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«Il mercante di Venezia» è l’opera di uno Shakespeare antisemita?

di Francesco Lamendola - 06/03/2012


 

 

«Il mercante di Venezia» è l’opera di uno Shakespeare antisemita?

E, se sì, quali conclusioni se ne debbono trarre, non sul piano teatrale e letterario, ma su quello culturale e psicologico, per meglio inquadrare e comprendere il contesto storico in cui nacque e fu presentato al pubblico?

Si faccia attenzione che non stiamo parlando di un’opera secondaria di Shakespeare, ma di una delle più famose e delle più rappresentate, con successo sempre rinnovato, fino ai nostri giorni e alla versione cinematografica del 2004, interpretata da due attori del calibro di Al Pacino e Jeremy Irons, per la regia di Michael Radford.

La vicenda è nota, anche a chi non è mai stato a teatro; meno noto, forse, almeno al grande pubblico, è il fatto che Shakespeare si è ispirato largamente, anche in alcuni particolari particolarmente drammatici, a una novella italiana trecentesca di Giovanni Fiorentino, detta «Il Giannetto», facente parte della raccolta «Il pecorone», che il grande drammaturgo poté leggere nella traduzione inglese di William Painter.

Bassanio, nobile veneziano spiantato, nutre la speranza di poter sposare la ricca Porzia, ma, per poterla degnamente corteggiare, ha bisogno di tremila ducati. Li chiede al suo carissimo amico Antonio, un mercante, che in quel momento, però, non dispone di denaro liquido, avendo tutto il suo capitale impegnato in una spedizione commerciale marittima, il cui ritorno è atteso a giorni; si reca perciò dall’usuraio ebreo Shylock e gli chiede, in prima persona, il prestito di cui, in realtà, ha bisogno Bassanio. Shylock odia Antonio di tutto cuore, sia perché quest’ultimo è solito prestare il denaro gratuitamente, mettendolo in cattiva luce e facendo scendere i tassi d’interesse, sia perché ne è stato sovente rimproverato e insultato, a causa della sua smodata avidità; tuttavia, dopo essersi fatto alquanto pregare, accetta, ponendo però la condizione che, se la somma non verrà restituita entro il giorno stabilito, egli avrà il diritto esigere una libbra della carne di Antonio, da prelevarsi in quella parte del suo corpo che egli stabilisca.

Sicuro del fatto suo, Antonio acconsente, benché Bassanio tenti di dissuaderlo: nella sua ingenuità, e lasciandosi ingannare dai modi in apparenza gentili dell’Ebreo, pensa, infatti, che si tratti solo di uno scherzo.

Ricevuta la somma, Bassanio si reca a Belmonte, il paese di Porzia, accompagnato dall’amico Graziano, e la chiede in sposa; ella accetta con trasporto, nonostante il giovane le abbia confessato la scarsità dei suoi mezzi, e gli promette di dividere con lui ogni sostanza, offrendogli l’anello di fidanzamento. Nel medesimo tempo, Graziano si fidanza con la cameriera di Porzia, Nerissa, e le due coppie decidono che le rispettive nozze verranno celebrate nel medesimo giorno. A quel punto, però, giunge una lettera di Antonio, che Bassano legge alla fidanzata, in cui l’amico gli annuncia che tutte le sue navi sono andate perdute insieme al carico e che, pertanto, si trova nell’impossibilità di restituire il denaro avuto da Shylock.

Bassanio è molto turbato e Porzia lo esorta a partire in soccorso dell’amico; prima, però, decidono di celebrare le nozze, insieme a quelle di Graziano e Nerissa, affinché Bassanio abbia un diritto legale sul patrimonio della giovane moglie. Subito dopo i due uomini si affrettano a Venezia, dove Antonio, frattanto, è stato gettato in prigione. Invano Bassanio si offre di pagare Shylock con un lauto interesse. L’Ebreo, che aveva lungamente covato il suo rancore contro Antonio e aveva teso abilmente la sua rete, ora pretende dalle legge veneziana il rispetto della clausola a suo tempo stabilita, e firmata di pugno dallo stesso Antonio. La causa viene portata davanti al Doge per essere discussa in tribunale.

Porzia, intanto, non è rimasta con le mani in mano. Scrive a un parente avvocato, Bellario, per avere un consiglio legale; quindi si traveste da uomo e si reca a Venezia, come avvocato, per sostenere ella stessa la causa di Antonio, sotto il falso nome di  Baldassarre; e porta con sé, in qualità di finto scrivano, anche Nerissa, a sua volta vestita in abiti maschili. Il giorno dell’udienza al cospetto del Doge, Porzia parla con straordinaria eloquenza e, alla domanda di Bassanio di modificare le leggi per salvare la vita dell’amico, risponde che la legge non può essere modificata; all’udire quelle parole, Shylock, che ha nuovamente rifiutato il pagamento da parte di Bassanio per qualunque cifra egli volesse, esclama che quell’avvocato, nonostante la giovane età, parla con la saggezza di un Daniele venuto a rendere giustizia.

