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Che cosa vuol dire essere sinceri?

di Francesco Lamendola - 23/03/2012


 

 

Alla voce “sincero”, il vocabolario Zingarelli dà questa definizione: «Che nell’agire, nel parlare e simili, esprime con assoluta verità ciò che sente, ciò che pensa (dal latino: sincerum = schietto, puro)».

Sembrerebbe tutto chiaro; così come appare chiaro perché la sincerità sia sempre stata esaltata come una bella e necessaria qualità, mentre il suo contrario, cioè l’essere bugiardi, sia sempre stato condannato come un vizio brutto e dannoso.

Senonché, più ci si riflette e più la cosa appare assai meno limpida ed auto-evidente di quel che potrebbe sembrare di primo acchito. Se ciò che una persona sente e pensa non è sincero, ma ella crede che lo sia, allora ne consegue che quella persona è, a suo modo, perfettamente sincera; ma ciò non toglie che quel che pensa, sente e dice, non siano affatto la verità.

Dunque, incominciamo con il separare i due concetti, che a torto sembrano intercambiabili: una cosa è l’essere sinceri, un’altra e ben diversa è l’essere veridici. Per essere sinceri basta dire quel che si pensa e che si sente (il che non è poco, certo); ma, per essere veridici, è necessario molto di più: è necessario che il sentire e il pensare siano in accordo con la verità oggettiva.

Arduo problema: che cos’è la verità?  Se lo chiedeva anche, ma da un punto di vista chiaramente scettico, il procuratore romano Ponzio Pilato (Giovanni, 18, 38), mentre interrogava Gesù Cristo per cercar di capire in quale terribile guazzabuglio lo avessero cacciato i sacerdoti del Sinedrio, mentre una sola cosa egli capiva, con infallibile istinto: che essi volevano morto l’imputato, ad ogni costo, benché egli, da parte sua, non vi trovasse alcuna traccia di una colpa così grave da  meritare la pena capitale.

Strana e inattesa scoperta: non basta essere sinceri, bisogna anche essere veridici; o, almeno, sforzarsi di esserlo: ma, appunto, è possibile dire la verità, sentire la verità, vedere e riconoscere la verità?

E c’è una sola verità, oppure ve ne sono molte, moltissime (una, nessuna e centomila, direbbe il nostro buon Pirandello; ma lo direbbe anche il Kurosawa di «Rashomon»), ognuna delle quali tende a sfuggirci irrimediabilmente come la sabbia in riva al mare, non appena tentiamo di afferrarla e di stringerla fra le nostre dita?

E non basta ancora: esiste un “io” che possa misurarsi con il mistero, con l’abisso senza fondo della verità, posto che qualcuno sia in grado di gettarvi anche solo una fuggevole occhiata, se non altro per misurarne tutta l’insondabile profondità?

Oppure ciascuno di noi non possiede un “io”, ma soltanto un complesso di operazioni mentali sempre in movimento, parte di un flusso vitale che non si ferma mai e che, perciò, fa sì che noi siano tanti quanti gli attimi che compongono la nostra esistenza?

Partiamo da quest’ultimo punto; più a monte non si può risalire.

Non è possibile dire, con gli strumenti conoscitivi che possediamo, se noi “siamo” un io, oppure se “abbiamo” un io, o magari numerosi io; cercare di stabilirlo con assoluta certezza sarebbe come cercare di afferrare la propria ombra: ogni volta che crediamo di averla presa, ci ritroviamo a stringere il nulla. Quel che è certo è che “dobbiamo” vivere come se fossimo un io; diversamente, la vita diventerebbe impossibile, scivolerebbe nella pazzia. Ciascuno potrebbe dire e negare la medesima cosa nel giro di pochi istanti; e, quel che più conta, potrebbe rivendicare per sé la più assoluta sincerità.

Una cosa, infatti, sono le necessità pratiche della vita; un’altra cosa è la verità filosofica. Non c’è dubbio che, quando un uomo, magari a distanza di anni, viene giustiziato per un crimine commesso in precedenza, le autorità commettono una enorme ingiustizia, perché l’io di quell’individuo non è più, alla lettera, l’io che aveva commesso quel tale crimine. E tuttavia, come fare altrimenti?

Ci piaccia o no, noi dobbiamo fare “come se” fossimo degli io coerenti e duraturi: se facciamo una promessa, dobbiamo mantenerla; non possiamo cavarcela dicendo che colui che fece la promessa più non ci appartiene, e che noi siamo un soggetto completamente diverso; sarebbe troppo comodo, e per la società organizzata sarebbe la fine.

