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Perché Enea appare così piccolo davanti alla tragica grandezza di Didone?

di Francesco Lamendola - 06/03/2012


 

 

Per chi ama Virgilio e si nutre dell’«Eneide» come di un alimento vitale per l’anima; per chi vi cerca, e vi trova, non solo tesori di bellezza e di cultura, ma ricchezze incalcolabili a livello spirituale ed umano, la grande domanda era e resterà sempre: perché Enea appare così piccolo davanti alla tragica grandezza di Didone?

Perché il “pius Aeneas”, con tuta la sua “pietas”, che lo fa apparire quasi più un sacerdote che un guerriero e che ovunque, nelle sue peregrinazioni, lo induce a fermarsi per erigere altari, interrogare gli oracoli e celebrare riti religiosi, si mostra così scostante, diciamo pure così meschino, davanti a una donna innamorata, che per lui ha sacrificato tutto e che non gli chiede più nemmeno di restare, ma almeno di differire un poco la partenza, per darle il modo di abituarsi all’idea della definitiva separazione?
In fondo, è impossibile sottrarsi all’impressione, leggendo e rileggendo il quarto canto dell’immortale poema, che ad Enea sarebbe bastato un po’ più di tatto, un po’ più di sensibilità e delicatezza, per rendere il loro distacco meno crudele, per non esacerbare oltre ogni limite la sofferenza di lei; non già nel senso di adornare con una astuta strategia il suo egoismo di maschio deciso a partire, dopo aver ottenuto ciò che gli premeva, ma nel senso di mostrare per lei, se non amore, almeno quel rispetto, quella empatia, quella dolcezza, che si devono comunque ad un amico, a una persona con la quale si è condiviso molto e che molto ha offerto di sé.

Il Fato lo chiama ad altri lidi, ad altri destini, e va bene; ci si mette pure Giove - che, pregato da suo figlio Jarba, re di Getulia, furioso per lo smacco del rifiuto di Didone -, manda Mercurio dall’eroe troiano a sollecitarne la partenza: eppure, con tutto ciò,  il modo di agire e di parlare di Enea, nel suo ultimo colloquio con la regina cartaginese, appare di una ruvidezza, di una povertà morale sconcertanti.

Qui, naturalmente, ci sono due distinti ordini di questioni: l’uno di impostazione generale, l’altro di esigenze artistiche.

Nella prospettiva di Virgilio, che poi è quella di un Romano dell’età di Augusto, tormentato dal problema del male nella storia, ma anche fiducioso che il Fato guidi le vicende umane verso un bene superiore, invisibile ai singoli (è, ancora e sempre, l’eterno problema della Provvidenza manzoniana!), il Fato non è un accessorio secondario o un orpello retorico: è la sostanza del suo poema, è il senso della vicenda umana, è tutto. Enea è spinto alla partenza da una forza superiore, da un senso del dovere che gli impone di sacrificare ogni suo privato interesse: se si risolve a partire da Cartagine, quasi di soppiatto, come un ladro, non è perché si sia stancato di Didone, ma perché aveva sempre saputo non essere quella la sede definitiva del suo popolo, bensì l’Italia, che tanti presagi gli hanno indicato come meta finale del viaggio.

Questo, il lettore moderno stenta a capirlo, ad accettarlo; il lettore moderno, con la testa imbottita di retorica sull’amore romantico (una invenzione, appunto, della letteratura moderna, e precisamente di Petrarca, esasperata ulteriormente dalla decima musa, il cinema), non riesce a recuperare facilmente la giusta prospettiva, che è quella di Enea: nessun personaggio, storico o letterario che sia, può essere compreso, se si pretende di giudicarlo secondo le proprie categorie mentali e alla luce del proprio paradigma culturale.

Certo, questo è un problema di difficile soluzione, perché, inevitabilmente, ciascuno è figlio del modo di sentire del proprio tempo e non se ne può spogliare, per quanti sforzi faccia; almeno, però, si deve evitare l’errore prospettico di voler far coincidere il proprio angolo visuale con la verità in assoluto: e questo è già un primo passo sulla via di una migliore comprensione.

Naturalmente, nel comportamento di Enea verso Didone, al momento della separazione, non vi è soltanto questo: perché, pur piegandosi al volere del Fato, egli avrebbe potuto addolcire il dolore della regina con una sincera espressione di affetto e di rammarico; e tuttavia non lo fa.

