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Il viaggio inutile è quello che lascia il viaggiatore uguale a quando era partito

di Francesco Lamendola - 21/03/2012


Oil Painting Illustrations on the Behance Network 


Ha senso viaggiare, se al termine del viaggio si ritorna a casa perfettamente uguali a come si era al momento della partenza; se si è rimasti impermeabili, nel corso di esso, agli stimoli della differenza, che avrebbero potuto confrontarsi con la propria identità?

Ce lo eravamo già domandato in un precedente articolo (cfr. «Viaggiare o restare?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 14/01/2011); vorremmo adesso riprendere questo interrogativo, approfondendo soprattutto la dimensione interiore del viaggio.

Il viaggio fisico, infatti, che si realizza mediante uno spostamento nello spazio, è solo la modalità più appariscente della categoria “viaggio”; accanto ad esso, che si può verificare sul mappamondo o sulla carta geografica, e testimoniare con fotografie, riprese con la videocamera, schizzi e disegni, esistono altre modalità del viaggiare, prima fra tutte quella che ha per teatro la geografia della propria anima, del proprio mondo interiore.

Ciascuno può essere un Cristoforo Colombo o un Magellano di se stesso, se ha il coraggio di mettersi in gioco interamente, di drizzare le vele verso l’ignoto, cercando però qualcosa di preciso, una terra, uno stretto, un passaggio che gli consenta di ampliare i propri orizzonti, di scoprire nuovi punti di vista, di arricchire la propria umanità più intima e profonda; ciascuno, come Colombo, può navigare tanto nella direzione usuale, quanto nella direzione opposta, se è ben deciso a raggiungere la meta, perché la meta è il viaggio medesimo e il suo senso è l’atto di viaggiare; infine ciascuno, come Magellano, può dirigersi verso il punto di partenza, ma dopo aver scoperto mari e terre nuovi e dopo aver attraversato, da un capo all’altro, tutta la dimensione profonda di se stesso, di cui forse ignorava tutta l’estensione.

In realtà, non è affatto necessario tracciare una netta linea di divisione fra il viaggio in senso materiale ed il viaggio in senso spirituale; il viaggio, in senso profondo, può comprendere entrambi gli aspetti; e, se quello spirituale può aver luogo anche tra le mura di una prigione o di un convento, quello fisico può accompagnarsi anche ad una trasformazione interiore: quello che importa è che il viaggio abbia l’effetto di scuotere le pigre certezze, i pregiudizi consolidati, e spalancare ulteriori orizzonti, dischiudendo nuovi punti di vista; diversamente, si tratterebbe di un viaggio inutile, anche se si trattasse un viaggio sulla Luna, su Venere o su Marte.

Prendiamo il caso di Alvar Nuñez detto Cabeza de Vaca, un avventuriero spagnolo partito nel 1526 insieme alla spedizione di Panfilo de Narvaez sulle coste della Florida. La nave fece naufragio e gli Spagnoli dovettero proseguire il viaggio a piedi, costeggiando il Golfo del Messico in direzione ovest e, poi, sud-ovest, per migliaia di chilometri, una vera e propria Odissea del Nuovo Mondo, soli e dimenticati da tutti: sempre più stanchi e ammalati, sempre più decimati dalla fatica e dalle malattie. Alvar Nuñez raggiunse il territorio dell’odierno Texas, attraversò il Rio Grande, penetrò nel Coahuila, raggiunse la costa del Pacifico, scavalcò la Sierra Madre e alla fine, solo nel 1536, riuscì a raggiungere Città del Messico, da cui ripartì alla volta della Spagna.

Le situazioni estreme nelle quali venne a trovarsi - l’abbrutimento dei suoi connazionali, giunto fino alla pazzia e al cannibalismo, e il contatto con le popolazioni amerindie, senza l’aiuto delle quali non sarebbe mai riuscito a salvarsi -, insegnarono a questo spagnolo onesto e intelligente a guardare al mondo con occhio molto più lucido e aperto di quanto non avesse mai fatto prima; a lasciarsi dietro le spalle il pregiudizio eurocentrico e a riconoscere il valore dei modi di vita diversi dal proprio.

Egli riuscì trasformato e arricchito dalla sua straordinaria esperienza, divenendo un altro uomo da quello che era al momento di imbarcarsi sulle navi della spedizione di Narvaez, partita, come le altre dei “conquistadores”, inseguendo unicamente il miraggio dell’oro e dell’argento.

