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Abbiamo perduto l'idea di bellezza

di Gian Antonio Stella - 14/03/2012

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«Guardatevi intorno e cercate con gli occhi, ovunque siate, gli edifici che hanno più di mezzo secolo: è difficile trovarne uno davvero brutto. Poi fate il contrario: cercate con gli occhi, ovunque siate, gli edifici che hanno meno di una cinquantina di anni: è difficile trovarne uno davvero bello».
Salvatore Settis lo ripete in ogni conferenza. Ed è sul serio così. L'idea del «bello», che era quasi «incorporata» nei nostri nonni, si è andata via via perdendo. Peggio, è stata smontata pezzo su un pezzo.
Certo, il disprezzo per il passato non è una novità assoluta. Basti rileggere qualche passaggio della lettera del 1519 di Raffaello (scritta insieme con Baldassarre Castiglione) a papa Leone X. Dove il pittore lamenta il «grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato». E accusa: «Ma perché ci doleremo noi de' Goti, Vandali e d'altri tali perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle?».
Ma se allora saccheggiare una villa romana o storpiare un paesaggio era frutto solo di analfabetismo, oggi c'è qualcosa di più. Lo sostiene nel libro Non possiamo tacere, scritto insieme con Chiara Santomiero e sottotitolato «Le parole e la bellezza per vincere la mafia», monsignor Giancarlo Bregantini, già vescovo di Locri: «Il primo aspetto che si nota arrivando in Calabria, ad esempio, è il disordine edilizio. Ti accorgi della mancanza di un piano regolatore, delle spiagge non curate: la bellezza della natura fa risaltare ancor più l'incuria dell'uomo».
«La disarmonia tra ciò che Dio ha fatto e ciò che l'uomo non è stato in grado di custodire», prosegue il vescovo, «colpisce in molte zone del Sud, specie della Calabria e della Sicilia. È la dimostrazione di un blocco, di un ostacolo. È come se la bruttezza dei luoghi esprimesse tragicamente quel desiderio di violazione che c'è nel cuore del mafioso. E, infatti, i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia. La trascuratezza diffusa diventa, allora, il primo punto su cui far leva per opporsi alla intimidazione, alla violenza».
Fare la guerra al «brutto» vuol dire fare insieme la guerra al degrado, allo spappolamento dell'armonia sociale, al disagio, alla piccola criminalità, allo sfruttamento della prostituzione, allo spaccio, alla mafia. Per questo, davanti alla bruttezza di certi quartieri di periferia, come a Roma il Corviale (due palazzi di cemento armato lunghi un chilometro per un totale di 1.200 appartamenti) o a Napoli le Vele di Scampia, massicciamente presidiate dalla camorra, bisognerebbe riproporre, a rovescio, le targhe d'onore. E apporre sugli edifici più orrendi delle placche belle grandi: «Questo edificio è stato progettato dall'architetto Tizio Caio». Magari con un sottotitolo: «Il quale architetto si è ben guardato dal venirci a vivere...».