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Addio giovinezza

di Franco Cardini - 06/03/2012

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Sull'accelerato Avezzano-Pescara, alle 13,30 circa del 4 marzo 2012.

         Una domenica  strampalata, una difficile trasferta ferroviaria cominciata a Roma Tiburtina, un viaggio tra Roma e Pescara destinato a durare sei ore se va bene nell'Italia che non funziona. Fuori dal finestrino del brutto e sporco vagone, la mia Italia, l'Umìle Italia che amerò per sempre, l'Abruzzo forte e gentile dei lupi e degli orsi,delle nevi della Maiella, dei confetti di Sulmona e degli argenti di Guardagriele e dei serpari di Cocullo... “Madre, madre, dormii settecent'anni”... Corrono dinanzi a me, sfrecciando al finestrino, i paesi dell'Abruzzo antico e medievale dai nomi magici e meravigliosi,Tagliacozzo, Avezzano,Celano.
         C'è tanta neve, in quest'inverno che non vuol finire, sul Gran Sasso dove lo scorso anno di questi giorni già fiorivano i mandorli e i ciliegi.
         Domani, 5 marzo 2012, compirò esattamente 71 anni e 7 mesi: ho qualche pasticcio di salute ma niente di apparentemente grave, mi piacciono ancora il vino e le ragazze per quanto pensi ormai ad entrambi con sereno  distacco. Scrivo così, per me, appollaiato su un sedile di plastica azzurra di seconda classe. Oggi perderò la messa e questo mi dispiace. Ieri di trentun anni or sono se ne andò l'ultimo familiare che mi restava, la zia Delia, che da piccolo mi aveva fatto un po' da seconda madre  e che da troppo tempo non vado più a trovare là, sulla collina di Trespiano, dove vanno a finire i fiorentini poveri. Tuttavia, con quattro figlie, sei nipoti e un bel po' di amici-amici, di amici sul serio, non sono certo solo al mondo. Ma tutto passa: e il mio tempo insieme con tutto il resto. Due giorni fa un altro pezzo delle mia vita se n'è andato con Lucio Dalla, che per tanti anni ha saputo cantare emozioni vicine alle mie, nelle quali potevo riconoscermi. Lo ricorderò tra breve, concludendo questi pensieri. Si muore poco per volta.
         Scrivo quest'Amarcord solo per me stesso, ma forse anche per qualche amico  che ha vissuto la mia stessa giovinezza, mezzo secolo fa, e con il quale vorrei condividere queste poche note. Che non invierò ad alcun giornale, né di destra né di sinistra, io che da moltissimi anni ormai mi definisco cattolico, europeista e socialista e mi dichiaro estraneo alla dialettica destra/sinistra  anche se ciò mi procura le critiche malevole di molti imbecilli che disprezzo e dei quali non mi curo, e origina scandalo e disorientamento in tanta brava gente che spesso mi scrive accorata e alla quale rispondo sempre con affetto e con onestà, cercando di spiegarmi meglio, di aiutarla a capire insieme con me tante cose che forse non capiamo, che non capiremo mai del tutto.
         Scrivo perché ieri sera, sabato  4 marzo 2012, mi è senza volere e senza aspettarmelo  capitato di recidere di netto un vecchissimo cordone ombellicale colmio passato che da tempo pendeva sfilacciato e sanguinolento e che io non avevo mai avuto il coraggio di tagliare definitivamente. Sentimento, o forse  sentimentalismo: perché no? In fondo, era una cosa che riguardava solo me e al massimo una decina di altre persone, di happy fews amici fraterni che hanno ormai passato la settantina o vi si avviano.  Non scrivo per passare il tempo: ne avrei, su questo treno e con questo computer, di cose da fare. Divulgherò queste parole tra chi credo sia in grado o abbia bisogno di leggerle, ma senza concederle a giornali che le sforbicerebbero e le userebbero solo per tirar l'acqua al loro mulino. Sono pagine sincere.
         Quarantasette anni fa, con alcuni amici, detti definitivamente l'addio al Movimento Sociale Italiano, che frequentavo dai giorni di Trieste del 1953 (dodici-tredicenne, prima media, calzoni corti) e al quale ero iscritto dai giorni dell'Ungheria del 1956. Nel 1960, quando cominciai a far politica universitaria attiva, quella seria e sincera militanza mi era costata l'espulsione dall'Azione Cattolica. Ero rimasto cattolicissimo,avevo trovato nel Partito un Maestro in Attilio Mordini e sognavo un fascismo puro e duro, forse paradossalmente eppure originalmente teso a conciliare il tradizionalismo antigiacobino in filosofia  e nella cultura storica (antimodernità intesa come antindividualismo, rifiuto del mito e del dogma del Progresso, lotta al primato dell'economia  e alla società del profitto), l'europeismo in politica (la “Nazione Europea” di Jean Thiriart) e il “socialismo fascista” di Drieu La Rochelle, non senza qualche punta massimalista d'origine soreliano-strasseriana e con un grande amore per la primissima Falange Española di José Antonio Primo de Rivera.
