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Libia, Amnesty accusa la Nato

di Michele Paris - 21/03/2012


Le numerose vittime civili causate dall’aggressione militare NATO dello scorso anno in Libia continuano a rimanere senza responsabili. A puntare nuovamente il dito contro l’Alleanza atlantica è stata ieri Amnesty International, secondo la quale la NATO continuerebbe a rifiutarsi di indagare seriamente sui bombardamenti effettuati contro obiettivi non militari nel corso della campagna aerea durata sette mesi nel paese nord-africano per rimuovere Muammar Gheddafi e installare un regime meglio disposto verso gli interessi occidentali.

Le accuse alla NATO di aver provocato un numero imprecisato di vittime tra civili che nulla avevano a che fare con le forze di sicurezza dell’ex regime erano in realtà giunte da più parti fin dall’inizio di un conflitto scatenato attraverso la manipolazione, da parte degli USA e dei loro alleati, della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU lo scorso mese di marzo.

Simili accuse risultano particolarmente gravi, dal momento che, come ha ricordato Donatella Rovera di Amnesty International, nel corso della campagna militare “la NATO ha ripetutamente sottolineato il proprio impegno volto a proteggere i civili”. Anzi, la stessa aggressione contro Gheddafi era stata presentata ufficialmente come un’iniziativa “umanitaria” per evitare un massacro di civili da parte del regime di Tripoli.

Per questo motivo, secondo la stessa Rovera, consigliere per la gestione delle crisi per la ONG britannica, la NATO “non può ignorare le vittime civili limitandosi a emettere generiche dichiarazioni di scuse senza indagare adeguatamente su questi incidenti mortali”. Secondo Amnesty, un’indagine seria dovrebbe stabilire se le vittime civili sono state causate da violazioni del diritto internazionale e, in tal caso, i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia.

Le cifre fornite dalla NATO, con ogni probabilità abbondantemente sottostimate, indicherebbero 55 vittime civili durante i raid sulla Libia, di cui 16 bambini e 14 donne, uccise dopo attacchi aerei che hanno colpito abitazioni private a Tripoli, Zlitan, Majer, Sirte e Brega. A queste vanno aggiunte altre 34 vittime, tra cui 8 bambini, in tre incursioni su due abitazioni a Majer e per le quali non viene data alcuna spiegazione.

Al desiderio di vedere rapidamente archiviata la questione delle responsabilità occidentali per le morti di civili innocenti aveva dato sostanzialmente il proprio contributo qualche giorno fa anche un rapporto della speciale Commissione ONU d’Inchiesta sulla Libia. Questa commissione era stata creata pochi giorni dopo l’esplosione della rivolta a Bengasi e ha presentato le proprie conclusioni il 2 marzo scorso di fronte al Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra.

La Commissione ha documentato 60 vittime e 55 feriti tra i civili in conseguenza delle incursioni NATO prese in esame, anche se l’Alleanza non avrebbe agito in maniera deliberata. In almeno cinque occasioni, tuttavia, la pretesa della NATO di aver colpito centri militari di comando in Libia non è stata supportata dalla realtà sul campo. Per questi casi non sono state trovate prove a sufficienza per raggiungere una conclusione. Al rapporto della Commissione d’indagine, i vertici NATO hanno risposto pochi giorni più tardi, sostenendo che tutti gli obiettivi colpiti in Libia erano legittimi.

Il dibattito attorno al rapporto ONU ha innescato poi un’accesa polemica tra la Russia da una parte e gli Stati Uniti e il nuovo governo libico dall’altra. L’ambasciatore di Mosca alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, nel pieno dello scontro diplomatico sulla Siria, ha chiesto le scuse ufficiali della NATO per le vittime civili provocate dalla campagna militare in Libia. Per tutta risposta, l’ambasciatore americano all’ONU, Susan Rice, ha difeso l’azione della NATO in Libia, facendo riferimento allo stesso rapporto della speciale commissione d’inchiesta nel quale si dice che le forze dell’Alleanza hanno preso tutte le precauzione necessarie per evitare vittime civili.

Gli stessi ribelli, appoggiati nella loro avanzata in maniera decisiva dall’offensiva NATO contro le forze di Gheddafi, nonostante siano stati dipinti dalla stampa occidentale quasi sempre come eroi della rivolta democratica in Libia, hanno frequentemente adottato metodi non meno brutali di quelli del regime contro cui combattevano.

Il trattamento riservato dagli uomini agli ordini del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) agli immigrati africani e ai cittadini libici di colore, ma anche ai combattenti pro-Gheddafi catturati, così come il devastante assedio a Sirte alla vigilia della definitiva caduta del regime e lo stesso barbaro assassinio del rais, sono alcuni tra i crimini più evidenti e maggiormente documentati dell’intero conflitto.

Già nel novembre dello scorso anno, anche il giudice della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno-Ocampo, prontissimo a mettere sotto accusa i principali esponenti del regime, era stato costretto ad annunciare che il suo ufficio avrebbe preso in esame i crimini commessi da entrambe le parti in Libia. Finora, come era prevedibile, la Corte dell’Aia ha tuttavia aperto procedimenti solo contro membri della famiglia Gheddafi e i suoi più stretti collaboratori.

Con il governo provvisorio di Tripoli di fatto alle dipendenze dei paesi occidentali e del Golfo Persico che hanno appoggiato da subito la causa dei ribelli, la Libia non sembra per nulla disposta a consentire un’indagine completa sulle vittime civili causate dalla NATO. Al contrario, la volontà è piuttosto quella di insabbiare qualsiasi procedimento che cerchi di portare alla luce le responsabilità delle milizie locali e dei loro sponsor occidentali in un conflitto che ben poco ha a che fare con le aspirazioni democratiche del popolo libico e molto di più, invece, con gli interessi strategici delle potenze coinvolte.

Solo in questi ultimi mesi sono stati parecchi i rapporti critici del CNT e della NATO. A gennaio, ad esempio, alcune ONG mediorientali (l’Organizzazione Araba per i Diritti Umani, il Centro Palestinese per i Diritti Umani e il Consorzio Internazionale per l’Assistenza Legale) avevano documentato i crimini di guerra commessi sia dai ribelli che dalla NATO. Anche in questa occasione, gli autori dello studio sul campo chiedevano un’indagine sulle vittime civili dei bombardamenti contro scuole, edifici governativi e abitazioni private, nonché sugli abusi subiti dai soldati e dai combattenti pro-Gheddafi detenuti dal CNT.

A febbraio, infine, la stessa Amnesty International aveva descritto dettagliatamente in un rapporto i metodi di tortura ampiamente diffusi nelle carceri libiche gestite dal nuovo governo, dove vengono detenuti  presunti membri del vecchio regime e fedelissimi del colonnello. Anche in questo caso, ovviamente, i vertici del CNT, con la complicità dei governi occidentali autoproclamatisi difensori dei diritti umani in Libia, hanno accuratamente evitato di aprire un qualche procedimento per individuare e punire i responsabili degli abusi.