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Lo stato del mondo: la strategia degli Stati Uniti

di George Friedman - 19/03/2012

 
Lo stato del mondo: la strategia degli Stati Uniti

La caduta dell’Unione Sovietica ha messo fine all’epoca europea, un periodo nel quale il potere dell’Europa ha dominato il mondo. A seguito di ciò, i soli Stati Uniti erano rimasti come potenza globale, cosa per la quale questi ultimi non erano culturalmente né istituzionalmente preparati. Sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, gli USA avevano modellato la propria politica estera tramite un costante raffronto con quella sovietica: virtualmente, ogni cosa che essi hanno fatto nel globo era legata in qualche modo a tale confronto. La caduta dell’Unione Sovietica ha, simultaneamente, liberato gli Stati Uniti da questo pericoloso confronto ed eliminato il punto focale della loro politica estera.

Nel corso di un secolo, gli Stati Uniti sono passati da potenza marginale a potenza mondiale. Hanno partecipato ai conflitti mondiali e, successivamente, sono stati coinvolti nella Guerra Fredda per un periodo che va dal 1917 al 1991, sperimentando a malapena 20 anni di pace fra i due conflitti, dominati dalla Grande Depressione e da alcuni interventi nell’America Latina. Di conseguenza, il ventesimo secolo è stato per gli Stati Uniti un periodo caratterizzato da conflitti e dalla crisi. Questi hanno iniziato il secolo senza delle istituzioni di governo tali da poter gestire la propria politica estera; hanno, poi, costruito un apparato di politica estera in grado di rapportarsi con la guerra e il suo spauracchio: l’improvvisa assenza di un avversario ha inevitabilmente lasciato gli USA spiazzati.

Dopo la Guerra Fredda

Il periodo post Guerra Fredda può essere suddiviso in tre parti. Un insieme di ottimismo e, al contempo, incertezza hanno costituito la prima di esse, che va dal 1992 al 2001. Da un lato, la caduta dell’Unione Sovietica ha generato la speranza di un periodo nel quale lo sviluppo economico avrebbe soppiantato la guerra; dall’altro, le istituzioni nordamericane sono nate in guerra, per così dire; di conseguenza, trasformare le stesse per renderle confacenti a un periodo di apparente pace prolungata non era semplice. I presidenti George H.W. Bush e Bill Clinton hanno entrambi perseguito una politica costruita sulla crescita economica, con periodici, e non pienamente prestabiliti, interventi militari in luoghi come Panama, Somalia, Haiti e Kosovo.

Questi interventi non erano visti come critici per la sicurezza nazionale statunitense; in alcuni casi, erano visti come la soluzione a un problema marginale, come il traffico di stupefacenti del dittatore panamense Manuel Noriega. In alternativa, questi erano giustificati, essenzialmente, come missioni umanitarie. Alcuni hanno ricercato un modello o una logica alla base di questi variegati interventi; in realtà, essi erano interventi random così come apparivano in origine, guidati più dalla politica interna e dalle pressioni degli alleati che da un chiaro scopo nazionale. Il potere statunitense era così assoluto e dominante da far sì che questi interventi costassero relativamente poco, e avessero un rischio ancora minore.

Il periodo in cui le indulgenze potevano essere tollerate è terminato l’11 settembre 2001. A quel punto, gli Stati Uniti hanno affrontato una situazione coerente con la propria cultura strategica. Gli USA avevano un nemico reale, sebbene non convenzionale, che rappresentava un pericolo serio per la nazione. Le istituzioni create durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale potevano di nuovo funzionare a pieno regime; in una maniera al contempo tragica e inusuale, gli Stati Uniti erano tornati nella situazione in cui si trovano a loro agio, combattendo una guerra che era stata loro imposta.

Il periodo dal 2001 al 2007 è stato caratterizzato da una serie di guerre nel mondo islamico; come tutti i conflitti, essi hanno visto sia dei brillanti successi sia dei completi fallimenti. Su ciò si possono dare due tipi di giudizi. Primo, se le guerre erano volte a prevenire un attacco di al Qaeda agli Stati Uniti con le stesse modalità di quello dell’11 settembre, allora hanno avuto successo. Sebbene sia difficile comprendere come la guerra in Iraq si connetta con questo obiettivo, tutte le guerre implicano operazioni discutibili; il successo è il metro di misura della guerra. Se, tuttavia, lo scopo di tali guerre era di creare una sfera di regimi pro-USA, che fossero stabili ed emulassero i valori nordamericani, esse hanno totalmente fallito.