         Con questi princìpi vivemmo la breve esperienza della “Giovane Europa” thirartiana, conclusasi nel 1969. Dalla violenza, dal razzismo, dall'antisemitismo, dal  visceralismo anticomunista,  dal nostalgismo  inutile e patetico eravamo lontani le mille miglia. Che il MSI, al quale continuavamo a guardare nonostante tutto con umana simpatìa, con solidarietà (se non altro perché i missini erano degli isolati, degli “ultimi”, spesso dei veri poveri in tutti i sensi, dall'economico al culturale all'umano), avesse intanto imboccato una china in discesa che lo avrebbe condotto allo schianto, era ovvio. Che i suoi dirigenti prendessero i voti di un “popolo” ingenuo, talvolta violento e spesso patetico, ma che erano tuttavia voti magari eversivi eppure onesti, e li manipolassero utilizzandoli come supporto agli aspetti più conservatori della politica del tempo, era chiaro: in particolare, voti comunque “patriottici” ulilizzati sempre e comunque in una direzione atlantista e filoamericana che solo la Guerra Fredda, allora in corso, poteva in apparenza giustificare; voti di gente che aveva desiderio e bisogno obiettivi di giustizia sociale, e che venivano utilizzati in un senso sempre unilateralmente e ottusamente “anticomunista”.
         Non avevamo mai reciso i legami con molti amici ch'erano restati in quell'ambiente: ma il nostro sogno di “fascisti immaginari” europeisti e socialisti, che amavano Nasser, Che Guevara, Eva Perón e perfino Ho Chi Min, era una futura Europa politica unita, lontana sia da Mosca sia da Washington e amica di tutti gli oppressi della terra. Per noi, il fascismo (attraverso ambiguità, idiozie e tradimenti) restava nonostante tutto storicamente parlando soprattutto questo: un movimento nato all'indomani dell'infamia di Versailles e “di destra” nel nome della Nazione e della Libertà, “di sinistra” nel nome della Giustizia Sociale; che, nemico di Versailles, avrebbe dovuto proseguire la  battaglia contro quello che di Versailles era l'erede, lo Spirito di Yalta. Avremmo voluto che il MSI diventasse questo: poi arrivò il '68 e  l'episodio di Valle Giulia, per noi esaltante nella sua sostanza e vergognoso nel suo epilogo. Perdemmo tutte le residue speranze. Ci rendemmo definitivamente  conto che la sua degenerazione era irreversibile.
         Eppure, restavamo dei sentimentali. Lo seguimmo anche dopo e nonostante tutto, alla lontana, attraverso i pochi amici che all'interno di esso ci erano rimasti, il “nostro” MSI: lo vedemmo affondare sempre più,  mentre  affondava anche l'Italia antifascista e corrotta del dopoguerra con la sua onnipèresente insopportabile retorica resistenziale. Assistemmo – ormai non scuotevamo nemmeno più la testa: non ci aspettavamo più nulla – all'infausta e suicida, ma sul momento proficua per chi la gestì, trasformazione del MSI in Alleanza Nazionale;  considerammo con infinita tristezza l'adesione di quasi tutti i membri di quel che ne rimaneva al caudillismo disonesto e cialtrone di   Berlusconi; guardammo (ancora una volta quasi increduli, patetici sentimentali che eravamo) alla fagocitazione di Alleanza Nazionale nel Popolo delle Libertà; qualcuno di noi ebbe, o volle ostinatamente regalarsi il brivido di voler provare, un brivido di speranza dinanzi a quello che parve il sussulto di resipiscenza e di dignità finiano, e sappiamo come andò a finire. Ci tenevamo per noi quel tanto di minuscolo guizzo d'una fiammella tricolore che nel più profondo dei nostri cuori ci ostinavamo a non voler estinguere. Un lontano residuo sentimentale, che ci veniva spesso rimproverato dai più  disincantati e rigorosi tra noi (penso all'amico Marco Tarchi, che mi ha in fondo sempre trattato con l'affetto che un uomo colto e maturo deve a un vecchio ragazzo molto più anziano di lui, dal quale egli ha perfino forse imparato qualcosa ma ma che pur è riuscito a invecchiare senza riuscir a crescere). 