Verificata la perfetta legalità del documento firmato da Antonio, e riconosciuto il buon diritto di Shylock ad esigerne il rispetto, Porzia chiede che venga portata una bilancia per pesare la libbra di carne dovuta a quest’ultimo, il quale non sta più nella pelle per la gioia maligna; ma ecco che il finto avvocato dichiara che all’Ebreo spetta, sì, una libbra di carne, ma nemmeno una goccia del sangue di Antonio, perché ciò non è stato contemplato nel contratto. Se, dunque, Shylock, nel tagliare col coltello una libbra dal corpo di Antonio, ne verserà il sangue, o se eccederà nel peso pattuito, tutti i suoi beni verranno confiscati dallo Stato di Venezia.

Shylock si rende conto di essere in trappola e si dice finalmente disposto ad accettare il denaro in cambio della carne di Antonio; di nuovo Bassanio  si offre di pagare, ma stavolta Porzia afferma che Shylock, per aver attentato alla vita di un cristiano, merita una grave punizione e deve chiedere clemenza, inginocchiandosi davanti al Doge. Quest’ultimo, allora, dichiara di fare all’Ebreo grazia della vita, ma che tutti i suoi beni verranno confiscati: metà andranno ad Antonio quale risarcimento, metà saranno incamerati dallo Stato. Ma Antonio dichiara di rinunciare alla sua parte, purché Shylock si impegni a lasciare i suoi averi a sua figlia, che ha diseredato perché si è sposata con un cristiano. L’Ebreo accetta e se ne va, umiliato e depresso; il Doge gli ricorda che lo Stato è disposto a lasciargli la sua parte dei beni, se egli stesso deciderà di farsi cristiano.

Qui finisce la vicenda principale della commedia; l’ultima parte non è che una coda e quasi uno svolazzo scherzoso-sentimentale. Porzia, che non è stata riconosciuta, rifiuta il denaro offertole da Bassanio, ma dice che accetterebbe volentieri l’anello che costui porta al dito, che è proprio quello a suo tempo donato al marito: vuole metterlo alla prova, dato che, nel momento più drammatico del processo, egli aveva detto che avrebbe rinunciato a qualsiasi cosa, anche alla moglie amatissima, pur di salvare la vita dall’amico in pericolo (e una uguale esclamazione era stata fatta da Graziano e udita da Nerissa, anch’ella non riconosciuta nelle sue vesti da uomo).

Bassanio, in un primo tempo, rifiuta, pur dispiaciuto, dicendo che l’anello è un dono della moglie, dal quale non vuol separarsi: Porzia, allora, si allontana, fingendosi offesa; ma poi il marito, per non voler apparire un ingrato, le manda Graziano, che la prega di accettare l’anello; a sua volta Nerissa chiede e ottiene l’anello che anch’ella aveva donato al proprio sposo: le due donne, infatti, vogliono divertirsi mettendo nell’imbarazzo i loro uomini.

E così avviene: richiesti di mostrare gli anelli a suo tempo ricevuti in dono, né Bassanio, né Graziano sono, ovviamente, in grado di farlo; devono così subire le finte ire delle rispettive mogli, prima che esse decidano di rivelare che l’avvocato Baldassarre e il suo scrivano erano, in realtà, proprio loro, Porzia e Nerissa. Per completare la felicità di tutti, giunge la notizia che le navi di Antonio, credute disperse, sono giunte in porto sane e salve: e così termina la commedia.

È quasi superfluo dire che, al di là dell’abilità artistica con cui è svolto l’intreccio (basato, peraltro, come abbiamo detto, su di una novella italiana del XIV secolo), a partire dalla seconda metà del Novecento, nel mutato atteggiamento della cultura europea verso la questione ebraica dopo il genocidio nazista, ci si è domandati se e fino a che punto «Il marcante di Venezia» rispecchi un atteggiamento deliberatamente antisemita, o se si limiti a riprendere dei generici stereotipi antisemiti più o meno diffusi in Inghilterra e nel resto del continente.

Imbarazzanti analogie, infatti, anche se non espresse a voce alta, sorgevano spontaneamente nella mente dei lettori di Shakespeare; ad esempio, possibili raffronti con i film della propaganda antisemita del Terzo Reich, come il ben noto «Süss l’ebreo», firmato da Vei Harlan e uscito in Germania nel 1940.