La tentazione di attribuire il suo contegno alla paura di lasciarsi sopraffare dai sentimenti, di cedere davanti allo sgomento e alle lacrime della donna, e, quindi, ad un intenzionale indurimento dell’eroe, è forte; ma, attenzione, si tratta pur sempre di una tentazione tipica della modernità, in questo caso basata sulla fede quasi cieca nella psicologia - o, peggio, nella psicanalisi -, nuova divinità che tutti adorano, anche se poca ne masticano e poca ne capiscono. Non che gli antichi difettassero di psicologia; ma non l’adoravano: perciò sarebbe illusorio, crediamo, voler capire Enea osservandolo prevalentemente sotto una tale angolatura.

Piuttosto, qui è necessario passare al secondo ordine di questioni, quello artistico: Enea, non dimentichiamolo, non è una persona, ma un personaggio; vale a dire che è una creazione poetica, non un uomo in carne ed ossa; e che, nel delinearne il carattere, il suo autore ha tenuto presenti tutta una serie di fattori di ordine letterario.

In altre parole, Virgilio non ha voluto creare un Enea (e neppure una Didone, se è per questo) che fosse verosimile o convincente come essere umano, ma che fosse efficace come personaggio in quel preciso contesto, ossia come il protagonista di un poema epico celebrante, sì, la grandezza di Roma, ma anche il mistero del male, della guerra, della sofferenza: «sunt lacrimae rerum». E il Fato, che in Virgilio prende quasi il luogo della cristiana Provvidenza, dirige, sì, i pubblici destini verso il bene, o comunque, verso il meglio, ma a prezzo di gravi dolori, rinunce e sacrifici da parte dei singoli individui, secondo modalità misteriose che lo lasciano pensoso e, a tratti, turbato e quasi sconvolto.

Enea, dunque, agisce come agisce essenzialmente per esigenze di ordine contenutistico e morale (concorrere alla futura grandezza di Roma, che, a sua volta, è strumento di pace e progresso fra i popoli), ma anche di ordine estetico-letterario, ossia per dare il massimo risalto all’azione drammatica. In questo senso, se egli si fosse mostrato più pietoso nei confronti di Didone, se avesse cercato di alleviarne la disperazione, avrebbe anche, al tempo stesso, attenuato l’effetto drammatico della scena: che, invece, grazie alla sua freddezza e al suo distacco, risulta straordinariamente potenziata e amplificata, perché al dramma del distacco si aggiunge, per Didone, il dramma di scoprire diverso da come lo credeva l’uomo che ama, quasi un estraneo.

Didone, dunque, giganteggia perché Enea, davanti a lei, effettivamente è molto piccolo; ma questo era necessario affinché la scena acquistasse il massimo risalto e concorresse a fare della sfortunata regina cartaginese un personaggio indimenticabile; e, della sua vicenda, una delle più intense e tragiche storie d’amore della letteratura universale.

La decisione del suicidio e la maledizione nei confronti di Enea, che sarà all’origine delle guerre sanguinose e spietate fra Roma e Cartagine, fino alla totale distruzione di quest’ultima, trova qui la sua radice, poetica e umana; suicidio che non sarebbe apparso pienamente giustificato, sul piano artistico, se Enea si fosse sforzato di diminuire l’amarezza di lei, lasciandole almeno un dolce ricordo a lenire il dolore del distacco.

Inoltre, si provi ad immaginare la scena di un Enea commosso quanto Didone; di due amanti che mescolano le loro lacrime per una partenza, che starebbe solo ad uno di essi evitare, se lo volesse: il tutto cadrebbe nello stucchevole e nel dolciastro, come nelle tele zuccherose e pomposamente melodrammatiche di un Pierre-Narcisse Guérin; oppure, peggio ancora, Enea farebbe la figura di un ipocrita della peggiore specie, di un damerino che piange lacrime finte, mentre col cuore è già pronto a salpare l’ancora della sua nave e a sciogliere le vele.

Il latinista Adriano Bacchielli (Urbino, 1921 - Ancona, 1987), autore di una delle migliori traduzioni moderne dell’«Eneide» in lingua italiana, grazie alla sua intima affinità di poeta con l’animo virgiliano, ha scritto, anche sulla presente questione, alcune pagine illuminanti; ne riportiamo il passaggio centrale (Virgilio, «Eneide», versione poetica, traduzione e commento di A. Bacchielli, Torino, Paravia & C., 1963, pp. 152-53):

 

«…la migliore poesia del libro IV […] è tutta fondata sul drammatico contrasto dei due protagonisti.