         Ma bisogna pur ucciderlo, prima o poi, il Peter Pan che ci sgomita e ci scalcia da dentro. Bisogna pur ammettere che la prima stella a destra non era il cammino,e che volando dritti fino al mattino all'Isola Che Non c'E' non ci saremmo mai arrivati, perché appunto essa Non c'E'.  
         Il mio vecchio amico Peter Pan, da tempo smagrito e sofferente, se n'è andato ieri sabato  3 marzo 2012: e ne celebro qui le dolorose, un po' ridicole  esequie, presentandogli le meste armi della mia delusione e della mia fantasia. Vengo per seppellirlo, non per elogiarvelo.
         Un luminoso sabato di fine inverno, un sabato  di sole. Prima dalla finestra di un albergone di Via Cavour, poi passo passo da lontano fino a Piazza Bocca della Verità, ho accompagnato il funerale triste di quel che ancora resta dello spirito del MSI che ho conosciuto e amato mezzo secolo fa. Una manifestazione della “Destra” di Franceso Storace, che ho un po' frequentato  a Roma fra '94 e '96  apprezzandone il lato umano. Lo ritengo un uomo fondamentalmente buono: e anche onesto, quanto può riuscir ad esserlo un politico che affronta momenti difficili con la volontà forse contraddittoria di chi da una parte vuol restare fedele a se stesso, dall'altra aver successo.
         Ho assistito alla sfilata di forse due-tremila persone, in gran parte giovani e giovanissimi, con alcune ragazze e qualche persona matura, compresa una manciata di miei più o meno coetanei appesantiti e incanutiti. Qualche tocco skinhead, molti tricolori, bandiere del nuovo movimento del “popolo romano” (una lupa romana e magari romanista); cori contro Monti; un “banchieri – massoni-fuori-dai-coglioni” in fondo non male; qualche “Duce-Duce”, vessilli di San Marco d'una sedicente “Destra Federalista”, poche croci celtiche su fondo rosso o nero, una timida bandiera della Repubblica Sociale e un'altra, anch'essa timida, con sopra una vecchia fiamma tricolore disegnata alla buona, insieme con  altri simboli che più o meno ne riprendono e ne stilizzano il disegno dissimulandolo. Canti – non troppo intonati – dell'Inno di Mameli.
         Non mi hanno stupito la banalità, la scarsa originalità e in fondo al miseria dell'apparato simbolico-propagandistico: me l'aspettavo. Ho accettato con tristezza la superficialità patetica del ritorno, nel secondo decennio del secolo XXI, di un micronazionalismo che noi ragazzetti e ragazzacci del settimo decennio del XX avevamo già giudicato vecchio, inutile, sbagliato, retorico, grottesco, incapace di costruire qualunque valore serio.  Non hanno né offeso né stupito la mia coscienza di vecchio e impenitente europeista i cenni vaghi ma   incolti e offensivi a un antieuropeismo che prendendo le mosse dalla richiesta della “sovranità monetaria” finiva con prendersela con il principio stesso di unità europea. Tuttavia, mi sono sorpreso a riflettere (dando forse un po' troppo credito alle almeno potenziali capacità di elaborazione politica di quelle  persone) che un barlume di speranza da quella manifestazione avrei tratto se, dalla constatazione dell'assenza di “sovranità monetaria”, il loro micronazionalismo   le  avesse  condotte a denunziare l'assenza di qualunque altro tipo di sovranità”, a cominciare da quella politica, diplomatica e militare, in questa penisola presidiata da centinaia di basi militari degli USA e della NATO. Ma non c'era usno striscione, non c'era uno slogan su questo. Così come quella “Destra sociale”, i cui rappresentanti hanno dedicato qualche battuta abbastanza generica al fiscalismo del governo  Monti (col solito demagogismo piccoloborghese delle “troppe tasse”...), ha poi sparato per bocca di un suo dirigente appena una  battuta contro l'attentato all'Articolo 18.
         Appoggiato a una colonna del tempio di Vesta, abbastanza lontano e in posizione elevata per assistere allo spettacolo di quell'adunata che il solito  oratore  aveva la mancanza di  humour di definire  “oceanica”, mentre salivano verso il cielo romano le orazioni del popolo meomissino all'indirizzo di Assunta Almirante e di Teodoro Buontempo presenti sul palco, pensavo con mestizia al miopersonal fallimento. Perché io, quella gente e i suoi padri o i suoi nonni, li ho amati. Ho cercato di studiare, di agire, di scrivere, di pensare per loro. Ho per anni cullato l'illusione di  condurre il loro amor di patria verso la Patria Europea (altro che “sovranità”, monetarie o altro...). Ho cercato disperatamente diliberarli dai vecchi schemi e con malinconia magari mista a rabbioa e a disperazione li ho visti passare da un falso e funesto mito all'altro, scivolare dall'anticomunismo cialtrone e straccione alla xenofobia e all'antislamismo, magari assunte entrambe come squallide coperture di un antisemitismo latente e mai davvero metabolizzato.