Il fatto è che dopo la seconda guerra mondiale vi è stata una certa tendenza a decontestualizzare l’antisemitismo nazista, mettendo fra parentesi quello di tutti gli altri Paesi d’Europa, e non solo d’Europa, e tacendo quasi del tutto quello su quello delle recenti vittime dell’espansionismo hitleriano, come la Polonia e la stessa Francia, Paesi in cui le correnti antisemite erano sempre state piuttosto forti, tanto che lo stesso governo polacco aveva accarezzato l’idea, prima di passare il testimone ai Tedeschi, di deportare i propri cittadini ebrei nell’isola africana del Madagascar, mediante un accordo con quello francese.

Perciò, tornando alla commedia di Shakespeare, si tenga presente il contesto storico e culturale:  massicce espulsioni Ebrei erano avvenute in Europa occidentale durante il tardo Medioevo - nel 1290 dall’Inghilterra, nel 1296 dalla Normandia, nel 1394 dalla Francia -; mentre il IV Concio Lateranense, fin dal 1215, aveva stabilito un regime di separazione per gli Ebrei, che avrebbero dovuto viverre in quartieri separati e portare sull’abito un particolare segno di riconoscimento (per le donne un cappello giallo, come quello delle prostitute).

«Il mercante di Venezia», dunque, nasceva in una cornice in cui fermenti e umori antisemiti erano presenti e piuttosto radicati e in cui la figura dell’usuraio ebreo era ben nota e alquanto malvista, tanto da fornire agli scrittori un vero e proprio stereotipo, anche fisico e psicologico, dai caratteri inconfondibili, tale da attirare immediatamente l’antipatia del pubblico.

Si sono arrampicati sugli specchi, a nostro avviso, quei critici che hanno tentato di “lavare” la reputazione di Shakespeare dalla macchia dell’antisemitismo; perché quella macchia, se tale è stata, non era affatto una cosa rara, ma un modo di pensare e di sentire largamente diffuso non solo fra le classi popolari, più direttamente a contatto con i problemi della sopravvivenza e quindi più esposte all’avidità dei banchieri e degli usurai, molti dei quali erano ebrei.

Analizzare le diverse componenti di tale atteggiamento e separare, ad esempio, quelle di ordine più squisitamente economico e sociale, da quelle più specificamente religiose (l’antica accusa di deicidio e l’antica, reciproca insofferenza dei seguaci delle due fedi abramitiche, risalente fino agli albori dello stesso cristianesimo) non rientra negli scopi e nei limiti della presente riflessione, tanto più che una tale ricostruzione dovrebbe innanzitutto confrontarsi con una serie di luoghi comuni e di pregiudizi, di segno generalmente opposto, ma non meno discutibili, di quelli che dominavano la cultura europea fino alla seconda guerra mondiale e alla successiva nascita dello Stato d’Israele. Quanti, ad esempio, sarebbero disposti a discutere serenamente del fatto che molte comunità giudaiche dell’Impero romano soffiarono deliberatamente sul fuoco delle persecuzioni anticristiane degli imperatori, da Nerone fino a Diocleziano; e quanti sarebbero disposti a parlare del ruolo giocato dalle comunità ebraiche nella rapida conquista musulmana di antichi Paesi cristiani, come la Siria e l’Egitto, e, più tardi, la Penisola Iberica?

L’aspetto economico sembra prevalente nell’humus antisemita del «Mercante di Venezia»: Shylock, infatti, è la quintessenza dello spirito usuraio ebreo, così come era percepito dai cristiani durante il tardo Medioevo e il Rinascimento: non solo smisuratamente avido, ma perfido, dissimulatore, rancoroso, implacabile nella sua occulta sete di vendetta.

E tuttavia, ad una lettura più attenta, non mancano riferimenti anche all’altra dimensione, quella di tipo schiettamente religioso: sono state notate somiglianze o richiami tra la figura di Shylock e quella del patriarca Giacobbe; si è posto l’accento sulla identificazione, ad opera dello stesso Shylock, di Porzia, nelle vesti di avvocato, con il profeta Daniele, colui che interpretava con saggezza i sogni di Nabucodonosor, ma, soprattutto, colui che seppe sciogliere nel modo più semplice ed elegante il processo a carico della casta Susanna, dimostrando la colpevolezza dei due vecchi che avevano cercato di sedurla; si è discusso, infine, sull’abbandono del giudaismo da parte della figlia dell’usuraio, che aveva scelto di sposare un cristiano, come esempio di una conversione dallo spirito dell’Antico Testamento, legalistico e formale, a quello del Nuovo Testamento, basato unicamente sulla forza dell’amore.

