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Tanti saluti al progresso. È il tramonto di un'idea

di Giuseppe Bedeschi - 06/03/2012




Per molto tempo la cultura europea ha nutrito una ferma fede nel progresso: essa ha creduto che il cammino della civiltà non avrebbe incontrato ostacoli né subito interruzioni, e che avrebbe accumulato conquiste (non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e politiche) sempre più elevate. Nel Settecento, questa è stata la convinzione di autori come Voltaire, Turgot, Condorcet (il cui Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain è del 1793). Nell'Ottocento l'idea di progresso ha costituito il fulcro delle concezioni di tre giganti del pensiero: Hegel, Comte e Marx.

 

Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)è stato uno dei grandi teorici del progresso inteso come percorso storico inevitabile dello spirito umano; a lui si ispirò anche la visione di Karl Marx (1818-1883)Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)è stato uno dei grandi teorici del progresso inteso come percorso storico inevitabile dello spirito umano; a lui si ispirò anche la visione di Karl Marx (1818-1883)
Potente e suggestivo il disegno tracciato da Hegel. Per lui la storia universale era stata un processo ascendente, nel quale il popolo più evoluto in una data epoca aveva espresso un principio, che comprendeva in sé tutti i principi dei popoli passati, tutte le loro conquiste (nulla andava perduto nella storia), ma in una sintesi nuova e più ricca. Tale processo tendeva a una meta, a un fine ultimo: la piena realizzazione della libertà. E infatti nel mondo orientale uno solo era libero; nel mondo greco-romano solo alcuni erano liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti sono liberi.

Anche Comte elaborò uno schema storico di tipo ascendente (sviluppando temi già presenti in Saint-Simon). Per lui la storia umana aveva percorso tre stadi mentali (teologico, metafisico e scientifico), che avevano dato origine a tre grandi tipi di organizzazione sociale, a tre grandi epoche: l'epoca «teologica e militare», l'epoca «metafisica e giuridica», l'epoca «scientifica e industriale». In quest'ultima il potere era esercitato, razionalmente, dagli scienziati e dagli industriali.

Uno schema ascendente ha caratterizzato anche la riflessione di Marx, al quale lo sviluppo storico appariva come «una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione consiste in questo, che al posto della forma di relazioni precedente, divenuta un intralcio, viene sostituita una nuova, corrispondente alle forze produttive più sviluppate». Il «motore» dello sviluppo storico era quindi la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione (o «forme di relazioni»), che sarebbe sfociata in una società superiore materialmente e spiritualmente: la società comunista, la quale era la «soluzione dell'enigma della storia».

Questo ottimismo storico entra in crisi già negli ultimi decenni dell'Ottocento, come ci ricorda Pietro Rossi nel suo bel libro Il senso della storia. Dal Settecento al Duemila, appena edito da Il Mulino (466 pagine, € 27 ). Un grande umanista come Jacob Burckhardt (reso celebre da un'opera affascinante: La civiltà del Rinascimento in Italia), nelle sue Considerazioni sulla storia universale (1868-1873) svolge motivi assai diversi da quelli fino ad allora prevalenti: per lui la storia, lungi dal poter essere considerata come «un crescente perfezionamento (il cosiddetto progresso)», è piuttosto un processo al quale è essenziale la lotta (come avviene nel regno animale). La storia ci mostra la presenza costante del male, della violenza, della sopraffazione dei più forti sui più deboli, un «quadro spaventoso», fatto «di disperazione e di strazio».

 

Da «Tempi moderni» di Charlie Chaplin

 

Nel pubblico che assisteva alle lezioni di Burckhardt a Basilea c'era anche il giovane Nietzsche. Anch'egli ripudierà interamente l'idea di progresso, ma rifacendosi a motivi assai diversi da quelli svolti da Burckhardt, e che definirei antiumanistici (critica del cristianesimo come religione dei deboli, critica della democrazia e del suo egualitarismo, esaltazione degli eroi, dei superuomini, eccetera). Ma il pensatore più emblematico nel processo di dissoluzione dell'idea di progresso è Spengler, col suo famoso libro Il tramonto dell'Occidente (il cui primo volume appare nel 1918, quando l'Europa esce dissanguata dalla guerra, e riscuote un enorme successo in Germania). Spengler afferma che le civiltà sono organismi che, come nascono, crescono e vigoreggiano, così decadono, invecchiano e muoiono. La nostra civiltà europea è sul punto di estinguersi. Essa si trova (come tutte le civiltà che hanno esaurito il loro corso) in una fase di Zivilisation: la religione decade, e ciò determina il tracollo di tutti i valori del passato; all'anima, ormai morta, è subentrato l'intelletto come putrefazione dell'anima; nella democrazia il popolo si è ormai dissolto in una massa amorfa e manipolata; la politica non dirige più l'economia ma è subordinata a essa; il denaro è divenuto la suprema potenza della società.

Rossi si sofferma anche, e giustamente, su autori come Alfred e Max Weber (come non ricordare la sua tesi che l'organizzazione razionale-burocratica del mondo moderno ha costruito una «gabbia d'acciaio» che isterilisce la spontaneità e la creatività degli uomini?) o come Sorel (il suo Les illusions du progrès è del 1908).

Io aggiungerei Pareto e Croce. Pareto rifiutava tutte le filosofie della storia, sia idealistiche che materialistiche. L'unica cosa che la storia ci mostra, egli diceva, è il succedersi delle élite , la loro continua trasformazione, la loro decadenza, la loro scomparsa (più o meno rapida, più o meno violenta). Questa successione di élite non è regolata da nessuna legge storica, da nessuna scansione dialettica; in essa si manifesta solo una sorta di «moto ondoso», nel senso che le varie élite si formano e si dissolvono come le onde del mare.

Era una visione sconsolata, quella di Pareto, ma il suo pessimismo storico si sarebbe manifestato anche in autori che per decenni erano stati sostenitori dell'idea di progresso. È il caso di Croce, che nella sua vecchiaia, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, scriverà che «talvolta popoli civili si imbarbariscono, si inselvatichiscono, si animalizzano o ridiventano bestie feroci, e tornano nella natura». Il fatto è, egli diceva, che c'è in noi un «Anticristo, distruttore del mondo, godente della distruzione». Con queste parole il vecchio filosofo non era molto lontano da un pensatore da lui non amato, Sigmund Freud, che aveva parlato della pulsione di distruzione presente in ognuno di noi, sicché il processo di edificazione della civiltà si configura come una grandiosa e drammatica lotta tra Eros e Thànatos.