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Sfogliando una vecchia antologia

di Francesco Lamendola - 07/03/2012


 


Sfogliando una vecchia antologia letteraria per  le scuole medie, diciamo degli anni '50 o anche '60 del secolo passato, alcune differenze balzano evidenti rispetto a quelle oggi adoperate dagli studenti.

La prima è di genere tipografico: allora le antologie erano immancabilmente rilegate e con una robustissima copertina cartonata, mentre oggi sono in brossura e con la copertina leggera, generalmente plastificata; erano anche di formato più piccolo e, quindi, più maneggevoli; e la carta, un po' giallina, non era bella, né di primissima qualità: era anche più sottile, ma difficilmente le pagine si strappavano, perché erano ben protette dalla copertina e dallo steso formato del volume, agile e compatto.

Allora, del resto, si andava a scuola con i libri legati mediante una cinghia, per cui i libri dovevano essere robusti e maneggevoli: non venivano riposti entro uno zainetto accessoriato e quasi tecnologico di fibra sintetica; e molti studenti dovevano fare un lungo viaggio, magari in bicicletta o in corriera, per recarsi alla scuola più vicina. Perciò i libri erano generalmente più leggeri, anche quelli con un notevole numero di pagine: la carta più leggera consentiva questo risultato, cui oggi si cerca di arrivare sdoppiando il libro in due, tre o più volumetti separati: con gran vantaggio per l'editore, che riesce a guadagnare assai di più che da un volume unico, ma non delle tasche del consumatore.

In breve, l'oggetto-libro era fatto per durare, esattamente come lo erano gli oggetti dell'arredamento domestico o i capi di abbigliamento, e non per essere usato e consumato in fretta; né le case editrici si sognavano di pubblicare una nuova edizione ogni tre o quattro anni, introducendo modifiche puramente esteriori, al solo scopo di impedire che il libro potesse passare dalle mani del fratello maggiore a quelle del fratello minore e di costringere le famiglie a ritenere inutilizzabile il libro del primo.

Era una società basata sul risparmio, dove i mobili erano fabbricati per durare una vita e dove le giacche, i maglioni e le camicie passavano di padre in figlio o, almeno, da un fratello all'altro; e dove la produzione non era concepita in funzione del ricambio continuo, ma della durata sul medio e lungo periodo, dagli orologi ai frigoriferi. La moda non dettava ancora legge in modo tirannico, almeno presso i ceti popolari e la piccola borghesia; e, soprattutto, non veniva cambiata appositamente ogni anno dai padroni dei marchi, per indurre le persone a mettere da parte oggetti ancora in ottimo stato, solo per adeguarsi continuamente e supinamente ai suoi umori e ai suoi capricci, pilotati ad arte.

La seconda cosa che balza evidente dal confronto fra le vecchie  le nuove antologie, prima ancora di leggere qualche pagina delle prime, è che l'antologia di qualche decennio fa si presentava in veste piuttosto dimessa: le illustrazioni a colori erano scelte con cura e consistevano, in genere, di riproduzioni di significative opere d'arte; ma erano poche, molto poche, inserite in apposite pagine fuori testo di carta lucida; una decina al massimo su un migliaio di pagine. Illustrazioni in banco e nero, poi, non ve n'erano affatto: il testo era interamente costituito dalla parola scritta, in bei caratteri chiari e nitidi, con molta cura dei particolari. Niente fronzoli, niente orpelli, niente svolazzi: quelle novecento o mille pagine erano tutte dense e succose, concentrate al massimo, dalla prima all'ultima.

Un'altra differenza che balza evidente è la grande semplicità dell'impostazione e la notevole chiarezza espositiva delle vecchie antologie. Le letture, in prosa e in versi, erano raggruppate per argomenti, e l'indice permetteva di trovarle a colpo sicuro, in un batter d'occhio: niente percorsi tematici interdisciplinari più o meno cervellotici, niente schemini riepilogativi, niente grafici e riquadri e arzigogoli di tipo labirintico, nei quali ci si smarrisce prima ancora d'aver capito come si fa ad entrarvi; perfino le note a pie' di pagina erano sobrie ed essenziali, giusto l'indispensabile per chiarire un dubbio, un concetto. Per il resto, lo studente era sollecitato a fare un uso frequente del vocabolario: era lui che doveva recarsi alla montagna, non la montagna del sapere a doversi  continuamente inchinare davanti ad ogni sua anche minima incertezza.

