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Bisogna accettare la sfida al cambiamento

di Filomena Maggino* - Paolo Bartolini - 14/03/2012

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Benessere, decrescita, felicità: concetti essenziali per un'alternativa reale al pensiero unico della "crescita ad ogni costo". L'analisi del presente e le sfide per il futuro. La qualità della vita e la "speranza di una vita sana". La sfida della complessità presente come occasione per agire un cambiamento radicale della nostra società e porre le basi di una vita migliore per i suoi cittadini.

Professoressa Maggino, la crisi dei debiti sovrani sta conducendo, mediante le politiche di austerità imposte ai governi europei dai grandi centri finanziari internazionali, all’aggressione dei diritti sociali e del lavoro di moltissimi cittadini. Tuttavia non si intravede una risposta collettiva di contrasto a queste misure. Secondo lei a cosa è dovuta questa sorta di diffusa rassegnazione?

Esiste senza dubbio un movimento di protesta diffuso, anche se non emerge in maniera unitaria e organizzata. Ciò rivela indubbiamente la presenza di una sorta di rassegnazione che secondo me è spiegabile soprattutto se osserviamo quanto è successo e sta succedendo in due settori chiave:

-     l’informazione, in quanto detiene una narrazione volutamente falsa e/o distorta finalizzata a creare una visione non aderente alla realtà e un consenso su decisioni prese altrove; tale situazione è percepibile in Italia (e attribuibile non solo alla situazione che si è venuta a determinare durante il ventennio che abbiamo appena trascorso) ma è riscontrabile a livello internazionale (si pensi a tale proposito all’episodio nel quale è stato coinvolto il Presidente della repubblica tedesca e il suo tentativo di mettere a tacere la stampa su alcune non proprio legittime questioni che lo riguardavano)

-     la formazione, la scuola e l’università destrutturate e depotenziate e relegate a semplici “produttori” di forza lavoro e non di cittadini capaci di leggere la realtà ed elaborare proprie interpretazioni. Tutto il dibattito intorno a questo settore vitale della società è ridotto a semplici questioni tecniche/tecnologiche (introduzione della lavagna multimediale, del tablet, e così via). Pensando di poter introdurre anche tutte le innovazioni tecnologiche multi-mediali nel processo formativo non avremmo assolutamente risolto la questione, ovvero quella di avere agenzie formative in grado di formare i futuri cittadini. La formazione nelle nostre società si è spostata in gran parte dalla famiglia e dalla scuola ad altri canali (“agenzie” formative), quali i mass-media (televisioni, ma anche video-giochi, cellulari, …), che condizionano linguaggi, contenuti e formazione delle menti e delle coscienze degli individui.

Un discorso a parte meriterebbe la rete nella quale confluiscono i due precedenti campi sia in senso positivo, in quanto prospetta l’apertura di nuovi spazi dedicati a contenuti culturali nuovi e innovative forme di comunicazione e di reperimento di informazioni da più fonti, sia in senso negativo, in quanto contiene potentissimi elementi sia di controllo dei comportamenti individuali che di formazione delle menti (frammentazione della strutturazione del pensiero)[1].

Tutto questo contribuisce a spiegare come mai i movimenti non riescano davvero ad incidere sulla realtà in maniera efficace, stimolando anche consenso.

Lei si occupa da anni della definizione e della misurazione del benessere sociale e relazionale. Quali sono, a suo avviso, gli indicatori più trascurati nell’odierno dibattito su questi temi?

Sarei tentata di dire “tutti” in quanto il dibattito e anche le decisioni governative sono ancora concentrate su un unico criterio, che è quello della crescita, e su un unico approccio alla sua misura, ovvero il PIL.

Sono decenni che oramai centinaia di studiosi stanno suggerendo che è necessario cambiare paradigma concettuale, passando conseguentemente da misure di quantità (come il PIL, ma non solo) a misure di qualità.

In questo processo di ridefinizione è necessario coinvolgere concetti quali la qualità della vita, la coesione economica e sociale, l’equità, la sostenibilità, nei loro aspetti sia oggettivi che soggettivi (in termini di percezione degli individui).

Dopo l’individuazione dei concetti, occorre individuare i segmenti della realtà in cui osservare tali concetti, i cosiddetti domini, o ambiti (salute, famiglia, lavoro, istruzione, ambiente, …)

Successivamente, occorre sviluppare quegli strumenti tecnici (gli indicatori) con l’obiettivo di informare i cittadini sullo stato del Paese e della comunità ma anche di orientare le decisioni politiche verso obiettivi diversi.