Testimonianza di tale trasformazione è la relazione da lui scritta per la corona spagnola, nella quale, con rara libertà di espressione e di giudizio, suggeriva una politica più equa da parte della madrepatria nei confronti dei popoli coloniali; relazione che, insieme al suo successivo comportamento (tornò in America e soggiornò alcuni anni nella regione del Paraguay), gli valsero i sospetti e l’ostilità del suo governo e dei suoi compatrioti, che in lui vedevano una specie di rinnegato o, quanto meno, un amico degli Indiani, di cui non potevano più fidarsi.

Il suo itinerario spirituale, nel corso del viaggio, è stato di segno diametralmente opposto a quello di Robinson Crusoe, il quale, dal suo soggiorno solitario sull’isola posta presso le foci dell’Orinoco (in realtà, il “vero” Robinson, ossia il marinaio scozzese Alexander Selkirk, soggiornò sull’isola maggiore dell’arcipelago Juan Fernandez, posto a 600 km. al largo del Cile), esce rafforzato nella propria identità di europeo, di suddito inglese, di puritano, di solido borghese versato negli affari, fondamentalmente identico a quando era partito.

La sua esperienza lo ha irrobustito psicologicamente, ma non lo ha spiritualmente arricchito; non gli ha dischiuso il confronto con l’alterità; non ha messo in crisi le sue certezze; ne ha fatto un uomo più costante, più determinato di prima (da giovane, infatti, aveva dato molti dispiaceri a suo padre con la sua incostanza e la sua fuga dalle responsabilità), ma non un uomo migliore, se “migliore” è colui che ha saputo perfezionarsi, passando attraverso l’esperienza della morte del proprio vecchio io e della rinascita spirituale.

Osservava Giuseppe Mantovani nel suo articolo «Avventure dell’identità» (su: «Psicologia contemporanea», Firenze, Gruppo Editoriale Giunti, 1996, n. 138, pp. 8-11):

 

«L’avventura di Robinson Crusoe, nato a York  nel 1632, offre una ricostruzione idealizzata del cammino che un puritano inglese del tempo deve seguire per ottenere successo economico nel nuovo mondo e pace nella propria coscienza. Al termine delle sue imprese Robinson è fiero delle enormi somme che gli ha fruttato la vendita delle sue piantagioni oltremare. Mentre Alvar Nuñez si ritrova alla fine della sua storia povero ma cambiato dall’incontro con gli indios, Robinson conta una montagna di pezzi da otto che farebbe la felicità di un bucaniere.

Robinson è diventato ricco, ma non diverso. Ha guadagnato, ma non è cambiato. Non ha vissuto nulla di simile alle visioni e ai poteri e al disorientamento che lo spagnolo ha provato. Del resto, come avrebbe potuto cambiare nell’incontro con un’altra cultura, se il suo creatore Defoe lo ha fatto naufragharem, vestito di tutto punto, su un’isola deserta?

Ci rendiamo però conto del fatto che il problema non è questo. Anche quando l’isola cessa di essere deserta la situazione non migliora di molto. Il primo “altro” che Robinson vede diviene immediatamente il suo servo, che egli benignamente cura, nutre, veste e istruisce. Mentre Nuñez  era stato iniziato dagli indios al loro sapere, questo ovviamente non può accadere a Robinson Crusoe: è impensabile che Venerdì possa insegnare qualcosa a Robinson, da cui ha ricevuto tutto, compreso il nome che porta.

Quando poi l’isola deserta si riempie di innumerevoli “altri”, questi sono dapprima dei selvaggi cannibali che sbarcano sul lato opposto dell’isola per celebrarvi i loro orrendi riti, in seguito una ciurma di ammutinati. A Robinson, uomo capace e coraggioso, non resta che combattere e sconfiggerli con l’aiuto dei suoi fucili e di Venerdì nel ruolo di ascaro, restaurando il proprio dominio sull’isola. Anche su questo punto l’esperienza di Nuñez  è inversa. Egli incontra un gruppo di cannibali che però non sono indios ma spagnoli impazziti per le privazioni.

