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Nella splendida «Marantha» vive il ricordo d’un grande botanico del Rinascimento

di Francesco Lamendola - 28/03/2012


 


 

Quando una signora dai gusti raffinati colloca nel soggiorno di casa sua una splendida pianta in vaso come la «Marantha leuconeura», della famiglia delle Marantaceae, in posizione ombreggiata ma non troppo, e badando a mantenerla costantemente umida, quasi certamente ignora di far rivivere la memoria di un insigne studioso italiano del Rinascimento: Bartolomeo Maranta, medico-fisico e botanico giustamente celebre ai suoi tempi.

Era nato a Venosa, la patria del sommo poeta latino Orazio, nel 1500 (secondo un’altra versione, nel 1514) e si spense nel 1571, a Molfetta: la sua vita, dunque, coincide con la stagione culminante del Rinascimento. Era figlio dell’avvocato e accademico Roberto Maranta, da Venosa, e di Beatrice Monna, da Molfetta; suo padre era stato un giurista di fama, aveva insegnato presso la prestigiosa Università salernitana e aveva scritto un trattato di grande successo, lo «Speculum aureum et lumen advocatorum».

Dopo gli studi a Napoli, Bartolomeo Maranta si trasferì allo Studio pisano, ove ebbe a maestro il fisico e botanico Luca Ghini. Dal 1554 al 1556 lavorò presso l’Orto Botanico di Napoli, fondato da Vincenzo Pinelli, e nel 1558 fu tra i fondatori di un orto botanico a Roma.Amico del naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (con cui ebbe un epistolario di cui restano ventidue lettere), fu anche in rapporti di amicizia con Pietro Andrea Mattioli, rapporti che poi si guastarono e divennero di rivalità dopo la morte del comune maestro, di cui entrambi aspiravano ad ereditare il ricco e prezioso erbario.

A Mantova, lavorando alle dipendenze del duca di quella città, Vespasiano Gonzaga, e del cardinale Branda Castiglioni, fuse i suoi interessi per la botanica e per la medicina nell’opera «Methodi cognoscendorum simplicium», del 1559, in cui espone una vasta farmacologia botanica, descrivendo le diverse specie ed illustrando le loro rispettive proprietà medicinali, secondo l’antica tradizione del “giardino dei semplici”, ossia delle varierà vegetali aventi virtù medicamentose (secondo la definizione di Luca Ghini: «un luogo pubblico, dove…  si coltivassero le piante native di climi e paesi differentissimi, affinché i giovani studenti le potessero, in breve spazio di luogo, con facilità e prestezza imparare a riconoscere»).

Altri due aspetti caratteristici della vita e del percorso culturale di Bartolomeo Maranta meritano di essere evidenziati.

Il primo è il suo particolare interesse per un ambito di ricerche un po’ misterioso e vagamente sinistro: i rimedi contro i veleni. Egli sosteneva che l’efficacia della “mitridatizzazione” era stata provata fin all’antichità, facendone degli esperimenti pratici sugli esseri umani, detenuti già condannati a morte; e che, se talvolta il rimedio falliva, ciò era dovuto all’imperizia dei fisici e dei botanici, non all’inefficacia dell’infuso vegetale. Si considerava un esperto in questo ambito e svolse controversi esperimenti presso il laboratorio di Ferrante Imperato, i cui risultati portarono alla pubblicazione di un trattato in due volumi sugli antidoti contro i veleni, intitolato «Della theriaca et del mithridato», nel 1572.

Che si trattasse di un ambito di studi piuttosto inquietante e che non tutti fossero disposti a riconoscere il valore scientifico e l’efficacia pratica dei preparati di Bartolomeo Maranta è dimostrato anche dal fatto che, proprio in quegli anni, due medici vennero espulsi dal Collegio dei fisici di Brescia per una vicenda che coinvolse, anche se non direttamente, il Nostro e che gli attirò alcune critiche piuttosto serie.

Del resto, bisogna tener conto del fatto che, durante il Rinascimento, il veleno era probabilmente lo strumento di lotta politica più diffuso nelle corti dei signori e perfino in quelle di sovrani, cardinali e pontefici; esisteva una richiesta sia di veleni, sia di contravveleni: non deve pertanto stupire che quanti avevano fatto dei “semplici” il loro specifico campo di studi, venissero sollecitati o, quanto meno, invogliati a dare il loro contributo in tal senso, tanto più che esisteva una ricca clientela disposta a pagare bene per le loro ricerche.

