Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Siria tra terrore e diplomazia

Siria tra terrore e diplomazia

di Michele Paris - 21/03/2012

Il conflitto in corso ormai da un anno in Siria è sembrato intensificarsi negli ultimi giorni con una serie di attentati terroristici e violenti scontri armati nelle due principali città, Aleppo e Damasco, fino a poco tempo fa relativamente risparmiate dal caos registrato nel resto del paese. Nella capitale, in particolare, lunedì sono stati segnalati combattimenti nei pressi del quartiere benestante di Mezzeh tra le forze di sicurezza del regime e l’opposizione armata.

Secondo i resoconti dei media occidentali, gli scontri nel quartiere che ospita molte residenze diplomatiche e uffici delle Nazioni Unite sarebbero stati i più intensi dall’inizio della rivolta andati in scena a Damasco. Per i gruppi dissidenti di stanza all’estero, il "Libero Esercito della Siria" avrebbe lanciato un’offensiva a Mezzeh per mostrare al regime la capacità tuttora intatta dell’opposizione di colpire obiettivi sensibili anche dopo i progressi delle forze di sicurezza nelle ultime settimane.

Secondo quanto riportato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, l’organizzazione di stanza a Londra puntualmente citata dalla stampa internazionale nonostante i profondi dubbi sulla sua attendibilità, gli scontri di lunedì nella capitale avrebbero causato 18 morti tra i fedelissimi di Assad. I dati dell’agenzia di stampa ufficiale SANA indicano invece una vittima tra le forze del regime e due tra i ribelli.

Questi ultimi episodi seguono le devastanti esplosioni del fine settimana che avevano colpito le stesse metropoli siriane, considerate il centro nevralgico della base di potere del regime alauita del presidente Bashar al-Assad. Tre autobombe esplose a Damasco e Aleppo avevano ucciso un totale di 29 persone e fatto più di cento feriti. I più recenti attentati hanno così confermato come tra l’opposizione appoggiata dall’Occidente e dai paesi del Golfo Persico ci siano gruppi terroristici che cercano di destabilizzare il regime, anche se non appare del tutto chiaro se essi siano affiliati all’opposizione stessa oppure operino in maniera indipendente.

Per gli attentati di Damasco e Aleppo, in ogni caso, il governo siriano ha per la prima volta puntato il dito in maniera esplicita contro altri paesi arabi, accusando Qatar e Arabia Saudita di istigare attacchi terroristici. I precedenti attentati organizzati nelle stesse città erano stati attribuiti sia dal regime che dall’Occidente a cellule di Al-Qaeda, verosimilmente provenienti dal vicino Iraq.

L’aumento delle violenze in Siria è coinciso con l’arrivo a Damasco di un team di osservatori ONU inviati dall’ex segretario generale, Kofi Annan, il quale settimana scorsa aveva incontrato Assad in due occasioni nel tentativo di promuovere una soluzione pacifica alla crisi e fermare gli scontri, così da consentire l’ingresso nel paese di aiuti umanitari. Gli attentati e gli scontri dimostrano però come le opposizioni armate intendano far naufragare sul nascere qualsiasi possibilità di dialogo.

A fronte di queste operazioni anti-regime, le forze fedeli ad Assad hanno invece recentemente ripreso il controllo di alcune città che sembravano essere, almeno parzialmente, nelle mani dei ribelli, come Idlib nel nord del paese, Dara’a a sud e, proprio nella giornata di martedì, Deir al-Zor a est.

Sempre martedì, i gruppi di opposizione costretti a lasciare queste località hanno dovuto incassare per la prima volta un duro colpo alla loro immagine di difensori delle aspirazioni democratiche del popolo siriano, almeno secondo la propaganda della maggior parte dei media occidentali.

In una lettera aperta indirizzata al Consiglio Nazionale Siriano (CNS), Human Rights Watch ha infatti accusato i ribelli armati di aver commesso seri abusi e violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni sommarie, rapimenti, detenzioni arbitrarie e torture ai danni di membri delle forze di sicurezza del regime ma anche di civili.