         E il mio Peter Pan ha ricevuto, infine, il colpo di grazia. Nell'aria della tiepida serata romana di fine inverno,mentre imbruniva là verso il Testaccio, un oratore ha gridato letteralmente “noi siamo il popolo di Quattrocchi, siamo il popolo di Nassiryyah!”. E io ho capito quel che già da decenni sapevo, che non c'è più nulla da fare, più nulla da sperare, più nulla da rimpiangere. In quest'Italia di disonesti, di trasformisti, di furbastri del quartierino, di politici ladri e ignoranti, di nani e di ballerine, di professionisti ed esercenti evasori fiscali sui quali si sta ora abbattendo la mannaia dei severi managers della Goldman Sachs piovuti dall'Olimpo della finanza internazionale a governarci, non poteva esserci risparmiata neppure l'umiliazione  di uno squallido Lumpenproletariat  patriottardo incapace perfino di costruirsi uno straccio di orizzonte mitopoietico decoroso, che cercando i suoi eroi finisce con l'individuarli  in ascari e in contractors. Anche noi, negli Anni Sessanta, cantavamo una canzone in onore dei mercenari del Katanga: ma in loro amavamo la disperazione eroica, la Bella Morte da Proscritti alla Von Salomon; mai ci saremmo sognati di scambiarli per eroi della patria o per modelli morali.
         Intendiamoci: ho il massimo rispetto per chiunque abbia dato la sua vita per qualcosa, o magari anche  per nulla; e non mi permetterei mai di negare un segno di omaggio a chi sia morto per una causa che disapprovo o per nessuna causa. Tuttavia, per i meno dotati di memoria, vorrei ricordare quel che scrivevo nel settembre del 2009 a proposito di  cinque parà italiani allora caduti in Afghanistan. Voglio ricordarlo in quanto mi sembra che tutto ciò sia ancora attuale, e forse magari – vista la nuova crisi mediorientale che ci aspetta alla fine di quest'anno – utile anche a futura memoria:
 
         “Se lo domandava molto tempo fa il vecchio Bertolt Brecht: Giulio Cesare ha conquistato tutta la Gallia; ma non aveva nemmeno un cuoco? Gli fece eco, anni più tardi, il nostro Lucio Dalla in Itaca: “Capitano, che hai negli occhi – il tuo splendido destino – pensi mai al marinaio – a cui mancan pane e vino? – Capitano,  che hai trovato – principesse in ogni porto, - pensi mai al rematore – che sua moglie crede morto?”.
         Mi sono ricordato di Brecht e di Dalla il 20 settembre scorso, mentre assistevo in TV al rientro in Italia dei nostri cinque parà: salme, come ha cantato un altro che mi è caro, Fabrizio de André, forse avvolte nelle bandiere “legate strette perché sembrassero intere”.
         Ma dei nostri cinque parà, anche se a pochi giorni dal loro sacrificio essi stanno già purtroppo entrando nell’oblìo (sono queste le regole della società-spettacolo), finché facevano notizia ci hanno almeno detto tutto: ne abbiamo visti i volti, ne abbiamo letti i profili biografici, ne conosciamo i nomi e quelli delle loro mogli, delle loro fidanzate, dei loro figli.
 Le guerre in Iraq e in Afghanistan, come troppi conflitti che oggi insanguinano il mondo, vedono confrontarsi forze armate “regolari” e superarmate contro  avversari in condizione militarmente inferiore, a parte le vittime civili e  i caduti sotto “fuoco amico” e a causa di “danni collaterali”, che in genere si degnano appena di una distratta menzione. Molti pensano che, in  guerre del genere, i “nostri” data la loro superiorità militare siano invulnerabili e che il morire tocchi solo agli altri: e che ciò sia giusto, dato che essi stanno dalla parte del Bene.