Quanto agli argomenti delle letture: niente problemi di attualità (che dopo tre o quattro anni appaiono già ridicolmente datati), niente sociologia e psicologia e psicanalisi, niente ideologie politiche di destra o di sinistra, niente ipertesti e romanzi nel romanzo e mescolanza di verità e di menzogna e flusso di coscienza e monologo interiore e via sproloquiando e delirando; niente fantascienza, niente horror, niente polizieschi, niente pagine di giornali, niente reportage da vicino o da lontano.

In compenso, il mondo della fantasia, delle leggende, delle fiabe; il mondo delle piante, degli animali e l’incanto della natura; l’avvicendarsi delle quattro stagioni (quando erano ancora quattro e non due); la fede e il divino; l’arte e la scienza; la patria e la famiglia; il mondo del lavoro; i viaggi e le avventure; e l’angolo del buon umore, ovvero dell’umorismo.

Argomenti troppo ingenui, troppo lontani dalla realtà di ogni giorno, e, soprattutto, argomenti subdolamente ideologici, proprio nella loro pretesa di non fare ideologia dichiarata? Argomenti melensi, artificiosi, retorici?  Può darsi: però argomenti solidi, sostanziosi, ricchissimi di spunti di riflessione; e, a ben guardare, più vicini alla realtà del giovane lettore di quanto non si creda. Per fare un solo esempio, cosa c’è di più concreto, di più vicino alla vita del ragazzo e alla sua sensibilità, che guidarlo ad osservare il mondo della natura, anche nei suoi aspetti più umili, attraverso le continue trasformazioni stagionali?

Le antologie di oggi, senza rendersene conto, finiscono per fornire allo studente la pappa bella e pronta: non gli si chiede di pensare, ma di conoscere tante cose, di familiarizzarsi con tanti paroloni; invece di offrirgli gli strumenti per riflettere, gli si presenta il prodotto concettuale già bello preparato, masticato e digerito: al poveretto non resta più altra fatica, con rispetto parlando, che quella di evacuarlo.

Anche la parte dedicata alle esercitazioni didattiche, se pure c’era, era estremamente stringata, quasi spartana: qualche breve domanda, ampia, precisa e soprattutto chiara; non c’erano pagine e pagine di domande con le risposte multiple, in cui lo studente deve segnare una crocetta sulla casellina giusta; queste americanate ancora non avevano preso piede, grazie al Cielo: gli autori del libro non pretendevano di sostituirsi ai professori, né si permettevano di trattarli da minorati, incapaci di svolgere il proprio lavoro con un briciolo d‘iniziativa e di personalità.

Il professore guidava la lettura dei brani, aiutava i ragazzi a comprenderne il senso: poi dava loro un bel riassunto da fare: e così si rendeva conto, infallibilmente, se avevano capito o no. Nel frattempo gli studenti facevano esercizio di scrittura, un esercizio costante ed esigente: e imparavano a scrivere come Dio comanda. Con le risposte a quiz di oggi, uno studente può prendere il massimo punteggio anche se non sarebbe in grado di scrivere nemmeno cinque righe senza fare qualche strafalcione di ortografia o di grammatica, senza scordarsi di far concordare il soggetto con il verbo, nel genere o nel numero.

Insomma l‘antologia di un tempo era uno strumento; uno strumento utile, utilissimo: ma sempre uno strumento. Veniva maneggiata con cura, perché era un concentrato di saggezza e di buon gusto: ma non veniva sopravvalutata, non diventava il centro della lezione, ma solo occasione. Non si scambiava il dito per la luna, né il contenitore per il contenuto.

Gli autori erano selezionati non tanto secondo il criterio della “modernità”, ma secondo quello del bello scrivere: ed era una scelta didattica sensata. Da un bravo scrittore si può sempre imparare, si può sempre prendere lo spunto per riflettere, anche se l’argomento trattato sia, in apparenza, minimalista, o addirittura futile; da un cattivo scrittore, come tanti che oggi vanno per la maggiore e che sono stati adottati dalle antologie scolastiche col criterio degli indici di gradimento, il giovane lettore non ha proprio niente da imparare: vede riprodotti ed elevati al rango di letteratura i suoi modi pasticciati di esprimersi, il suo misto di gergo e d’italiano, il suo pressapochismo linguistico, la sua fretta espressiva, la sua povertà sintattica e lessicale, la sua pigrizia intellettuale.

