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Il manifesto anticapitalista di Luciano Bianciardi

di Romano Guatta Caldin - 10/04/2012

 

Era il 1964 quando fece la sua comparsa, sugli scaffali delle librerie italiane, La vita agra di Luciano Bianciardi. Il libro – sicuramente l’opera dello scrittore toscano che ebbe maggiore successo – venne accolto con favore, sia dalla critica, come dai tanti lettori. Un successo inaspettato, per Bianciardi. L’autore, infatti, si chiedeva come fosse possibile che la sua feroce critica alla Milano del nascente boom economico, del capitalismo selvaggio e dei suoi ritmi frenetici ed alienanti, avesse prodotto tanti elogi, soprattutto nell’odiata capitale meneghina; Bianciardi aveva scagliato tutto il suo astio contro la metropoli lombarda e, nonostante ciò, Milano lo osannava. Ma come capitò un maremmano doc come Bianciardi, un fiero provinciale, nella metropoli più caotica d’Italia?

Lo scrittore è chiamato a Milano da Giangiacomo Feltrinelli che, all’epoca, sta fondando la sua casa editrice, con la quale cambierà – per sempre – il mondo dell’editoria. Luciano, al contrario del suo datore di lavoro, non era marxista; certamente, Bianciardi aveva frequentato e frequentava gli ambienti del PCI, talvolta si professava anche comunista, ma il dogmatismo, la cecità ideologica dei piccisti, dei “preti” – come li chiamava lui – non erano di suo gradimento.

Arrivato a Milano, l’impatto con la metropoli è devastante; Bianciardi scrive ad un amico: ”La gente qui è allineata, coperta e bacchettata dal capitale nordico, e cammina sulla rotaia inquadrata e rigida. E non se ne lamentano, anzi, credono di essere contenti. (…) Vivere a Milano, credilo pure, è molto triste. Non è Italia, qua, è Europa, e l’Europa è stupida”. Eppure, nonostante l’astio nei confronti della città, Bianciardi decide di non mollare. Anche qui c’è da fare la rivoluzione, c’è da far rispettare i diritti dei lavoratori, come aveva fatto, tempo addietro, nel caso della strage dei minatori morti nelle cave toscane della Montecatini. E infatti: ”La rivoluzione si farà – scrive Luciano – a Milano, dove sta di casa il nostro nemico, Pirelli e tutti quelli come lui”. E sarà proprio da questi presupposti, da questi rancori che prenderà vita, attraverso notti insonni sulla macchina da scrivere e decine di “nazionali” aspirate di fretta, La vita agra: il manifesto anticapitalista di Luciano Bianciardi.

Un romanzo autobiografico e di denuncia, La vita agra era l’arma con cui il grossetano intendeva far saltare – letteralmente – il cuore della nuova economia italiana. Il capitalismo, la società dei costumi, l’imbarbarimento culturale, il tramonto della civiltà urbana – per come era stata fino agli anni ‘50 e ‘60 del novecento – e l’avvento di una nuova borghesia che non guarda in faccia nessuno: sono questi i temi su cui fa perno la critica bianciardiana, sia per quanto concerne La vita agra, come per altre opere quali Il Lavoro culturale (1957) e L’integrazione (1960).

La vita agra è una dichiarazione di guerra ai nascenti rapporti di produzione e al moderno schiavismo che la nuova economia sta portando alla luce; nelle strade, nelle fabbriche, negli uffici illuminati al neon, fin dentro le case degli italiani, nelle loro alcove, il capitalismo si insinua come un serpente velenoso.
Milano non piace a Bianciardi e Bianciardi non piace a Milano. E allora lui vuole la sua guerra. Prima di mettere nero su bianco le parole che andranno a comporre il romanzo, ad un amico, Bianciardi scrive: “Ho in animo di buttar giù una grossa pisciata in prima persona sulla avventura milanese, sul miracolo economico, sulla diseducazione sentimentale che è la nostra sorte d’oggi”. Al di là del tipico tono colorito da toscanaccio impenitente, sentire parlare Bianciardi, bigamo dichiarato, di diseducazione sentimentale potrebbe sembrare quanto meno sospetto. Allora diciamo che Bianciardi razzolava male ma parlava bene, anzi, benissimo, anche quando trattava temi quali lo sconvolgimento che il capitalismo rampante aveva portato in seno ai rapporti di coppia. Questi ultimi, come tutti i settori dell’esistenza, secondo Bianciardi vennero annichiliti dal capitalismo che, come un re Mida funesto, trasformava in angoscia e disperazione tutto ciò che toccava.
Bianciardi, traduttore a cottimo e scrittore per rabbia, conosceva bene l’alienazione della società capitalista e i cambiamenti che essa comportava, anche all’interno dell’editoria. Per sbarcare il lunario, con Maria, la sua convivente, lo scrittore era costretto, come in catena di montaggio, a tradurre libri altrui a ritmo incessante, pena il licenziamento e la fame. Tra una traduzione e l’altra, Bianciardi - con un uno sforzo immane - riesce ad occuparsi anche delle sue opere. Lui, intellettuale non cattedratico, come tutti gli scrittori di razza, scriveva del suo vissuto. E il suo vissuto era fatto di bar avvolti nella nebbia, di eserciti di segretarie e commesse che si accalcavano per le strade, di operai addormentati sui tram, di periferiche trattorie che, di lì a poco, saranno soppiantate dai fast food: dal simbolo per antonomasia dell’egemonia economico-culturale americana.