Vi sono stati e vi sono dei pensatori e degli scrittori i quali non riescono a rassegnarsi a questo stato di cose; i quali sostengono che noi siamo costretti a rispondere di cambiali che qualcun altro ha firmato al posto nostro, e che su tutta la nostra vita grava il peso di scelte e decisioni che non siamo stati noi a prendere, ma qualcun altro, che portava il nostro stesso nome.

È una protesta legittima, ma, a nostro avviso, assolutamente sterile. Quella cambiale esiste e qualcuno deve pagarla: e, dal momento che reca la nostra firma, bisogna che lo facciamo noi, che siamo noi ad assumercene la responsabilità. Se tutti faranno lo stesso, ecco che l’assurdità della situazione verrà alquanto riequilibrata: i problemi sorgono quando qualcuno si rifiuta di onorare la cambiale, in un mondo ove la maggioranza lo fa, o, almeno, riconosce giusto e doveroso farlo (anche se magari, all’atto pratico, parecchi tentano di menare il can per l’aia il più a lungo che possono).

Dipende da noi far sì che si riesca a vivere in un mondo ove sia possibile fidarsi l’uno dell’altro: pagando la cambiale, senza far troppe storie, così come vorremmo che facessero nei nostri confronti coloro che ci sono debitori. Siamo tutti sia debitori, che creditori: tutti abbiamo da pagare e tutti avremmo da riscuotere la nostra parte.

Veniamo alla seconda domanda. Esiste una verità, una verità vera, una verità oggettiva?

Quando Giovanna d’Arco sentiva le “voci” e lo dichiarava ai suoi accusatori, mentiva o diceva la verità? Diceva la verità, certamente; ma la verità, qual era? Che quelle voci esistevano, per così dire, fuori di lei, cioè oggettivamente, oppure dentro di lei, soggettivamente?

E qui il problema si fa spinosissimo: perché, come osservava George Berkeley, “esse est percipi”, “essere è l’essere percepito”: e noi non possiamo percepire alcunché se non dentro il nostro universo sensoriale, per mezzo del nostro universo sensoriale, e nulla sappiamo di quel che rimane al di fuori di esso.

I cosiddetti realisti, e in genere tutti i positivisti, ritengono che sia possibile operare una distinzione netta e incontrovertibile fra ciò che è “dentro” e ciò che è “fuori” della coscienza; ma il loro è un clamoroso errore di prospettiva, che nasce da un peccato di riduzionismo: pensare che la realtà possa essere sezionata e divisa a piacere, solo per la comodità di colui che lo indaga, assecondando le sue categorie mentali ed i suoi radicati pregiudizi scientisti e razionalisti.

In effetti,  il reale è uno solo: non esistono parti, ma soltanto punti di vista di un’unica realtà; di conseguenza,  non esistono un “dentro” e un “fuori”, per il semplice fatto che la nostra coscienza è il prodotto di una mente non localizzata, che coincide, in ultima analisi (e benché la coscienza, nella gran maggioranza dei casi, non ne abbia consapevolezza) con l’intera dimensione della realtà: passata, presente e futura.

Il fatto che esistano delle clamorose discrepanze fra la “verità per me” e la “verità per te” sta a indicare, semplicemente, che è difficile, se non impossibile, conciliare i differenti punti di vista; non che l’uno sia più reale di un altro: anche le fantasie, anche i sogni, anche le allucinazioni sono reali; così come sono reali, perfino più reali della realtà ordinaria, le esperienze spirituali trascendenti, nelle quali il soggetto ode, vede e sperimenta cose che nessun altro, all’infuori di lui, può vedere, udire e sperimentare.

Questo non significa che non esista alcuna differenza fra verità e menzogna; la menzogna è un’altra cosa: è la deformazione consapevole, deliberata della realtà. Per cui il vero problema è quello di vedere se la deformazione della realtà sia deliberata, non se essa abbia luogo: perché ogni verità umana è una “verità per sé” e, dunque, una verità che non coincide con quella degli altri e che, in questo senso, si potrebbe anche definire, ma con un linguaggio impreciso ed estremamente grossolano, “falsa”,  rispetto ad una supposta oggettività, che in effetti non esiste.

Ed eccoci ritornati alla prima domanda, dalla quale eravamo partiti; esiste la verità, esiste una sola ed assoluta verità, che sia possibile dire, pensare, vedere?