In una tavola rotonda cui partecipai qualche mese fa, un amministratore locale (anche molto apprezzato e apprezzabile per il suo impegno nell’utilizzazione di un nuovi concetti e conseguentemente indicatori per le proprie scelte) affermava come era importante che il suo operato fosse giudicato per le decisioni riguardanti non più solo indicatori economici – legati al concetto di crescita – ma anche, per esempio, indicatori riguardanti i servizi sanitari (quanti servizi sanitari riesce ad organizzare o quanti ospedali è riuscito a costruire). Gli feci notare che se vogliamo veramente cambiare paradigma, l’operato di un amministratore dovrà essere giudicato invece da quante persone sane vivono sul suo territorio. Un tale cambiamento obbligherebbe quell’amministratore a dedicarsi a temi (e conseguentemente a prendere decisioni) quali la qualità dell’aria, del cibo, ….

Paradossalmente, l’amministratore dovrebbe poter comunicare come importante obiettivo raggiunto la diminuzione del numero dei posti letto insieme all’aumento della speranza di vita sana.

In questa nuova ottica, quale indicatore sceglierebbe tra “speranza di vita”[2] e “speranza di vita sana”?

Che ruolo possono giocare secondo Lei le donne per diffondere nel corpo vivo della società un’idea alternativa di benessere, diversa da quella veicolata dai mass media e dalla cultura del consumo?

Io modificherei la questione: in che modo il femminile può diffondere un’idea alternativa di benessere.

Essere donna non garantisce che un’idea alternativa di benessere venga introdotta.

A tale proposito, trovo piuttosto stucchevole, per esempio, il dibattito sulle cosiddette “quote rosa”. Il ruolo all’interno delle istituzioni e delle organizzazioni delle donne non dovrebbe essere stimolato e incoraggiato attraverso la ipocrita definizione di quote. Una società dovrebbe consentire a tutti di dare il proprio contributo, secondo le proprie capacità e non secondo l’appartenenza ad un gruppo (sia esso sociale o biologico).

Occorre però dire che questa questione è particolarmente grave in Italia, a tutti i livelli, non solo dirigenziale / manageriale ma anche nella distribuzione delle attività.

Introdurre il femminile nel dibattito di un’idea alternativa di benessere vuol dire introdurre concetti che legano il benessere non [solo] all’acquisizione di beni e servizi ma [anche] alle relazioni, alla gestione armonica dei tempi di vita, ecc.

Noi osserviamo la condizione della donna nella nostra società secondo modelli e paradigmi (valori, oserei dire) tipicamente maschili. Qual è la percentuale di donne tra i componenti dei consigli di amministrazione? Qual è la percentuale di donne tra i professori ordinari delle università italiane? Qualunque sia la risposta, essa avvia un dibattito che lega questo dato ad un’idea maschile di società (nel caso dei professori ordinari, potremmo, per esempio, mettere in discussione, un tale criterio di distinzione tra i docenti universitari e quindi individuare altri valori importanti per valorizzare la ricerca universitaria).

Concetti come “competitività” ed “efficienza” sono declinati a volte, per come la vedo io, in maniera perversa. Per lavoro viaggio molto e cerco di guardare i mondi che avvicino sempre con occhi critici. A volte mi capita di assistere a scene che rappresentano veri e propri “indicatori” di benessere/malessere di quei Paesi. In un mio recente viaggio in un Paese scandinavo (invitata dal Governo di quel Paese a discutere proprio di come definire e misurare il benessere) ho assistito alla concretizzazione di quell’efficienza che tanto invidiamo loro e che, nell’episodio particolare cui ho assistito, ha lasciato fuori da un autobus una persona in carrozzella perché l’autobus non poteva ritardare di pochi secondi: il sistema che consente di salire sul bus non funzionava e nessuno ha accennato ad un benché minimo tentativo di aiutare quella persona a salire. Secondo lei quella società (in cui si registra, tra l’altro, uno dei più alti tassi di omicidi in Europa, omicidi che avvengono in gran parte tra le pareti domestiche) che destino potrà avere?

Pensa che la Decrescita possa essere “felice” e che rappresenti oggi una forza teorica e pratica adeguata per rilanciare la nostra qualità della vita?

Il pensiero della decrescita non è ancora ben definito (anche nei termini) ed è in fase evolutiva, anche dal punto di vista terminologico. Molti purtroppo ancora associano il termine decrescita a quello di recessione. La questione posta dal movimento che si richiama alla decrescita è seria e anche condivisibile (e ci riferiamo alle proposte di Latouche e Pallante).

Dal punto di vista strettamente concettuale, porre l’accento sulla decrescita vuol dire commettere però lo stesso errore fatto quando si è messo al centro della decisione politica il criterio della crescita.

Concettualmente crescita è un processo cui si è sempre associato un carattere positivo; l’errore commesso è stato proprio quello di credere che avviare un processo (economico) avrebbe portato benessere a tutti. Il cambiamento di paradigma impone di condizionare i processi ad obbiettivi veri di benessere equo, condiviso e sostenibile …

Ritengo che l’aspetto positivo del pensiero della decrescita sia importante, anche se non particolarmente innovativo; potremmo risalire ad Epicuro e all’idea di frugalità e di sobrietà, di significato di vita intesa non più come possesso (“avere”) ma come “essere”.