         Invece è ingiusto e inumano continuar a tenere nell’ombra e nel silenzio quelli “dell’altra parte” (se è un’altra parte: e non lo è, perché con loro non siamo in guerra, e comunque perché condividiamo con loro la condizione umana che è la vera patria comune): come le decine di poveri afghani, fra cui donne vecchi e bambini, trucidati non troppi giorni fa da un barbaro disumano e inutile attacco aereo mentre cercavano di alleviar la loro miseria drenando un po’ di benzina da un camion sventrato. E’ degno della “nostra civiltà occidentale” continuar a trattare come dei semplici numeri tutti i poveri morti che giornalmente affollano le cronache distratte di quelle guerre lontane?
         Umanità e giustizia vogliono che anch’essi facciano al contrario notizia; che cessino di essere aridi e anonimi numeri su un bollettino o su una statistica.
         Esiste in Italia un giornale che abbia il coraggio di dedicar alle vittime afghane innocenti ogni giorno  cinque brevi necrologie, tante quanti erano i nostri parà caduti?
         Sarebbe necessario e doveroso specchiarsi  in quei volti, imparar  a fare i conti con  chi è morto anche per colpa del nostro silenzio e della nostra acquiescenza; con quelli della cui uccisione siamo stati complici, e lo abbiamo fatto a cuor leggero perché erano “lontani”, perché erano “diversi”, perché non hanno nessuno che li difenda e ne rivendichi la memoria e il rispetto”.

         Ho sentito con orrore, con ribrezzo, l'esaltazione “di Nassiryyah” da parte di quell'oratore neomissino e il fragore degli applausi che l'hanno salutata: l'esaltazione non tanto dei morti, che sono sempre e comunque degni di rispetto in quanto tali, bensì delle guerre fatte in conto terzi, delle guerre cui ci si accoda come stato per tornaconto o per obbligo politico (l '”interesse nazionale” e gli “impegni internazionali” dei quali hanno blaterato certi figuri politici) e come persone per avventurismo o per malintesa “serietà professionale” nei migliori, per servilismo e per desiderio di guadagno nei peggiori dei casi.  Come non c'è nulla di più triste e avvilente delle guerre tra poveri, così non c'è nulla di più disonorevole e di più ripugnante dei poveri che si mettono contro altri poveri, di coloro che cercando uno straccio di dignità – magari nazionale – non lo vedono nemmeno dov'esso si staglia alto e chiaro e vanno a cercarlo nel suo contrario. Se quei poveri neomissini riuscissero a essere sul serio qualcosa di lontanamente simile a quel che pur ambirebbero ad essere, non mancherebbero certo di rispetto e non negherebbero mai un ricordo ai caduti italiani di Nassiryyah, al contrario: ma capirebbero molto bene, e  griderebbero alto ai quattro venti, che i difensori della loro libertà e della loro dignità stavano in Afghanistan e in Iraq obiettivamente dall'altra parte, che essi dovrebbero ergersi a modello anche  per noi, e che i soldati italiani purtroppo mettevano e continuano a mettere le loro armi e le loro divise al servizio d'invasori e di occupanti. Trovarsi al servizio di una causa spregevole e disonorevole, può accadere; difendere anche chi sta dalla parte del torto, e magari  la sua nihilista testimonianza, non sarebbe etico ma si può capire ed è sovente accaduto; ribaltare i piani e scambiare il giusto con l'ingiusto, la ragione col torto, chiamar eroi i mercenari e terroristi i patrioti gloriandosi delle vergogne altrui e vantandosene di esserne stati servi, questo mai.
         E allora ho sentito che l'ultimo bagliore di quella fiammella accesa nei miei anni di adolescenza si andava spegnendo del tutto; Peter Pan ha emesso un ultimo, debole gemito e mi è morto dentro. Imbruniva quando mi sono allontanato volgendo le spalle a Santa Maria in Cosmedin e ho attraversato il ponte incamminandomi verso Trastevere. Gli ultimi, gentili fantasmi delle illusioni e dei ricordi di un tempo che non ho vissuto si sono intestarditi a seguirmi ancora per un po', come cagnolini abbandonati: “Trestevere, Trestevere – brilli de nova luce – c'hai la Madonna e er Duce – che veglieno su te...”, mi è tornato a mente che si cantava alla Festa de Noantri  qualche anno prima che nascessi, in un tempo che non ho a fatto a tempo a conoscere e che pure a lungo ho vagheggiato, rimpianto e difeso. “Massì – mi sono ripetuto – chissenefrega; annàmosen'a ccena...”.
         Ora, la rabbia è svanita. Ma con essa anche l'ultima compassione, l'ultima tenerezza. L'infamia si può magari continuar ad amare. Il vuoto e la stupidità, quelli no. E allora via tutto, anche i pochi brandelli di sentimento rimasti attaccati al Nulla. Addio Giovinezza.