Il dramma veramente è solo in Didone, non in Enea, che freddo e insensibile sa parlare solo di riconoscenza, di grata memoria (che sono l’elemosina dell’amore, non l’amore) e, nella sua superficialità, nell’incapacità di comprendere il dramma e la grandezza d’animo di Didone, giunge fino al punto di ricordare, a colei che gli aveva tutto sacrificato, che egli in definitiva non le aveva mai parlato di matrimonio, e di farle notare l’inopportunità delle sue lacrime.

Il dramma, in Didone, nasce appunto non tanto dal dolore del distacco, quanto dall’improvvisa rivelazione di un Enea estraneo al suo dolore ed al suo amore, e a quel suo modo di comportarsi freddo e impacciato che mette improvvisamente davanti agli occhi della regina la più amara e umiliante delle situazioni in cui una donna possa trovarsi nella vita: quella di accorgersi di essere stata, nel cuore dell’uomo a cui ha consacrato tutta se stessa, solo l’oggetto di una breve parente4si sentimentale.

Al grande amore di Didone sarebbe bastata una sola parola di affetto, una sola parola di sincero rammarico per il loro amore così presto troncato, per la loro breve felicità così presto svanita; una sola parola di rimpianto attraverso la quale ritrovare almeno una rispondenza di sentimenti, se  non di affetti. Ma questa parola Enea non sa trovarla, perché ne suo cuore non c’è altrettanto dolore, così come non vi è mai stato altrettanto amore.

Quali motivi abbiano spinto Virgilio ad impostare in questi termini il dramma d’amore del libro IV, è argomento degno di interesse. Non sono mancate, a tale proposito critiche severe. La figura di Enea, infatti, è sembrata troppo fredda, e perciò, secondo alcuni, artisticamente mancata. Ma è certo che se il poeta ci avesse presentato Enea che, pur obbedendo alla volontà degli Dei (come vuole ed impone la concezione stessa del personaggio e la logica di tutto il poema), si fosse abbandonato con Didone al dolore e alla disperazione, avrebbe ottenuto un effetto melodrammatico  di molto dubbio buon gusto, e la figura di Didone, sul piano artistico, non ne avrebbe certamente guadagnato.

È da ritenere invece che il poeta abbia appositamente voluto, molto più opportunamente, un Enea così privo di anima e di “pathos” non solo e non tanto per la logica di tutto il poema (che vuol e nel capostipite della romana progenie  il “pius”, il “civis” forte ed austero che pone al di sopra di ogni interesse personale l’ideale patrio e l’obbedienza agli Dei), ma anche e soprattutto per creare le condizioni del dramma, che altrimenti sarebbe venuto a mancare, e dare quindi alla figura di Didone quel rilievo  che in nessun altro modo avrebbe potuto avere in maniera così marcata ed avvincente.»

 

Ma c’è ancora una cosa da tener presente, nel valutare il comportamento di Enea.

Didone, anima bella, generosa, pura, gli ha tutto sacrificato: e viene così mal ricompensata, giungendo alla decisione di togliersi la vita; qui non si tratta solo di una singola storia d’amore finita tragicamente; qui c’è il mistero del dolore umano, il mistero del male che colpisce gli innocenti, i buoni, i generosi; e la regina fenicia è l’emblema di questo doppio mistero.

Il pagano Virgilio non possedeva la chiave per gettare un poco di luce su un abisso così smisurato; egli ha il presentimento che una spiegazione vi sia; che, in qualche modo, il male sarà trasformato in bene: ma quando, dove, come? Ovunque giri lo sguardo, non trova risposta: non resta, all’uomo, che assumere il grave fardello, come fa Enea: con mestizia, certo, ma senza inutili ribellioni; il Fato è superiore agli stessi Dei e, in esso, forse si trova lo scioglimento dell’arcano, che tanto lo turba.

Però, che la parola definitiva di Virgilio sul comportamento di Enea non sia quella che appare a una prima lettura, risulta chiaro dalla nuova e ultima apparizione di Didone, anzi dell’anima di Didone, nel libro sesto del poema, quello della discesa agli Inferi, nel quale vediamo un Enea che, accorato e quasi piangente, cerca di rivolgersi alla donna, di trattenerla, di consolarla: le rivolge, ma ormai troppo tardi, quei segni di affetto e di partecipazione che non aveva saputo, o voluto, mostrarle durante il loro ultimo colloquio terreno.

Ma Didone, sdegnosa, gli volta le spalle, non lo ascolta e si affretta verso il marito Sicheo: e, questa volta, è il turno di Enea di rimanere con l‘amaro nel cuore; non solo col rimpianto, ma col rimorso.