Dal 2007 e dall’insurrezione in Iraq, la politica estera statunitense ha mosso i primi passi verso la fase attuale: lo scopo primario non era più dominare la regione, ma era ritirarsi da essa e, nel frattempo, cercare di sostenere quei regimi in grado di autodifendersi e che non fossero ostili agli Stati Uniti. Il ritiro dall’Iraq non ha, però, raggiunto questo scopo, tantomeno lo farà quello dall’Afghanistan. Dopo il ritiro dal territorio iracheno, gli USA si ritireranno anche da quello afghano, incuranti delle conseguenze. Essi non porranno fine al proprio coinvolgimento nella regione e l’obiettivo primario di sconfiggere al Qaeda non sarà più il loro pezzo forte.

Il presidente Barack Obama ha continuato la strategia che il suo predecessore, George W. Bush, aveva intrapreso in Iraq dopo il 2007. Mentre aumentava le forze rispetto a quelle dispiegate da Bush in Afghanistan, Obama ha nondimeno accettato il concetto di un aumento repentino (surge) – l’incremento di forze designato a facilitare il ritiro. Per Obama, il principale problema strategico non erano le guerre ma, piuttosto, il problema degli anni Novanta – ovvero, come adattare gli Stati Uniti e le loro istituzioni a un mondo privo di nemici degni di nota.

Il fallimento del Reset

Il “tasto reset” che Hillary Clinton aveva concesso ai russi simboleggiava la strategia di Obama, il quale auspicava di azzerare la politica estera statunitense al periodo antecedente l’11 settembre, durante il quale gli interventi militari, sebbene frequenti, erano di minore importanza e potevano essere giustificati a scopo umanitario. Le questioni economiche erano centrali e il problema principale era raggiungere la prosperità. Questo era anche un periodo nel quale le relazioni USA-Europa e USA-Cina si erano allineate, e quelle fra USA e Russia erano stabili. Obama, dunque, cercava di tornare a un periodo in cui il sistema internazionale era stabile, pro Stati Uniti e prospero. Ciò è comprensibile dal punto di vista statunitense; ma la Russia, ad esempio, vede gli anni Novanta come un periodo al quale non si deve mai più tornare.

Il problema di questa strategia era che risultava impossibile resettare l’intero sistema internazionale. La prosperità degli anni Novanta aveva lasciato il posto alle difficoltà del post-crisi del 2008; ciò ha ovviamente dato vita a preoccupazioni su come gestire l’economia interna, come abbiamo visto nel primo articolo, mentre la crisi finanziaria aveva ridefinito il modo in cui il resto del mondo operava. L’Europa, la Cina e la Russia degli anni Novanta non esistevano più, e lo stesso Medio Oriente aveva subito dei mutamenti.

Durante l’ultimo decennio del ventesimo secolo, era possibile riferirsi all’Europa come a un’entità unica, prospettando che l’unità europea si sarebbe progressivamente intensificata; ma questo non era più plausibile nel 2010. La crisi finanziaria che ha colpito l’Europa ha spazzato via l’unità esistente negli anni Novanta, mettendo le istituzioni europee sotto pressione, insieme a istituzioni transatlantiche come la NATO. In diversi modi, gli Stati Uniti sono irrilevanti per le questioni che l’Unione europea si trova a fronteggiare; gli europei possono aver bisogno dei soldi statunitensi, ma non vogliono tornare a un modello di leadership tipico degli anni Novanta.

Anche la Cina è cambiata. La preoccupazione per lo stato della sua economia ha preso il posto della fiducia mostrata dall’elite che aveva governato il Paese negli anni Novanta: le esportazioni sono sotto pressione, e le preoccupazioni sulla stabilità sociale sono aumentate. Nell’ambito della politica estera, almeno da un punto di vista retorico, la Cina è divenuta sempre più repressiva e ostile.