La denuncia dell’ONG newyorchese sembra dare credito dunque a quanto sostenuto da tempo dalla Russia, secondo la quale entrambe le parti coinvolte nel conflitto in Siria si sono rese responsabili di atti di violenza e, perciò, per giungere ad una soluzione negoziata è necessario che le Nazioni Unite facciano appello sia al regime che all’opposizione.

Lo stesso governo di Mosca nella giornata di martedì ha anche fatto sapere di essere pronto ad approvare una risoluzione ONU che appoggi il piano di pace di Kofi Annan, peraltro non ancora reso ufficialmente pubblico. Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, la risoluzione non deve suonare però come un ultimatum per Damasco, così come non deve richiedere le dimissioni di Assad.

Secondo alcuni, la posizione di Mosca, soprattutto in seguito alla recente rielezione alla presidenza di Putin, rivelerebbe da qualche tempo una certa impazienza nei confronti dell’alleato siriano dopo il potere di veto esercitato, assieme alla Cina, in due occasioni per bloccare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU altrettante risoluzioni che avrebbero aperto la strada ad un intervento esterno sul modello libico.

La Russia nei giorni scorsi aveva infatti chiesto a Damasco di aprire dei corridoi umanitari in Siria e di permettere l’acceso della Croce Rossa. Lo stesso Lavrov, parlando al Parlamento russo, aveva poi criticato Assad, mettendolo in guardia da un’implementazione troppo lenta delle riforme promesse, con il rischio che il conflitto possa sfuggire definitivamente di mano.

Quest’ultimo è il rischio che Mosca sembra temere maggiormente, cioè che la crisi in Siria si aggravi a tal punto che Russia e Cina non siano più in grado di reggere le pressioni internazionali e di difendere Assad e i propri interessi in Medio Oriente di fronte all’assalto occidentale. La posizione della Russia è complicata tuttavia dal fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati europei e nel mondo arabo appaiono ormai decisi ad andare fino in fondo con il cambio di regime a Damasco, aldilà delle concessioni di Assad o di qualsiasi soluzione di pace si cerchi di percorrere.

Nel frattempo, anche l’offensiva diplomatica si sta intensificando. I paesi riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar), ad esempio, qualche giorno fa hanno annunciato la chiusura delle loro rappresentanze diplomatiche in Siria dopo aver ritirato da tempo i propri ambasciatori.

Le monarchie assolute del Golfo, strettissime alleate degli Stati Uniti, sono in prima linea per arrivare alla rimozione di Assad, così da assestare un colpo mortale all’Iran, e criticano perciò apertamente il regime per l’escalation di violenza che esse stesse contribuiscono ad alimentare fornendo armi e sostegno materiale all’opposizione.

Pur non appoggiando in maniera ufficiale la fornitura di armi ai ribelli, principalmente per il timore che possa esplodere il caos nelle aree di confine con la Siria, anche la Turchia è al centro delle manovre anti-Assad. Oltre a dare rifugio ai vertici del CNS e del Libero Esercito della Siria, il governo di Erdogan il prossimo 2 aprile ospiterà entro i propri confini il secondo summit dei cosiddetti “Amici della Siria”, dopo quello tenuto in Tunisia a febbraio senza Russia e Cina, per coordinare le prossime mosse e cercare di indirizzare la crisi vero un esito gradito.

Secondo una fonte anonima citata martedì dalla Associated Press, infine, anche tutti i paesi dell’Unione Europea potrebbero decidere di chiudere a breve le loro ambasciate a Damasco in seguito agli scontri di lunedì nella capitale. La misura dovrebbe essere discussa nel corso di un vertice UE a Bruxelles in programma domani e venerdì. Finora, sei paesi UE hanno già chiuso le loro ambasciate a Damasco, mentre molti altri hanno ridotto sensibilmente il personale diplomatico impiegato in Siria.