Questo, insieme al contributo dato da lui dato per lo sviluppo degli orti botanici in Italia e per la conoscenza scientifica delle piante, è l’aspetto tipicamente rinascimentale della personalità e dell’opera svolta da Bartolomeo Maranta; ma c’è anche un altro aspetto che merita di essere evidenziato, e cioè il suo interesse per le questioni di critica letteraria.

Autentico uomo del Rinascimento, con una visione globale del sapere e, quindi, in possesso di una cultura che spaziava a trecentosessanta gradi sull’intero arco del conoscere, scientifico ed umanistico (distinzione che è propria della modernità, ma che era ignorata sia dall’Umanesimo, sia dallo stesso Medioevo), espose il frutto delle sue riflessioni sulla letteratura in un’opera considerevole, in ben cinque volumi: le «Lucullianae quaestiones», apparse nel 1564, nelle quali traspare il suo orientamento generale aristotelico e la sua speciale attenzione per la poetica di Torquato Tasso e per la  «Gerusalemme liberata».

Si tratta di un’opera che presenta caratteri di originalità, perché in essa Maranta, praticamente unico nel panorama della teoria letteraria del suo tempo, sostiene la superiorità della poesia sia rispetto alla retorica, sia rispetto alla storiografia; per questa ragione è stato accostato a Sir Philip Sidney, che, nell’ambito della cultura inglese, sostenne posizioni analoghe.

Un altro motivo di originalità risiede nella tesi, da lui sostenuta, che i poeti sono in grado di esercitare sul pubblico una influenza pedagogica più profonda e incisiva di quella degli stessi filosofi, a causa dell’immediatezza del loro linguaggio e dell’universalità di un discorso sull’uomo incentrato sulle passioni dell’anima (ma su questo aspetto della sua opera, vedi anche la voce omonima di Wikipedia in lingua inglese).

Per quello che riguarda la pianta che oggi porta il suo nome, bisogna dire che Bartolomeo Maranta non si recò mai nella sua terra d’origine, al di là dell’Atlantico: i tempi non erano ancora maturi perché i botanici organizzassero delle spedizioni scientifiche nelle lontane isole oceaniche e nei continenti extra-europei (ci sarebbero voluti ancora, anzi, quasi due secoli); nel 1500, erano i navigatori, i commercianti e i primi governatori coloniali che tornavano dai loro viaggi e dalle loro missioni economiche e amministrative, portando, a bordo delle loro navi, esemplari della flora e della fauna di quelle terre, che poi finivano nelle mani degli studiosi, nei loro gabinetti scientifici e nei loro erbari o nei loro orti botanici.

La maranta, di cui esistono ben una cinquantina di specie, varietà e forme, è tipica delle foreste tropicali centro e sudamericane, mentre nei climi temperati si rivela piuttosto delicata da coltivare, anche se è molto ricercata come pianta ornamentale per la sua bellezza raffinata e al tempo stesso esuberante, con le venature laterali molto evidenti e con quella centrale di un color verde chiarissimo, quasi tendente al giallo, in piacevole contrasto con il deciso color verde oliva della pagina fogliare.

Teme i raggi solari diretti, ma anche l’ombra eccessiva, le correnti d’aria e soprattutto la secchezza dell’ambiente, per cui la si può considerare una pianta più da serra che da appartamento, bisognosa di una umidità ambientale costante e molto pronunciata; d’inverno non resiste a temperature minime al di sotto dei 16° centigradi, cosa che in un normale appartamento d’abitazione, specialmente nell’Italia settentrionale, non è sempre agevole da assicurare.

Così Mariella Pizzetti descrive la pianta di «Marantha leuconeura» (in: M. Pizzetti e G. Mazza, «Piante e fiori in casa», Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1976, 1982, p.123):

 

«Piante erbacee perenni con radici tuberizzate dalle quali nascono ciuffi di foglie radicali e sottili fusti, generalmente prostrati., lisci negli internodio; su di essi appaiono nodi cospicui che portano altri ciuffi fogliari e che possono radicare, se le condizioni sono propizie, a contatto con substrato o sostegni umidi. Il fogliame è generalmente delicato, con bellissime variegature, le foglie sono ellittiche e ottuse all’apice, con piccioli piuttosto lunghi, guainati e alati, dai quali le nuove foglie spuntano in successione, dapprima convolute, per poi fuoriuscire e distendere la lamina.

