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È possibile dare una svolta alla propria vita e ricominciare, ripartendo da zero?

di Francesco Lamendola - 15/03/2012


 

 

E' possibile dare una svolta alla propria vita; è possibile ricominciare, ripartire da zero o quasi, reinventarsi un futuro? E' veramente possibile, oppure lo è solo nei film e nei romanzi e ciò che piace, in essi, è precisamente il fatto di mostrare come possibile ciò che, nella vita reale, si sa bene non esserlo?

Prima di rispondere, dobbiamo chiederci innanzitutto che cosa si intenda con il concetto «dare una svolta alla propria vita»; in secondo luogo, quali siano le circostanze psicologiche e spirituali che, presumibilmente, accompagnano un tale interrogativo.

«Dare una svolta», ovvero, nel linguaggio dei marinai, «virare di bordo», non può essere inteso, evidentemente, in senso puramente materiale: non può essere un fare cose diverse o recarsi in luoghi diversi o unirsi a persone diverse; o, almeno, non può essere solo questo: perché, se così fosse, avemmo solo una apparenza di cambiamento, una esteriorità di cambiamento, ma non un cambiamento vero.

Perché un cambiamento autentico abbia luogo, si tratta di passare da un modo di essere a un altro modo di essere; e tale passaggio può accompagnarsi, e di solito si accompagna, anche ad una serie di cambiamenti esterni, visibili e percepibili dagli altri; ma tali cambiamenti non ne sono affatto l'essenza, ne sono anzi, semmai, la conseguenza: dunque, l'effetto e non la causa. 

Se non si riesce a modificare, nel profondo, il proprio modo di essere, non si può parlare di vero cambiamento. Ad esempio, cambiare il proprio modo di vestirsi, di pettinarsi, di truccarsi, può essere la spia di un mutamento profondo del proprio modo di essere, ma non è detto che lo sia: è molto più frequente il caso che le persone, adottando tali mutamenti di facciata, si illudano di aver realizzato in se stesse un vero cambiamento; oppure che esse, più o meno consapevolmente, vogliano appunto far credere ciò agli altri, paghe dell'effetto che ciò verosimilmente produce nella sfera dei parenti, degli amici, dei conoscenti e dei colleghi di lavoro.

Cambiare se stessi, dunque, e non cambiare soltanto i propri gesti, le proprie compagnie, i luoghi materiali della propria esistenza: ma è possibile? Oppure in noi vi è una struttura fondamentale che non può essere modificata, anche se possiamo dare l'impressione che ciò sia avvenuto, per esempio nel caso di una clamorosa conversione da uno stile di vita a un altro; da un sistema di valori e, quindi, di comportamenti, a un altro? L'Innominato di Manzoni ci offre un buon esempio di un tal genere di conversione, così come il giovane Ludovico, divenuto poi padre Cristoforo: e tuttavia l'interrogativo rimane: al di là di quello che può sembrare, è proprio vero che una persona può cambiare la propria struttura profonda,così come un serpente cambia la pelle?

Il minimo che si possa dire in proposito è che si tratta di una cosa estremamente difficile, se pure è possibile; anzi,  per esprimersi in maniera appropriata, non si dovrebbe parlare di un cambiamento della struttura profonda dell'anima (o, per usare un linguaggio più "laico", della personalità), ma di un eventuale cambiamento del modo di porsi di fronte a sé e di fronte al mondo, pur conservando sostanzialmente inalterata la propria struttura di base.

Qui si potrebbe aprire un discorso a parte su che cosa sia l'io, e, in particolare, se lo si possa e lo si debba considerare come una struttura unitaria e coesa o non, piuttosto - come affermano anche alcune scuole filosofiche e religiose orientali -, una successione o un complesso di operazioni mentali sempre cangianti.

Poiché si tratta di una questione filosofica estremamente ardua e complessa, anche se estremamente importante, ci permettiamo, in questa sede, di lasciarla impregiudicata, contentandoci di avervi fatto cenno; e proseguiamo  dando per dimostrata, anche se dimostrata non è, la struttura unitaria dell'io, per pura comodità di ragionamento (se così non facessimo, ci perderemmo in un labirinto dove fenomeni come la sindrome della personalità multipla metterebbero in crisi la possibilità stessa di ragionare in maniera generale sull'argomento che ci sta a cuore).       

