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L'economia partecipativa

di Marco Trombino - 10/04/2012

 




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La decrescita è un obiettivo politico che, per realizzarsi, ha bisogno di gradualità, di passi progressivi, senza i quali si andrebbe incontro ad un crollo entropico del tessuto sociale. È pertanto opportuno cercare di ipotizzare quale potrebbe essere un modello economico in grado di accompagnare una decrescita controllata. Esiste un modello socio-economico poco noto, che prevede il coinvolgimento dei cittadini nel processo decisionale e che rappresenta, di fatto, la declinazione del concetto di democrazia diretta nel campo dell’economia: si tratta dell’economia partecipativa.
I primi tentativi storici di teorizzare il coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali aziendali risalgono ad alcune vaghe e semplicistiche proposte di autori del XIX secolo (J. Mill, G. Mazzini, Sidney e Beatrice Webb, ecc.). Ma è con la seconda metà del XX secolo che viene coniato il termine da parte di intellettuali americani –appartenenti all’area culturale di sinistra– quali Michael Albert e Robin Hahnel, che cominciano a teorizzarne le caratteristiche.
In Italia, lo scritto più autorevole in merito è senza dubbio “La Società Partecipativa” di Pier Luigi Zampetti, lombardo di nascita e docente di Filosofia del Diritto presso le Università di Milano, Trieste e Genova. Quest’opera ha innanzitutto il merito di avere compreso in anticipo che il comunismo sarebbe crollato perché basava la propria esistenza sugli assunti errati del materialismo storico. Il libro fu scritto nel 1981: l’affermazione all’epoca poteva sembrare gustosamente fantasiosa e invece si rivelò storicamente profetica. L’autore sostiene altresì che anche il capitalismo consumistico sia anch’esso destinato a crollare, sia perché si basa sul delirante assunto dell’infinitezza delle risorse materiali, sia perché priva l’uomo della propria anima, trasformandolo in un automa atto solo all’acquisto compulsivo di oggetti spesso non essenziali (il “cittadino-consumatore”).
Ma la parte essenziale dell'opera di Zampetti consiste nell'aver definito nei dettagli quale dovrebbe essere il sistema economico da adottarsi per evitare il crollo dell’intero sistema sociale, derivante dalla fine del consumismo: nello stesso libro egli lo indica con il nome di “Capitalismo popolare”.
Le basi di questo modello sono fondamentalmente tre: la prima è che i lavoratori devono divenire gli azionisti dell’azienda per cui lavorano; gli stessi lavoratori devono prendere direttamente parte ai processi decisionali dell’azienda per cui lavorano; gli investitori dell’azienda devono essere quindi “insider”, non “outsider”.
Tale modello ha innanzitutto delle conseguenze esplicite, che l’autore scrive nero su bianco nel testo. Tra queste, viene detto che un modello sociale del genere può prendere corpo solo all’interno di una "società partecipativa", ossia basata sul criterio politico della democrazia diretta. I due rami del Parlamento dovrebbero quindi adattarsi a tale trasformazione. La Camera dei Deputati dovrebbe divenire “Camera della Pianificazione”, perché le decisioni strategiche aziendali partecipate non possono andare in conflitto con gli interessi globali della comunità e devono essere pianificati col metodo partecipativo; il Senato invece dovrebbe divenire "Camera dei Ruoli" perché, scomparse le classi sociali, i cittadini sono rappresentati dal ruolo sociale e professionale che rivestono. Su questo argomento, ovvero sul fatto che nella società odierna i cittadini siano rappresentati dal ruolo che rivestono e non dall’ormai defunto concetto di “classe”, l’autore spende non poche parole, e sottolinea come l’elezione di rappresentanti (sempre nell’ambito della democrazia partecipativa, s’intende) nella "Camera dei Ruoli" debba avvenire tramite liste distinte, per evitare accostamenti anche non intenzionali con il corporativismo di storica memoria.
