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Nuovo stili alimentari negli USA: food stamps e freegans

di Enrico Verga - 12/03/2012

Nuovi stili alimentari negli USA: food stamps e freegans

Nell’ultimo secolo lo stile di vita urbano e sub-urbano in USA è sensibilmente cambiato. I fast food sono ormai presenti ad ogni angolo di strada. Le grandi catene alimentari hanno incentivato differenti soluzioni di vendita, tra le altre cose favorendo l’uso delle carte di debito, soluzioni di acquisto articolate e spesso complesse. Lo statunitense medio di oggi sembra avere seri squilibri alimentari (l’obesità in USA è a livelli estremamente elevati), lo spreco alimentare è aumentato in proporzione con la accresciuta propensione all’acquisto dei consumatori. In questo scenario nascono e proliferano due separate realtà che potrebbero ridisegnare il panorama socio-economico degli USA.

Il numero di statunitensi che utilizzano food stamps ha raggiunto i massimi storici. Da quando il presidente Obama è stato eletto il programma ha “acquisito” 14 milioni di nuovi “clienti”. Oggi circa 1 statunitense su 7 utilizza food stamps e un bambino ogni quattro consuma cibo grazie al programma. Il progetto originale, conosciuto come Federal Food Stamp Program (FNS), è stato rinominato Supplemental Nutrition Assistance Program (SNAP). A partire dal 2008 il programma è stato ulteriormente migliorato, rendendo più flessibile la gestione burocratica e, cosa più importante, aumentando notevolmente il numero di “clienti”, con sistemi di screening molto più permissivi.

Il numero totale dei “clienti” dello SNAP è di circa 45 milioni (dati aggiornati al 5 gennaio 2012). Per migliorare il sistema a partire dal 2004 è stata creata una soluzione elettronica di pagamento (EBT) simile, nel concetto e nell’utilizzo, alle comuni carte di debito; uno strumento molto familiare agli statunitensi che dovrebbero utilizzarla per comprare alimenti nei supermercati e cucinarli a casa. In effetti l’idea originale alla base del progetto era di rinforzare la domanda di beni alimentari agricoli stimolando gli acquisti con un aiuto dello Stato. Tuttavia i tempi sono cambiati e le abitudini degli statunitensi sono mutate. Nelle aree urbane e suburbane i bambini riconoscono con maggior facilità il volto di Ronald McDonald rispetto a quello di Ronald Reagan. Con queste premesse il progetto SNAP sta subendo alcuni pesanti attacchi da parte delle lobby alimentari.

Il primo attacco è arrivato l’anno scorso, quando il sindaco di NY Michael Bloomberg propose di vietare l’utilizzo della EBT per l’acquisto di bevande zuccherate. Le lobby delle bevande e del cibo interpretarono subito la posizione del sindaco come “positiva” ma mal direzionata. Un eufemismo interessante che scatenò un fuoco di sbarramento senza precedenti. La posizione più accreditata dalle lobby era che non poteva esistere del cibo “buono” e del cibo “cattivo”. Intervistato sulla questione Kevin W. Keane, vice presidente della American Beverage Association, la lobby delle bevande che annovera tra i suoi associati Coca cola e PepsiCo, commentò: “Se cominciamo a dire alla gente cosa possono o non possono mettere nel loro carrello della spesa, dove andremo a finire?”. Il timore delle lobby era che una tale decisione, se fosse stata approvata dal Dipartimento dell’Agricoltura (da cui lo SNAP dipende), avrebbe creato un pericoloso precedente. Le cifre in ballo erano rilevanti. Secondo l’ufficio del sindaco le stime di spesa con i food stamps dei newyorkesi oscillavano tra i 75 e i 135 milioni di dollari all’anno. In pratica lo Stato finanziava, indirettamente, l’utilizzo e il consumo di bevande che, veniva suggerito, potevano portare all’obesità.

Dopo un’attenta analisi il Dipartimento dell’Agricoltura decise che la proposta del sindaco Bloomberg era “troppo amplia e complessa”. Molti osservatori fecero notare che le lobby agirono in modo concertato per ottenere una vittoria senza precedenti. Guidate dalla American Beverage Association tutte le maggiori lobby alimentari si erano schierate in un solo fronte per affossare la proposta: la Snack Food Association, la National Confectioners Association, che rappresentano le aziende di dolciumi, il Food Marketing Institute, che rappresenta 26000 negozi di alimentari e molti gruppi che combattono la mancanza di cibo quali il Food Research and Action Center e la Feeding America. Dopo questa vittoria le grandi catene di supermercati cominciarono ad interessarsi attivamente allo SNAP. Rimodularono gli orari di lavoro dei dipendenti per tenere aperto fino a tarda notte (il momento nel quale vengono ricaricate le EBT). Un nuovo assortimento di cibi a basso costo fu posizionato in bella mostra sugli scaffali per attrarre la nuova generazione di “clienti indigenti”.