Nel Medio Oriente c’è stata poco ricettività verso la diplomazia pubblica di Obama: in termini pratici, l’espansione del potere iraniano è stato sostanziale. Viste le paure israeliane riguardo alle armi nucleari iraniane, Obama si è trovato a camminare su un sentiero molto stretto: da un lato, un possibile conflitto con l’Iran, dall’altro lasciare che gli eventi seguissero il proprio corso.

Limitare gli interventi

Questo elemento è emerso come fondamento della politica estera statunitense: laddove, in precedenza, gli USA si vedevano imperativamente coinvolti nella gestione degli eventi, ora Obama vede chiaramente un problema. Come visto in questa strategia, gli Stati Uniti hanno delle risorse limitate che sono state eccessivamente stressate durante i conflitti: piuttosto che cercare di gestire gli eventi, Obama sta passando a una strategia di limitazione degli interventi e desidera lasciare che gli eventi seguano il loro corso.

La strategia in Europa riflette chiaramente tale approccio. Washington ha evitato qualsiasi tentativo di guidare gli europei verso una soluzione, sebbene gli Stati Uniti abbiano fornito un’assistenza massiccia tramite la Federal Reserve: questa strategia è studiata per stabilizzare più che per gestire direttamente. Con i russi, i quali avevano chiaramente raggiunto una certa sicurezza, il fallimento del tentativo di resettare le relazioni aveva portato al decadere dell’interesse statunitense verso la periferia russa, nonché la volontà degli USA di farsi da parte e lasciare che i russi si evolvessero secondo la loro propensione naturale. Allo stesso modo, indipendentemente dalla retorica insita nelle discussioni fra Cina e Stati Uniti sulla dislocazione di forze per contenere il pericolo cinese, la politica nordamericana rimane passiva e accondiscendente.

È in Iran che vediamo tutto ciò più chiaramente. A parte le armi nucleari, l’Iran sta divenendo un’importante potenza regionale con una sostanziale sfera di influenza. Piuttosto che cercare di bloccare gli iraniani direttamente, gli USA hanno scelto di farsi da parte e lasciare che gli eventi facessero il proprio corso, rendendo chiaro agli israeliani che preferiscono la diplomazia all’azione militare.

Questa non è necessariamente una politica sciocca. L’intera nozione dell’equilibrio di potenza è costruita sull’assunto che gli sfidanti regionali si confrontano con gli oppositori regionali che li controbilanceranno. La teoria dell’equilibrio di potenza afferma che la poenza dominante interviene solo quando vi è uno squilibrio: dal momento che nessun intervento è attuabile in Cina, Europa o Russia, un certo grado di passività ha senso. Nel caso dell’Iran, dove l’azione militare contro le sue forze convenzionali è difficile e contro le sue strutture nucleari rischioso, si applica la stessa logica.

In questa strategia Obama non è ritornato alla logica degli anni Novanta, piuttosto sta cercando di sorvegliare un nuovo terreno. Non è isolazionismo nel suo senso classico, visto che gli Stati Uniti sono oggi l’unica potenza globale. Sembra che il presidente statunitense stia elaborando una strategia nuova, sapendo che molti degli esiti in gran parte del mondo sarebbero favorevoli agli USA, e nessun altro esito sarebbe di per sé superiore o possibile da raggiungere. L’interesse nordamericano sta nel ritornare alla propria prosperità; le disposizioni che gli altri Paesi del mondo prendono sono, entro ampi limiti, accettabili.

Messa in maniera differente, non potendo far tornare la politica estera agli anni Novanta, e non volendo, o non essendo in grado, di continuare la strategia post 11 settembre, Obama sta perseguendo una politica di acquiescenza. Egli sta diminuendo l’uso della forza militare e, avendo un potere economico limitato, sta permettendo al sistema di evolversi da solo.