Anche qui, la domanda andrebbe sdoppiata in due sotto-domande: se esista la verità in quanto tale, e se sia possibile riconoscerla.

Alla prima domanda rispondiamo che la verità certamente esiste, perché essa coincide, in ultima analisi, con la realtà: e, se la realtà ultima è una, anche la verità deve essere una, e dunque deve poter esistere e non essere altro da sé.

Alla seconda domanda rispondiamo che essa, per sua natura, trascende la possibilità di indagine razionale del singolo individuo, la quale è capace di procede solo metodicamente, inanellando una verità parziale dopo l’altra: ma non esiste alcuna speranza che la somma di tante verità parziali possa dare la verità totale, non più di quanto il bambino che raccoglieva l’acqua del mare in una buca scavata sulla spiaggia, potesse riuscire a travasarla tutta.

La ragione umana, che procede per prove e dimostrazioni, deve fermarsi dopo ogni nuova acquisizione e ricominciare, sempre per prove e dimostrazioni, ad affrontare il gradino successivo: non può, essendo finita, abbracciare simultaneamente il mistero della verità, che, coincidendo con il mistero della realtà, è infinito.

Esiste, però, un’altra strada, esiste un’altra possibilità di avvicinarsi al mistero della verità: quello dell’apertura coscienziale, dell’abbandono consapevole, lucido, vigile, al flusso cosmico del reale, che è tutt’uno con la verità ultima. Si tratta di una visione fugace, ma sublime, che pochissimi individui riescono a raggiungere e solo per frammenti di tempo: ma che cos’è il tempo, se non il nome che noi diano alla manifestazione del reale? Che cosa sono i secoli e i millenni, che cosa sono i milioni di anni, di fronte all’illuminazione istantanea, a-temporale, divina, che riempie l’anima di splendore e beatitudine e che l’orologio avaramente tenterebbe di descrivere in termini di pochi secondi, al massimo di minuti?

Ed ora, la questione da cui aveva preso le mosse il nostro ragionamento: la possibilità di essere sinceri.

Se per “sinceri” si intende che possiamo descrivere fedelmente la realtà, la risposta è affermativa, ma solo a due condizioni: che ci impegniamo a lavorare duramente su noi stessi, in modo da rendere il nostro sguardo interiore sempre più limpido e trasparente, liberandoci dalle scorie delle cattive abitudini (brama, timore, gelosia, ecc.); e che teniamo sempre presente che quell’avverbio, “fedelmente”, significa fedelmente a come l’abbiamo vista, sentita, pensata e non a come essa è in se stessa. A quest’ultimo genere di fedeltà, che coincide con l’essere perfettamente veridici, noi ci possiamo più o meno avvicinare, secondo la strada che abbiamo fatto sul cammino della consapevolezza; non mai giungervi e farla nostra completamente.

Ora, il fatto che noi non siamo mai interamente veridici, anche se, talvolta, siamo capaci di sincerità, non deve indurci alla pigrizia morale, non deve trasformarsi in un comodo alibi per scusare le nostre infedeltà, le nostre vigliaccherie, i nostri tradimenti, a cominciare dai tradimenti più insidiosi, quelli nei confronti di noi stessi.

Si ricordi quel che dicevamo poc’anzi: la cambiale va pagata comunque, se vogliamo essere uomini e donne d’onore; se non vogliamo trasformarci in burattini senza dignità, senza parola, senza alcun senso etico.

D’altra parte, questa affermazione non va interpretata nel senso che noi dobbiamo caricarci sulle spalle un peso superiore alle nostre forze: perché, se così facessimo, finiremmo per crollare comunque, oppure per rompere ugualmente le nostre promesse: e forse, a quel punto, faremmo più male, agli altri ed a noi stessi, di quel che avremmo fatto se avessimo chiarito fin dal principio in quale misura ci sentivano obbligati al rispetto della cambiale.

Una cosa deve essere chiara: quella famosa cambiale non è un elemento estraneo, calato dall’alto, una irruzione aliena e minacciosa nel giardino ben curato della nostra vita; è parte di una legge cosmica, alla quale apparteniamo, e che non concede diritti senza l’assunzione di doveri, non promette gioie a chi non sia disposto ad affrontare anche i sacrifici, le difficoltà, i dolori.

Esistono, nella vita, un dare ed un avere, che si bilanciano non secondo i nostri umani e fallibilissimi criteri di giustizia, ma secondo un ritmo universale, mosso da una sapienza ben superiore alla nostra e a noi inattingibile; ma della quale possiamo e dobbiamo imparare a fidarci…