I nessi fra la problematica religiosa e «Il mercante di Venezia» sono stati oggetto di un confronto, coordinato dal professor Hannibal Hamlin, della Università Statale dell’Ohio di Columbus, presso l’Università Ca’ Foscari da parte di alcuni studiosi di livello internazionale, coordinati dal professor Hannibal Hamlin, della Università Statale dell’Ohio di Columbus, durante il Convegno annuale della Renaissance Society of America, tenutosi nell’aprile del 2010 (in: The Renaissance Society of America, Annual Meeting, Venice, 8-10 April 2010, «Program and Abstract Book», pp. 261-62). Per Ori Weisberg, dell’Università del Michigan («Leah’s Jessica, Shylock’s Dinah»):

 

«Shylock’s identification with the pariarch Jacob in “The Merchant of Venice” ties him more esplicity to a biblical figure than perhaps any other Shakespearean chrachter. Yet one significant parallel remains oblique. Each has a daughter, born to a wife named Leah, who engages in sexual contact with a gentile. These contacts exacerbate religious and economic conflicts between their Jewish fathers and locals non-Jews. Commentators attributed the rape of Jacob’s daughter Dinah to her improper interest in non-Israelite festivities. Jessica’s elopement with the gentile Lorenzo likewise occurs in the context of trasgressive sociability. Shylock’s antipathy for Venetian revels thus echoes Thomas Becon’s caution against daughters becoming “idle gadders abroad unto vain and light pastimes or plays” and falling into “corruption as we read of Dina Jacob’s daughter.” The intertextual pressure of Genesis 34 elucidates the instability of ethnic, religious, and economic systems in Shakespeare’s imaginary Venice.»

 

Per Nicholas Moschovakis, del Reed College («Shakespeare’s Apocrypha: The People’s Daniel, the Problem of Religious Allusion and the Theologically Incorrect “Merchant of Venice”»):

 

«In “The Merchant of Venice (4. 1), the repeated allusive identification of Portia with Daniel suggests that Portia’s hermeneutic authority comes from the spirit, not just from the letter of Venetian law. Shakespeare thus raises the question of such reasoning’s relationship to divine inspiration. But he also raises the problem, equally fraught for post-Reformation Christians, of whether festive popular cultural forms were generally in tension with the true religion - for the actions of Daniel in the apocryphal Susanna story were the subject of a known ballad that Shakespeare responses to one scriptural allusion and considering how some might have worked outside or against orthodoxy, this paper will apply lessons from recent work on the cognitive foundations of religion and what D. Jason Sloane calls “theological incorrectness”, bringing a fresh theoretical perspective to historicist accounts of religious allusiveness in Shakespeare.»

 

Infine, per Hannah Scolnicov, dell’Università di Tel Aviv («The Jew and the Justice of Venice»):

 

«I offer a visual and theatrical approach to the courtroom scene in “The Merchant of Venice”. I show that the justice demanded by Shylock is not the Old Testament concept of retribution, but the justice that forms the legal basis of the city of Venice. The Jew enters carrying two important stage props, a knife and a balance, pointing to, even parodying, the serene allegorical female figure of Justice, holding a sword and scales, visible all over Venice. Together with the Duke kneeling at her feet, the figure forms part of the familiar renaissance embleme of Venice, visibly proclaiming the supremacy of the law over the elected ruler. The excitement of the staged scene is enhanced by its visual and emblematic reverberations. The Jew’s claim on the justice of Venice transcends the traditional religious conflict and represents a real threat to the Republic.»

 

Una conclusione ci sembra inevitabile: quel che Shakespeare poteva pensare degli Ebrei e della questione ebraica, del ruolo da essi svolto nella società europea, della loro possibile conversione, non dovrebbe costituire motivo di particolare scandalo o imbarazzo, perché rientra perfettamente nel contesto dell’atteggiamento prevalente dei suoi contemporanei, non solo inglesi, ma di tutto il continente, e anche di quello dei suoi predecessori e dei posteri almeno fino alla metà del XX secolo.

Questo, almeno, se si vuole guardare alle cose con onestà e con imparzialità, e, soprattutto, senza pregiudizi ideologici, senza il desiderio di riscrivere la storia per renderla diversa da quella che realmente è stata, con le sue ombre e le sue luci, nella sua dialettica secolare: nella quale è cosa ardua distinguere, sempre e comunque, le ragioni dai torti e dove non sempre le cose sono come appaiono ad uno sguardo frettoloso e superficiale.

E lasciamo agli altri, ai manichei, ai fanatici, ai moralisti a senso unico, il dubbio privilegio di saper dividere sempre e infallibilmente, con un taglio netto, il giusto dall’ingiusto, gli innocenti dai malvagi, i carnefici dalle vittime: perché una tale operazione non ha nulla di storico, ma è solo frutto di un pregiudizio ideologico, non importa di quale segno e non importa se animato, almeno a parole, dalle più pure e nobili intenzioni.