Dare una svolta alla propria vita, dunque, lo si può fare, se con tale espressione si intende una revisione critica del proprio passato, una acquisizione di nuovi valori, una maturazione di nuove certezze e, soprattutto, uno sforzo per tradurre tali esperienze in linee di orientamento per un diverso modo di porsi di fronte al reale, ivi compresa la propria realtà spirituale; non lo si può fare, invece, se si intende che l’io possa modificare radicalmente la propria struttura più profonda e divenire letteralmente altro da ciò che è stato e da ciò che è.

Dal punto di vista psicologico, poi, è facile confondere il cambiamento con le circostanze che lo accompagnano o confondere un più o meno vago senso di disagio, di insoddisfazione, di malessere,  per una autentica e consapevole volontà e capacità di trasformazione, non delle circostanze esteriori della propria vita, ma del proprio modo di essere.

Se, per esempio, ci si trasferisce da un paese all’altro, da un continente all’altro, senza aver affrontato le radici di quel disagio e di quel malessere, non si fa che spostare geograficamente il problema da cui si vorrebbe fuggire; e se si lascia il proprio compagno o il proprio coniuge per un‘altra persona, senza rivedere in nulla il proprio modo di porsi e senza interrogarsi sulle ragioni del precedente fallimento, ci si illude di aver cambiato qualcosa, mentre, probabilmente, si andrà incontro ad una replica della situazione già vissuta.

Un’altra cosa occorre tener presente, quando si ragiona sulla possibilità e sui limiti del cambiamento del proprio io: siamo sicuri che il cambiamento sia in se stesso una cosa positiva e che rechi in se stesso la chiave per la soluzione dei nostri problemi esistenziali?

Secondo le filosofie vitalistiche oggi assai diffuse, la vita è un flusso continuo, un incessante mutamento e una incessante trasformazione; di conseguenza, chi si ferma è perduto, chi cerca di dare al proprio io una struttura rigida e stabile si trova inesorabilmente fuori del flusso della vita, esiliato dalla vita “vera” e alienato da se stesso.

M è proprio vero?

Tanto per cominciare, l’idea che la vita sia una continua trasformazione non è poi così auto-evidente come taluni pretendono: perché vi sono, in essa, degli elementi di permanenza, elementi profondi e radicati, rispetto ai quali il cambiamento non è che il movimento delle acque in superficie, ben poca cosa rispetto alle immense profondità oceaniche, ove nulla del genere si verifica e regnano sempre condizioni uniformi.

E poi, anche se la vita fosse realmente un processo incessante di trasformazione, resta da vedere quanto rapidamente ciò avvenga: perché se le cose cambiano con lo stesso ritmo con cui cambia lo sfondo in cui sono collocate, si può dire che il cambiamento, pur essendoci, è di natura tale da non essere quasi percepito, così come gli uomini non percepiscono il movimento della Terra sotto i loro piedi, benché essa si muova nello spazio a grandissima velocità.

Noi moderni abbiamo eretto la velocità al rango di un feticcio e siamo portati a ritenere che un cambiamento che si rispetti debba essere talmente rapido, da rendersi visibile nel corso di una stessa generazione; ci vantiamo del fatto che non solo i nonni, ma anche i padri stentano ormai a riconoscere il mondo dei figli come il proprio mondo, tanto incessanti e vorticosi sono i ritmi del cambiamento sociale, tecnologico, produttivo, culturale, architettonico, urbanistico.

Ma siamo sicuri che questo cambiamento velocissimo, frenetico, sconvolgente, sia sinonimo di vitalità e di creatività? Non potrebbe essere, invece, un modo di mascherare la paura di affrontare l’unico cambiamento degno di questo nome, il cambiamento che nasce da un lavoro assiduo e generoso su se stessi, per diventare più consapevoli; di camuffare l’incapacità o l’impossibilità di por mano al solo cambiamento grazie al quale potremmo realmente stare al passo, non coi tempi, espressione vuota ed insulsa che è sempre sulla bocca dei conformisti, ma con il nostro io più vero?

Quest’ultimo è tanto più vitale ed autentico, quanto più vive con intensità lo stupore di esserci: laddove tale stupore non è, in se stesso, una forma di cambiamento, ma una forma di profonda consapevolezza dei continui, incessanti mutamenti che ci vengono incontro ad ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni istante.