E poi, i valori. Quei testi, scelti dagli scrittori e dai poeti italiani e stranieri degli ultimi due secoli, erano ricchi di anima: toccavano le corde dello spirito, parlavano della bontà e del dovere, dello spirito di sacrificio, del valore dell’onestà, del rispetto per il prossimo e per la natura; parlavano di uomini e donne che si sono distinti e hanno offerto qualcosa all’umanità, non solo nel campo del conoscere e del sapere, ma anche in quello del retto sentire, del retto volere, del retto operare. Parlavano perfino, pensa un po’, di Dio e della vita eterna.

E scusate se è poco.

Invece di inetti sveviani in preda alla nevrosi e alla tentazione del suicidio; invece di antieroi pirandelliani che non sanno più chi sono, né perché agiscono in un determinato modo; invece di elucubrazioni alla Joyce o di farneticazioni freudiane, le vecchie antologie offrivano (“horribile dictu”!) esempi positivi di uomini e donne che si sono sforzati e impegnati per dare un significato alla propria vita, magari cercando di diventare migliori e giovando al prossimo. E, se questa è artificiosità, allora evviva l’artificiosità; se questa è retorica, evviva la retorica: ma non se ne può più di relativismo e nichilismo e pessimismo e paturnie d’ogni genere, isterismi, schizofrenie, perversioni sessuali e non, pulsioni incestuose e omosessualità latenti e conclamate (e magari sbandierate con orgoglio e con aggressività), delirî d’ogni specie e per ogni palato, quasi che un’antologia dovesse assomigliare il più possibile ad un prontuario di tutte le malattie psichiche e morali concepibili e immaginabili.

Era una didattica semplice, senza dubbio; quasi rudimentale, in confronto alle raffinatezze e alle sofisticherie dei nostri giorni.

Ma “semplice” non vuol dire “stupida”; e quanto all’insegnare a ragionare, quando lo capiranno, coloro che realizzano le antologie odierne, che quello è lavoro dell’insegnante, e che un buon brano d’autore è sempre e comunque uno strumento validissimo, però uno strumento che rimane fatalmente sordo e muto, se non viene vivificato da una lezione intelligente, vivace, fresca di vita e di entusiasmo (ebbene sì, l’abbiamo pronunciata alfine, la parola proibita e politicamente scorrettissima: “entusiasmo”: perché senza entusiasmo qualunque sistema educativo è morto prima ancora di incominciare a funzionare); e questo non lo farà mai il libro, neanche il libro migliore di questo mondo, neanche se è stampato su carta bellissima ed è corredato da decine di meravigliose illustrazioni d’ogni sorta.

Solo l’insegnante potrà fare il miracolo, e solo nel vivo del rapporto educativo, non certo in astratto e dall’alto di chissà quale pretesa “scienza dell’educazione”, come oggi, pretenziosamente e un po’ ridicolamente, si chiamata la cara, vecchia, eterna pedagogia.

Passatismo, nostalgie, inutili rimpianti?

Lo sappiamo benissimo che la società è cambiata (se sia cambiata in meglio, solo perché disponiamo di più oggetti e di una tecnologia più avanzata, questo è un discorso che rimane aperto); quel che resta da vedere è se una antologia scolastica debba sempre inseguire il nuovo, la moda, l’ultimo grido della modernità, o se non debba piuttosto, gettando le proprie fondamenta sulla roccia della buona letteratura, offrire occasioni di stupore, di riflessione, di arricchimento e di crescita personale: insomma se debba fare essa il lavoro del professore o se debba farlo il professore, con il suo semplice supporto.

È compito della scuola inseguire le mode, o, al contrario, la scuola dovrebbe aiutare i giovani a rendersi liberi dalle mode, a pensare con la propria testa, a rendersi conto di quando li si vuole imbrogliare, rifilando loro cattiva letteratura - o cattivo cinema, o cattiva musica, o cattiva televisione -, vellicando le loro corde più superficiali e accarezzando il loro conformismo latente, insomma cercando di manipolarli ne modo più sfacciato?

Si dirà che non è questo che vogliono fare le antologie dei nostri giorni, i professori dei nostri giorni, la scuola dei nostri giorni; anzi, al contrario, che essi vogliono abituare i giovani al pensiero critico, al dibattito, al confronto, alla tolleranza, alla democrazia, e, perché no, al multiculturalismo, al progressismo, all’antifascismo e a chissà quante altre cose. Sarà.

Stando a quel che si vede in giro, però, e stando anche a quel che si vede nelle aule scolastiche, l’impressione non è precisamente questa…