Interessante in questa prospettiva è il lavoro di Tim Jackson[3].

Vorrei sottolineare a questo punto anche un altro termine che si associa a decrescita, ovvero quello di felicità.

Il concetto di “felicità” usato nel trattare questi temi è il più delle volte deviante, formulato in maniera confusa e utilizzato impropriamente.

Si dovrebbe parlare, invece, di benessere soggettivo, concetto complesso e multidimensionale che richiede una definizione e un conseguente sistema di misurazione particolarmente sofisticato.

Quindi, il mio messaggio aggiuntivo è anche quello di evitare (e diffidare di) semplificazioni e banalizzazioni, che hanno spesso ridotto il dibattito alla identificazione dell’indicatore da adottare in sostituzione del PIL. Per evitare l’errore commesso nell’aver posto alla base della valutazione del benessere della società un concetto legato ad un processo (crescita) e una misura “piatta e semplificante” (PIL) occorre accettare la sfida della complessità presente sia nei concetti che, conseguentemente, nelle misure.

In questa direzione si sta muovendo l’importante progetto BES (benessere equo e sostenibile) avviato congiuntamente dall’ISTAT e dal CNEL.

Tale progetto si inquadra nel vivace dibattito internazionale sul cosiddetto “superamento del PIL”, stimolato dalla diffusa convinzione che i parametri sui quali valutare il progresso di una società non debbano essere solo di carattere economico, ma anche sociale e ambientale, corredati da misure di diseguaglianza e di sostenibilità. Tale progetto prevede un comitato d’indirizzo composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civile – il cui compito è quello di sviluppare un approccio condiviso alla misura del benessere equo e sostenibile (il Comitato ha iniziato i lavori nell’aprile 2011) e da una commissione scientifica (di cui mi onoro di far parte) composta da docenti universitari ed esperti che ha il compito di selezionare e definire gli indicatori statistici più appropriati per misurare i diversi domini identificati dal comitato d’indirizzo, anche alla luce delle raccomandazioni internazionali (la commissione scientifica ha avviato i suoi lavori nel maggio del 2011). Gli indicatori dovranno essere di elevata qualità statistica e limitati in termini numerici, così da favorire la comprensione anche ai non esperti.

Rispetto ad analoghe iniziative avviate in altri Paesi, il progetto italiano presenta un alto valore generale in quanto non è stato avviato da un soggetto (nel Regno Unito, per esempio, l’iniziativa ha coinvolto direttamente il Governo) ma dalla comunità nel suo complesso, attraverso le sue rappresentanze.

Tale processo, proprio perché coinvolge molti soggetti, ha stimolato tutti i partecipanti alla considerazione di aspetti “nuovi” nella misura del benessere, come, tanto per fare un esempio, quello del “paesaggio”, considerato uno degli elementi che definiscono il benessere del nostro Paese (per maggiori informazioni: http://www.misuredelbenessere.it/index.php?id=38).

Le domando, infine, se ritiene che la crisi che stiamo vivendo possa schiudere nuove possibilità per modificare in profondità i nostri stili di vita o se, al contrario, produrrà chiusura ed egoismo come normali esiti dell’ideologia neoliberista e della sua antropologia centrata sull’homo oeconomicus.

Ogni crisi è una sfida al cambiamento soprattutto nel modo di pensare: la logica ci sta dicendo che il vecchio modo di pensare e affrontare la realtà ha condotto/prodotto la crisi; per uscirne occorre modificare / superare / cambiare quel modo di pensare e agire. Le società che non accetteranno la sfida al cambiamento sono destinate a soccombere.

*Membro del Comitato scientifico di Alternativa. Filomena Maggino è Professore di Statistica Sociale dell’Università degli Studi di Firenze, dove è responsabile scientifico del Laboratorio di Statistica per la Ricerca Sociale ed Educativa (Lab-StaRSE).

Presidente dell’Associazione Italiana per gli Studi sulla Qualità della vita (AIQUAV)

President-Elect dell’International Society for Quality-of-Life Studies (ISQOLS)

Componente del gruppo che coordina il Global Project Research Network on Measuring the Progress (stabilito presso l’OCSE)

Componente della Commissione scientifica per la misura del benessere, costituita presso ISTAT nell’Aprile del 2011.

Collabora con l’ISTAT su temi di misura e analisi della qualità della vita.

Membro di numerose associazioni internazionali, dei comitati editoriali di molte riviste scientifiche internazionali. Ha ricoperto e ricopre numerosi incarichi nell’ambito di congressi scientifici nazionali e internazionali (presidente, session organizer, discussant, relatore invitato, commissioni scientifiche).

Autore di numerose pubblicazioni su questioni metodologiche riguardanti principalmente la costruzione di indicatori per la misura, analisi e la valutazione della qualità della vita.

Presso l’Università di Firenze ha tenuto il primo insegnamento in Italia di “Rilevazione e analisi statistica del dato soggettivo”.