È possibile anche riflettere su alcuni effetti che il modello sopra descritto produrrebbe, anche se non sono stati esplicitati dall’autore nel libro. Ad esempio, se soltanto i lavoratori detengono le azioni di una determinata azienda, questa non può essere quotata in borsa. Ne consegue a sua volta che la borsa dovrebbe continuare a servire per quotare le commodities, specialmente le materie prime, i cui prezzi continuerebbero a essere determinati sulla base delle leggi di domanda e offerta.
L’attuale diritto societario dovrebbe quindi essere rivoluzionato: non avrebbe più senso, in tale ambito, distinguere tra S.p.A., S.r.l., S.a.a. ecc. ma andrebbero realizzate nuove categorie sulla base del dimensionamento aziendale. È chiaro che non tutte le tipologie aziendali potrebbero essere partecipate: sarebbe quantomeno eccessivo chiedere al proprietario di un negozio di dividere il proprio esercizio in azioni e venderle alle proprie commesse. Il meccanismo dell’investimento “insider” scatta nel momento stesso in cui l’azienda supera un certo ordine di grandezza, sia in termini di dipendenti sia in termini di volume d’affari, e tale soglia dovrebbe, per l’appunto, essere regolamentata su base legale, in accordo con un futuro (e auspicabile) stravolgimento del diritto societario.
Per inciso, l’economia partecipativa non prevede, e quindi non promette, un egalitarismo di tipo economico, giacché il lavoratore deve essere libero di decidere quanto investire in azioni del proprio lavoro e quanto invece monetizzarlo, fermo restando che una quota minima d’azioni debba in ogni caso essere prevista per ogni lavoratore al fine di far scattare il meccanismo partecipativo. Il capitalismo popolare prevede invece un’eguaglianza di tipo qualitativo perché, essendo ogni lavoratore coinvolto nel processo decisionale, riveste uno status identico a quello degli altri lavoratori. Le caratteristiche appena descritte segnano la differenza con il modello societario di tipo cooperativistico, dacché un’azienda partecipativa non è tenuta a conseguire il principio di parità tra i soci e –trattandosi comunque di una ditta– dal punto di vista normativo deve essere legittimata ad avere scopo di lucro, cosa che per una cooperativa è resa impossibile dall’odierno quadro legale.
Un occhio inevitabilmente dovrebbe essere indirizzato al tema della sovranità monetaria: sarebbe inconcepibile in una "società partecipativa" avere una moneta al di fuori del controllo popolare. Il principio per cui l’emissione monetaria deve essere riportata sotto il controllo sia indiretto (gestione da parte del Parlamento) sia diretto (possibilità di indire un referendum su materie monetarie) non solo è perfettamente compatibile con l’economia partecipativa, ma anzi dovrebbe divenirne un fondamento.
L'economia partecipativa elaborata da Zampetti, così come il libro che la tratta, non manca tuttavia di presentare dei limiti. Essendo stata elaborata all’inizio degli anni ’80, mostra riferimenti esagerati e insistenti sull’intervento deleterio dello Stato in economia, che all’epoca erano decisamente attuali (l’economia occidentale viveva in pieno modello keynesiano), ma oggi del tutto anacronistici. Inoltre l’autore non esita a mettere in stretta relazione la sua concezione socio-economica con il proprio credo cristiano. Pur non essendoci niente di male in sé, tale caratteristica potrebbe divenire un fattore limitante nel momento in cui si cerca di rendere appetibile l’economia partecipativa a chi non ha credenze religiose o a chi possiede una differente fede.
L'economia partecipativa, in definitiva, è un modello socio-economico che si oppone al liberalcapitalismo, ma che allo stesso tempo non accetta i fondamenti del socialismo o del comunismo, perché basa la propria essenza sulla proprietà privata, e come già sottolineato, non implica egalitarismo economico. Quando l’economia partecipativa fu pensata ed elaborata, voleva essere principalmente un modo per superare le sperequazioni tipiche del sistema liberalicapitalista, che i fatti di cronaca odierna ci mostrano sempre più con drammatica evidenza. Ma viste le sue caratteristiche, con particolare riguardo alla pianificazione partecipata della produzione, rappresenta probabilmente il modello economico più adatto a stimolare la decrescita, una volta che quest’ultima sia diventata una scelta condivisa dalla nostra società.