La specie comprende due varietà principali: “massangeana” e “kerchoveana”. La varietà “massangeana” ha foglie vellutate con disegno argenteo al centro, che si stende in sottili linee a forma di spina di pesce lungo le vene laterali; le zone intermedie ai disegni sono sfumate, più scure e quasi brune al centro presso la vena principale, sino ai margini verdi. Negli ultimi ani ha fatto la sua comparsa ed è divenuta la più diffusa, una varietà molto simile, ma con la sola striscia centrale verde pallidissimo, mentre il sottile disegno a lisca lungo le vene è rosso carminio; le zone intermedie sono verde bruno, talvolta con macchie più scure centrali. Essa è stata, a buon diritto, chiamata “erythroneura” (dalle vene rosse), benché nel linguaggio orticolo commerciale sia spesso chiamata “tricolor”; il rovescio delle foglie è più o meno rossastro, come del resto nelle altre varietà.

Questa pianta è notevolmente ramificata, al punto che spesso viene coltivata appoggiata a tutori ricoperti in muschio o sfagno che, teoricamente, dovrebbero essere mantenuti sempre umidi; benché un poco meno delicata della “massangeana”, è anch’essa di carattere decisamente capriccioso e sarebbe in realtà adatta soltanto per la sera.

Habitat: tutte le varietà sono originarie dell’America centro-meridionale dove vivono nel sottobosco delle foreste tropicali della Guyana e del Brasile del nord, e spesso anche in zone più settentrionali. Come la maggior parte delle appartenenti alla famiglia, sono abituate a un ritmo di dodici ore diurne e dodici notturne; in questi limiti sono soggette a nictinastia, cioè le loro foglie si ergono e divengono appressate l’una all’altra allorché dovrebbe scendere la notte.»

 

I nomi delle piante esotiche, anche delle piante ornamentali da appartamento più comuni, spesso ci dicono molte cose sulle circostanze della loro diffusione nei nostri climi.

Per esempio, l’elegantissima «Streltzia reginae» (chiamata anche Uccello del paradiso perché il suo fiore, vivacemente colorato e dalle foglie slanciate, ricorda effettivamente un volatile multicolore posato su di un ramo) è stata così denominata  da W. Alton, direttore dell’Orto Botanico di Kew, in onore di Sophia Carlotta del Mecklemburg-Strelitz che, sposando nel 1761 Giorgio III, era diventata regina di Gran Bretagna.

Un altro caso interessante (ma se ne potrebbero fare a centinaia) è quello della «Sansevieria», di cui esistono una sessantina di specie, il cui nome è frutto di un vero e proprio errore etimologico: avrebbe dovuto, infatti, chiamarsi «Sanseverina», in onore del conte P. A. Sanseverino, appassionato cultore di piante esotiche; ma che, a causa di un malinteso fra il suo primo studioso, il botanico napoletano Vincenzo Petagna, e il naturalista svedese C. P. Thumberg, al quale era stata inviata, ricevette il nome con cui è tuttora nota, e che farebbe piuttosto pensare al noto studioso Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, cultore di esoterismo, alchimia ed altre scienze occulte, nonché inventore di impressionanti “macchine anatomiche”.

L’origine del nome della bellissima Maranta ci ha dato l’occasione per rievocare brevemente la figura del botanico Bartolomeo Maranta, un uomo dotto e dagli interessi estremamente ramificati, quello che oggi si direbbe uno studioso eclettico, solo perché l’eccesiva tendenza alla specializzazione ci ha fatto perdere di vista la fondamentale unità del sapere: un concetto, questo, che cinque secoli fa era ancora saldamente radicato nella cultura italiana ed europea.

Poi, nel 1600, con la cosiddetta Rivoluzione scientifica, e ancora di più nel 1700, con la comparsa dell’autoproclamata figura del “savant” illuminista, il moderno scienziato, tale concetto è andato irrimediabilmente perduto, al punto che oggi è motivo non solo di stupore, ma anche di una certa qual diffidenza, imbattersi in una persona colta che sia egualmente versata nelle discipline umanistiche ed in quelle propriamente scientifiche.

Per ricordarci questa innaturale situazione della cultura odierna, è stato necessario imbatterci nella bellezza esotica e fastosa di una pianta tropicale americana, giunta in Europa nel XVI secolo e denominata in onore di un botanico italiano del quale, altrimenti, ben pochi saprebbero il nome.