Implicita in questa strategia è l’esistenza di una forza militare preponderante, in particolare quella navale.
L’Europa non si può controllare con la forza militare, e rappresenta il pericolo di lungo periodo più serio. Nel momento in cui l’Europa si sgretola, gli interessi della Germania possono essere raggiunti meglio tramite i rapporti con la Russia: i tedeschi hanno bisogno dell’energia russa, e i russi hanno bisogno della tecnologia tedesca. Ciò si sposa male con il potere statunitense, il quale potrebbe essere limitato dalle due nazioni in questione. Infatti, un’intesa fra Germania e Russia era una paura fondamentale per la politica estera degli Stati Uniti dalla Prima Guerra Mondiale alla Guerra Fredda: questa era l’unica possibile combinazione che potesse spaventarli. Il controbilanciamento nordamericano, qui, sta nel sostenere la Polonia, che divide fisicamente le due nazioni, insieme con altri alleati in Europa, e gli USA stanno facendo ciò con molta cautela.

La Cina è altamente vulnerabile alla forza navale, a causa della configurazione delle sue acque costiere, il cui accesso è limitato ad alcune strettoie. La massima paura cinese è un blocco navale statunitense, a cui la debole marina della Cina non sarebbero in grado di reagire, ma è ancora una paura lontana. Ciò è ancora uno dei vantaggi degli statunitensi.

La vulnerabilità della Russia risiede nell’abilità degli ex membri dell’Unione Sovietica, che si sta tentando di coinvolgere nell’Unione Euroasiatica, di mettere a repentaglio i suoi programmi post-sovietici. Gli Stati Uniti non hanno interferito significativamente nel processo, ma hanno ancora degli incentivi economici e una velata influenza che potrebbero usare per minacciare o almeno sfidare la Russia. Quest’ultima è cosciente di tali possibilità e sa bene che gli USA non le hanno ancora sfruttate.

La stessa strategia sta tenendo banco in Iran: le sanzioni difficilmente daranno i loro frutti perché sono troppo labili, e la Cina e la Russia non le onoreranno. Gli USA, però, vogliono farvi ancora ricorso non per quello che riusciranno a ottenere tramite esse, quanto per quello che riusciranno a evitare – ossia, l’azione diretta. Retorica a parte, l’assunto che sottolinea l’aquiescenza statunitense è che le forze regionali, la Turchia in particolare, saranno forzate ad affrontare gli iraniani, e quella pazienza farà emergere un equilibrio di potenza.

Il rischio dell’inazione

La strategia degli USA sotto la presidenza Obama è classica, nel senso che permette al sistema di evolversi naturalmente, dunque fa sì che gli Stati Uniti possano ridurre i propri sforzi. Dall’altro lato, il potere militare statunitense è sufficiente affinché, nel caso in cui la situazione si evolva in modo insoddisfacente, un intervento e un capovolgimento siano possibili. Obama deve combattere l’establishment della politica estera, in particolare il Dipartimento della Difesa e l’intelligence, per resistere a più vecchie tentazioni. Egli sta tentando di ricostruire un’architettura di politica estera lontana dal modello Seconda Guerra Mondiale – Guerra Fredda, e ciò richiede tempo.

La debolezza della strategia di Obama è che la situazione in molte regioni potrebbe improvvisamente e repentinamente muoversi verso direzioni indesiderate. A differenza del sistema della Guerra Fredda, il quale tendeva a reagire troppo presto ai problemi, non è chiaro se il sistema corrente impiegherà o meno poco tempo a reagire. Le strategie creano delle strutture psicologiche che a turno modellano le decisioni, e Obama ha creato una situazione in cui gli Stati Uniti possono non reagire abbastanza rapidamente se l’approccio passivo crollasse all’improvviso.

È difficile vedere la strategia corrente come un modello permanente. Prima che gli equilibri di potenza siano creati, le grandi potenze devono assicurare che un equilibrio sia possibile. In Europa, in Cina, contro la Russia e nel Golfo Persico, non è chiaro in che cosa consista l’equilibrio, come non è ovvio che un equilibrio regionale conterrà le potenze emergenti. Dunque, questa non è la classica strategia di equilibrio di potenza, piuttosto, è una strategia ad hoc imposta dalla crisi finanziaria e dal suo impatto sulla psicologia, nonché dall’affaticamento conseguente alle guerre. Questi aspetti non possono essere ignorati, tuttavia non forniscono una base stabile per una politica a lungo termine, che possa plausibilmente rimpiazzare l’attuale politica di Obama.

(Traduzione di Eleonora Peruccacci)