Decisamente, c’è qualcosa che non va nella disposizione di Robinson verso gli altri. […]

Non si può proprio dire che Robinson Crusoe manifesti un atteggiamento di fiducia nei confronti dell’”altro”. Egli si muove come chi si senta circondato da un ambiente ostile, da tenere a bada con la forza. […]

Robinson non incontra un’altra cultura, ma in compenso sfrutta a fondo le risorse della sua cultura d’origine. Egli ragiona, programma, calcola come quell’abile mercante del suo tempo e del suo paese ch’egli è. Prima di mettersi all’opera, stende un bilancio preventivo della sua situazione, redatto come una partita doppia, in piena regola, con la colonna “Male” scritta a sinistra e quella “Bene”” scritta a destra di un foglio piegato in due per il verso lungo e riempito con le note che gli permetteranno di arrivare ad una decisione ben calcolata. Il racconto della sua vicenda può essere letto come un manale dei modi in cui una cultura viene incorporata nei suoi membri e può essere ricreata a partire da ciascuno di essi, purché costui disponga degli antefatti necessari e di un’adeguata forza d’animo (era questo appunto il motivo del fascino che Robinson Crusoe esercitò Degli artefatti prelevati dalla nave il più importante è la Bibbia. È ad essa che egli ricorre per ripristinare il proprio autocontrollo quando lo prende l’angoscia della sua condizione…[…]

Come vediamo, Robinson si auto-amministra il sermone domenicale. Egli scopre sì una cultura, a cui si aggrappa nel suo stato di bisogno, ma è quella con cui era partito. Egli è ora un puritano più convinto di quanto lo fosse alla sua partenza dall’Inghilterra. Ha saputo vincere le avversità con la ragione e la devozione, rimanendo uguale a se stesso per tutto il corso della sua avventura. Che comprende eventi imprevisti e scenari esotici  ma non comporta uno sconvolgimento delle categorie e dei principi ricevuti in patria. Lo stesso non si può dire di Alvar  Nuñez , che si è perso, o almeno si è confuso non poco, al punto di dire “noi” di sé con gli indios e “loro” dei suoi antichi compagni spagnoli. Robinson è rimasto uguale a se stesso ed ha guadagnato un sacco di pezzi a otto: è un modello per i suoi concittadini. Nuñez  ha cambiato pelle: è diventato uno che deve allontanare da sé il sospetto di essere un traditore.»

 

Il viaggio, insomma, ha in se stesso il proprio valore e il proprio significato, a patto, tuttavia, di essere un viaggio autentico e non un semplice trasferimento da un luogo all’altro, da un modo di essere a un altro.

Il viaggio autentico è un’esperienza profonda, radicale, totale: è l’abbandono alla sfida della differenza e la trasformazione intima del proprio io: qualche cosa di simile al viaggio iniziatico di Enea o di Dante nelle regioni misteriose dell’Altrove, dove l’anima è messa interamente a nudo di fronte a se stessa, senza più maschere o finzioni.

L’autentico viaggiatore è colui che si lascia inghiottire dalla balena e che esce rinnovato e trasformato dall’esperienza del buio e della morte: una grave malattia, ad esempio, nelle culture sciamaniche era generalmente la premessa per la rivelazione dell’Altrove e, quindi, per la vocazione dello sciamano alla sua nuova vita. Ma anche nella nostra cultura si è osservato che le persone passate, come il profeta Giona, attraverso l’esperienza di pre-morte, non sono poi mai più le stesse di prima: una luce nuova si è accesa nel loro sguardo, la luce di chi ha visto e compreso cosa sia l’essenziale, in mezzo a tanti richiami artificiali e forvianti che confondono e disperdono il tessuto delle nostre vite.

Il viaggio autentico è l’occasione per una apertura coscienziale che non giunge mai per caso, ma che corona un percorso, magari implicito e potenziale, che l’anima aveva già incominciato a fare e che attendeva solo l’occasione per evolvere verso la pienezza. E questo perché l’anima desta e consapevole è sempre in viaggio: anche se non sembra, anche se gli altri non se ne accorgono - e perfino se non se ne accorge, almeno all’inizio, neppure lei stessa.

Attenzione, però: il viaggio autentico costituisce un’esperienza esaltante, ma anche pericolosa: e i mari dell’anima sono disseminati di vascelli che hanno fatto naufragio sugli scogli, per non aver saputo tenere ben saldo il timone all’avvicinarsi della tempesta!

Non tutti sono pronti per fare un’esperienza simile; lo ripetiamo: non vi si giunge mai per caso, ma solo al termine di una intensa preparazione, che essa sia pienamente consapevole, oppure no. Il principio democratico, secondo il quale l’uguaglianza dei diritti scaturisce da una parità delle condizioni di base, qui vale meno di niente: il viaggio non è un diritto, ma un privilegio; e lo si paga sulla propria pelle, esponendosi a tutti i rischi e i sacrifici che esso richiederà.

E che non si possono mai conoscere in anticipo.