Sotto l’occhio caustico e sferzante di Bianciardi passò anche il fenomeno dei beat. Lo scrittore non era contrario alle forme di protesta giovanili; quello che egli criticava era l’importazione, dagli Stati Uniti, delle forme di lotta, come dei costumi. Nel ‘66, parlando del fenomeno beat italiano, in un’intervista televisiva, Bianciardi dichiara: “I modi della protesta contro la società opulenta, contro la spirale salari-prezzi, noi ormai li importiamo dall’America, inscatolati, prefabbricati. I modelli, i profeti, i paradigmi di questi tipi di protesta non sono mai italiani, sono sempre americani, in qualche caso inglesi”. Certamente, dietro tale ostilità, nei confronti dei modelli culturali d’importazione, si celava tutta l’italianità di Bianciardi, il suo “retaggio risorgimentale” che non poco influì sulla sua produzione letteraria.

Al contrario di come si potrebbe pensare - considerata l’estrazione politica e culturale del grossetano – i rapporti fra quest’ultimo e la contestazione giovanile, come abbiamo visto, non furono affatto idilliaci. Sintomatico dell’insofferenza, del nostro, nei confronti dei “giovani arrabbiati”, è un aneddoto che Maria, la compagnia di tutte le sue sventure, raccontò a Pino Corrias, in occasione della stesura del libro Vita agra di un anarchico grossetano. “Luciano – ricorda Maria – accettò di venire con me (…) a Genova per una manifestazione. Prese un volantino, lo lesse e commentò: ma guarda come scrivono! Questi non sanno neanche l’italiano, non faranno mai la rivoluzione”. Forse, quella di Bianciardi, nei confronti dei contestatori, non era neanche una presa di posizione poi così strana. A differenza dei tanti giovani che, all’epoca, assumevano pose contestatrici, Bianciardi arrabbiato lo era per davvero, anzi, permettetemi il termine, lo scrittore, più che arrabbiato – come lui stesso scriveva – era proprio incazzato. Non è un caso, infatti, se annunciando l’uscita de La vita agra ad un amico, Bianciardi scriveva: “Si intitola La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura scritto in prima persona singolare”.

Bisogna però ricordare che quando la contestazione giovanile toccò il suo apice, Bianciardi era ormai stato fagocitato da quella stessa società a cui aveva dichiarato guerra. La rassegnazione e il disincanto gli assestarono il colpo di grazia. L’ultima stoccata - prima di uscire dalla scena - Bianciardi la riserverà allo stato d’Israele.

Ricorda l’amico Gianni Corsolini: “Una volta siamo andati in Israele, nel ‘67, dopo la guerra dei sei giorni, dove lui litigò con tutti quelli che facevano le lodi sperticate di questa nazione. Aveva visto, il primo giorno, un rastrellamento, aveva visto come venivano trattati gli arabi e gli era bastato. Quando tornò a Rapallo, per qualche settimana uscì di casa con la benda sull’occhio, come Moshe Dayan, così, per prendere per il culo i filoisraeliani”.

Ed è proprio a Rapallo, dove Maria ha aperto una libreria, che Bianciardi incontra lo sguardo sfuggente, ormai spento come il suo, di Ezra Pound. Due vite e due percorsi politici diversi, ma il medesimo nemico.

Sono passati esattamente quarant’anni da quando, quel novembre del ‘71, Bianciardi ci ha lasciato. La sua sconfitta esistenziale, però, non inficia affatto la validità delle analisi anticapitaliste dello scrittore. Anzi, con il passare del tempo, le previsioni di Bianciardi, sui processi di trasformazione sociale che s’innescarono negli anni del boom economico, si sono dimostrate di una veridicità straordinaria: “Fra vent’anni - scriveva nel ‘62 Bianciardi - tutta l’Italia sarà come Milano”. Al gioco della torre, lo scrittore, nella sua lotta solitaria e donchisciottesca, decise che sarebbe stato lui a lasciarsi stoicamente cadere.

Di questi tempi, proprio mentre il sistema mostra il suo ghigno più feroce, è giunta l’ora di riprendere in mano la fiaccola di chi, come Bianciardi, è caduto combattendo contro il moloch capitalista. Ma oggi non possiamo permettere che qualcuno - nella lotta - rimanga isolato. Per poter rispondere, colpo su colpo, al finanziarismo che ci attanaglia, c’è bisogno di compattezza, di coordinamento, oggi c’è bisogno di un fronte comune.