L’efficacia delle azioni delle lobby alimentari è riscontrabile nella grande attenzione che esse prestano alla qualità del cibo ed alle date entro cui il cibo, inscatolato o impacchettato, è da “consumarsi preferibilmente”. La data entro cui è preferibile consumare un alimento di norma ha un’applicazione pevedibile nelle gestioni di magazzino: tutto il cibo prossimo alla data di consumo preferibile è inviato al cassonetto dell’immondizia. Ogni anno le grandi catene di distribuzione alimentare gettano via migliaia di tonnellate di cibo, potenzialmente commestibile, sulla base di una stima di scadenza definita dalle stesse lobby alimentari. Tuttavia il ciclo del cibo non termina nel cassonetto.

Una generazione di nuovi ibridi sociali sta facendosi strada sullo scenario socio economico occidentale. I freegans possono esser definiti come una fusione di supporter verdi e persone con basso reddito. Generalmente sono etichettati come “cercatori dei cassonetti” per la loro abitudine di frugare nei cassonetti dei supermercati. La loro visione della vita evolve dallo standard di persone verdi per sviluppare un approccio più pratico e operativo. Per quanto siano consci delle problematiche di alimentazione degli animali, del sistema agricolo influenzato dalle lobby agroalimentari, i freegans hanno un approccio mirato al risultato. Essi sfruttano le nicchie lasciate libere dal sistema legale. Il recente film “Dive”, disponibile in rete, ha sdoganato i freegans. Inoltre la comunità scientifica ha iniziato a supportare, indirettamente, la loro filosofia.

“Molti ricercatori nel settore alimentare hanno confermato che, se conservati correttamente, molti alimenti possono essere consumati giorni, settimane o (nel caso del cibo surgelato o in lattina) mesi dopo la data di consumazione preferibile” ha dichiarato Joe Regenstein, professore di scienza alimentare alla Cornell University e membro del consiglio di amministrazione di ShelfLifeAdvice.com. “La data indicata sulle confezioni è spesso conservativa, se il prodotto è trattato correttamente può durare ben oltre”. Un intero universo virtuale è sbocciato intorno alla filosofia freegan. Il fenomeno è ancora sotto i radar del media. Generalmente i media riportano la notizia più come un evento curioso, che come una vera notizia. Grazie ad internet il movimento si espande veloce. Vi sono inoltre aspetti sociali spesso poco considerati. L’approccio freegan è orientato alla condivisione del cibo con altri che necessitano di alimentarsi. Tale evento, specialmente negli USA, ha spinto le persone a fare gruppo ed agire in team. Spesso, dopo una “ricerca” particolarmente buona, i freegans cucinano tutto il cibo che non possono conservare e lo distribuiscono tra i condòmini, i vicini e i barboni nelle strade. Questo aspetto sociale ha permesso ai freegans di essere percepiti in modo neutrale dalle forze dell’ordine e dalla società tradizionale. L’evoluzione socio-economica occidentale si è direzionata verso una crescita dell’individualismo, plasmata da anni di consumismo sfrenato. Il semplice atto di condividere il cibo, anche con sconosciuti, può permettere a molte persone, in un momento di bisogno, di migliorare le loro capacità di socializzare e stabilire rapporti umani duraturi.

Se la situazione di crisi economica in Occidente dovesse perdurare o aggravarsi esiste la possibilità che il movimento freegans e i “clienti” dello SNAP possano incontrarsi. Lo scenario sociale che potrebbe evolversi è difficile da predire. È certo che se i freegans aumentassero di numero le lobby alimentari si attiverebbero per difendere i propri interessi. I freegans compongono una sub-società di stampo parassitico che prospera traendo beneficio da una falla nel sistema senza ripagare il sistema stesso. Al momento in USA e nelle altre nazioni occidentali non esiste una singola lobby che abbia preso di mira i freegans in modo da limitare le loro attività. La legge statunitense impone il rispetto della proprietà privata (il che per estensione include anche i cassonetti dell’immondizia dei supermercati dove i freegans fanno ricerca), la legge impone di buttare via il cibo che scade e non permette che esso venga donato gratuitamente (le implicazioni legali di un potenziale caso di intossicamento alimentare colpirebbero come un boomerang qualunque catena di supermercati che facesse simili donazioni). I “clienti” dello SNAP tuttavia sono per lo più persone che hanno perso il lavoro, psicologicamente ancora fragili e disorganizzate che ignorano completamente la realtà freegan. Appartengono alla classe media, abituati a stili di vita consumistici e imbevuti di mentalità capitalista. È inoltre rilevante comprendere se le lobby del cibo siano propense a permettere questo incontro. Ipotizzando, per esempio, che 1 milione di “clienti” SNAP (su circa 45 milioni) scegliesse la via freegan questo significherebbe un mancato guadagno di diversi miliardi di dollari per l’industria alimentare. Una cifra che nessuna lobby può permettersi di perdere. E’ quindi corretto ipotizzare che se i freegans rimarranno una realtà limitata, considerata per lo più una subcultura deviata, il loro movimento sarà al sicuro. Se diversamente emergerà prepotente, come pare stia avvenendo, l’intero fronte delle lobby alimentari mondiali scenderà in guerra contro i freegans.


NOTE:
Enrico Verga è ricercatore associato dell'IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie).
Il presente è la sintesi e rielaborazione di un articolo pubblicato in inglese nella rivista "Longitude".