Perciò, tornando al nostro interrogativo iniziale, se, cioè, sia possibile ricominciare la propria vita, giunti ad un dato momento, ripartendo da zero, la risposta è che nessuno e niente ripartono mai da zero, poiché ciascun ente è figlio di una storia, è il prodotto di innumerevoli circostanze, le quali si legano e si intrecciano le une alle altre, scavalcando continuamente i confini apparenti del tempo e dello spazio.

Questo non significa che non si possa e che, sovente, non si debba voltare pagina, lasciandosi alle spalle situazioni e modi di fare che appartengono ad una stagione della nostra vita, in cui più non possiamo riconoscerci; ma attenzione: voltare pagina non vuol dire ricominciare a scrivere come su di una “tabula rasa”, perché il libro della nostra vita non è fatto di foglietti separati e slegati fra loro, ma di un unico volume, il cui significato profondo risiede appunto nella sua unità e nella sua intima evoluzione.

Una vita che perda tale legame tra i diversi capitoli e tra le varie pagine, magari tra i paragrafi e le righe di una stessa pagina, rischia di smarrire il proprio senso ultimo: che non è certo quello di adeguarsi ai continui cambiamenti del mondo esterno, ma, al contrario, di sintonizzarsi con l’armonia cosmica di cui ogni singolo “io” è una nota, così come i singoli strumenti sono necessari alla perfezione musicale dell’intera orchestra.

Quanta superficialità, quanta insincerità, quanta fuga da se stessi vi sono, il più delle volte, nei paladini accaniti del continuo cambiamento; in tutti coloro i quali, sbandierando come un trofeo l’incessante trasformarsi della propria facciata, non sono capaci di compiere il minimo sforzo per interrogarsi in profondità, per individuare le proprie pigrizie e le proprie viltà, per affrontare la vita con coerenza, con lealtà, con assoluta trasparenza di intenti.

I pesci d’acqua bassa si agitano molto ai bordi dello stagno, girano in cerchi vorticosi, si tuffano e riemergono incessantemente, in modo che è impossibile non attirino su di sé l’attenzione di chi guarda la scena; ma i pesci abissali, che si sottraggono alla vista dei curiosi e dei perdigiorno, benché restino quasi immobili, reggono su di sé una pressione spaventosa, quella di milioni di metri cubi d’acqua che gravano su ogni centimetro dei loro corpi.

Stiamo attenti, dunque: cambiare è necessario per adattarsi ai cambiamenti esterni e, soprattutto, per riflettere la consapevolezza maturata nel corso della propria evoluzione interiore; ma la smania del cambiamento per il cambiamento, la febbre spasmodica della novità in quanto tale, il bisogno compulsivo di riscrivere le pagine del proprio libro di bordo, senza mai fermarsi a riflettere, senza mai chiedersi perché cambiare e verso quali lidi indirizzarsi, tutto ciò non è sintomo di energia vitale, ma di stanchezza, di squilibrio, di dispersione esistenziale.

Nessuno di noi è così ricco da poter disperdere continuamente e impunemente le proprie energie, il proprio entusiasmo, il proprio amore per la vita: disperderlo in mille rivoli insignificanti che si esauriscono, in mille strade che non portano da nessuna parte, in mille slanci che ricadono sempre su se stessi, con monotona reiterazione.

Dobbiamo raccoglierci in noi stessi quanto più è possibile, onde trovare la chiarezza e la fermezza delle quali avremo bisogno per procedere, una volta individuata, almeno nelle grandi linee, la giusta direzione da seguire.

E questo, del sapersi raccogliere in se stessi e ritornare sempre a se stessi, con forze rinnovate e rinvigorite, dopo ogni difficoltà, dopo ogni turbamento, dopo ogni caduta, è il movimento più importante di tutti: il solo, forse, che meriti davvero di essere chiamato tale.

Perché al centro di quel movimento verso il centro di noi stessi, finiremo per trovare l’essenza universale di ogni cosa e l’intimo significato di tutto ciò che esiste, che è esistito e che esisterà mai: la dimora dell’Essere.

La dimora dell’Essere è ovunque, perciò anche al fondo di noi stessi: purché la sappiamo riconoscere e purché siamo disposti a lasciarci guidare dal richiamo della sua luce.