NDI (Istituto Nazionale Democratico) e IRI (Istituto Internazionale Repubblicano), entrambe legate alle leadership dei due principali partiti al Congresso USA.

Tra le 43 persone coinvolte nel caso c’era anche Sam LaHood, figlio del ministro dei Trasporti statunitense Ray LaHood e membro dell’IRI. Per costoro l’accusa era di aver violato le leggi locali, risalenti al regime di Mubarak, che richiedono alle ONG straniere di ottenere una speciale licenza delle forze di sicurezza egiziane per poter operare nel paese, così come un’autorizzazione ufficiale per ricevere finanziamenti dall’estero.

Le restrizioni poste alle ONG, per anni con Mubarak al potere non sono state rispettate da queste organizzazioni. Tuttavia, in un clima di forte anti-americanismo dopo la rivoluzione dello scorso anno, le loro attività sono state viste sempre più come un’indebita ingerenza nelle questioni interne di un paese sovrano, così da orientare la transizione egiziana verso un esito favorevole agli interessi di Stati Uniti e Israele.

Quest’ultimo obiettivo, peraltro, è precisamente quello che perseguono sia la giunta militare al potere fin dalla deposizione di Mubarak sia i Fratelli Musulmani e gli altri partiti borghesi nati dopo la rivolta dello scorso anno. Di fronte ad un orientamento di segno totalmente opposto tra la maggioranza della popolazione, per calmare gli animi la nuova classe dirigente egiziana ha cercato così di sfruttare la persecuzione delle ONG americane ed europee, innescando con Washington un conflitto limitato e in gran parte artificioso. Il caso ha però sollevato la prevedibile reazione della Casa Bianca che ha finito per produrre il vergognoso voltafaccia di giovedì delle autorità egiziane e la liberazione degli attivisti sotto accusa.

Secondo un anonimo esponente del governo americano citato dal New York Times, la svolta nelle trattative sarebbe arrivata una decina di giorni fa, quando i Fratelli Musulmani dichiararono pubblicamente il loro appoggio alle ONG straniere, a loro dire fondamentali nella rivelazione delle atrocità commesse dal regime di Mubarak. Successivamente, inoltre, lo stesso partito islamista si è mosso in Parlamento per far approvare una legge che elimini al più presto ogni restrizione sulle attività di queste organizzazioni in Egitto.

A spingere le due parti verso una soluzione positiva della vicenda potrebbe essere stata anche la recente visita al Cairo di alcuni autorevoli senatori statunitensi, tra cui lo stesso presidente dell’Istituto Internazionale Repubblicano, John McCain. L’ex candidato repubblicano alla Casa Bianca in quell’occasione ha espresso parole di elogio per i Fratelli Musulmani, mostrando come tutte le sue perplessità - così come quelle del governo americano - nutrite nel recente passato per il più antico movimento islamista siano ormai fugate dopo che quest’ultimo, dietro la maschera della rivoluzione democratica, si è mostrato ben disposto ad assicurare il mantenimento degli interessi statunitensi in Egitto, a cominciare dal rispetto del fondamentale trattato di Camp David del 1979 con Israele.

Nonostante un accordo sulla liberazione degli attivisti stranieri fosse dunque a portata di mano, nello scorso fine settimana la situazione sembrava essersi complicata nuovamente quando, all’apertura del processo, il giudice che presiede il caso ha deciso di aggiornare l’udienza alla fine di aprile.

Con il rischio concreto che i dipendenti delle ONG potessero rimanere sotto custodia delle autorità egiziane, quanto meno per parecchie altre settimane, gli Stati Uniti hanno forzato la mano e la minaccia di congelare miliardi di dollari di aiuti ad un’economia in affanno ha finito per sbloccare definitivamente la situazione.