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Il capitalismo sbarca in Myanmar

di Michele Paris - 10/04/2012

 
    

A pochi giorni dal voto in Myanmar che ha segnato l’ingresso in Parlamento di Aung San Suu Kyi e del suo partito (LND), gli Stati Uniti hanno prontamente annunciato iniziative per rimuovere alcune delle sanzioni economiche che pesano sul paese del sud-est asiatico. La mossa di Washington si accompagna ad una serie di misure già implementate dal regime o in fase di adozione, volte a modernizzare il proprio sistema finanziario per favorire l’afflusso di capitali esteri.

Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, mercoledì ha reso noto che la Casa Bianca ha iniziato il processo di “allentamento mirato” delle restrizioni, a cominciare dal divieto alle compagnie statunitensi di esportare servizi finanziari e di investire in Myanmar. Come già anticipato a gennaio, per la prima volta dal 1990, gli Stati Uniti sono anche ad un passo dal nominare un ambasciatore in questo paese.

Secondo Hillary, la quale lo scorso dicembre era stata protagonista di una storica visita nella ex Birmania, l’amministrazione Obama dovrebbe poi tornare a consentire l’ingresso negli USA dei membri del regime, così come riaprire in Myanmar un ufficio dell’agenzia americana per lo Sviluppo Internazionale, che servirà a veicolare gli aiuti economici provenienti da donatori stranieri. Inoltre, verranno cancellate le restrizioni sull’attività in Myanmar delle organizzazioni non governative operanti negli ambiti sanitario, ambientale e dell’educazione.

La maggior parte delle sanzioni americane, tuttavia, sono il risultato di leggi approvate dopo la repressione seguita alle elezioni del 1990 vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, così che per rimuoverle definitivamente sarà necessario un voto del Congresso. L’amministrazione Obama ha però affermato che farà quanto le è consentito per eliminare alcuni di questi ostacoli. Il Dipartimento del Tesoro, ad esempio, ha facoltà di rilasciare licenze speciali per coloro che, sotto stretto controllo governativo, intendono investire in Myanmar.

Il gesto di distensione di Washington era ampiamente atteso ed è la risposta diretta alle “riforme” democratiche di facciata messe in atto dopo le elezioni del 2010 dal regime nominalmente civile con a capo il presidente Thein Sein, ex primo ministro e già membro della giunta militare al potere da oltre due decenni.

La presunta svolta del Myanmar è dettata principalmente da ragioni strategiche. L’obiettivo del governo è cioè quello di allentare i legami con Pechino per riavvicinarsi all’Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti, a loro volta nel pieno di uno storico riorientamento della propria politica estera con al centro dell’attenzione l’estremo oriente in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese.

Il Myanmar rimane comunque uno dei paesi più poveri e arretrati del sud-est asiatico e, dopo vent’anni di sanzioni dispone di un sistema finanziario totalmente inadeguato. Ciononostante, la ex Birmania vanta ingenti risorse naturali tuttora inesplorate e offre una vasta manodopera che le multinazionali potranno sfruttare a costi irrisori.

Alcune delle iniziative che il regime sta intraprendendo per facilitare l’ingresso dei capitali esteri nel paese sono state descritte dal vice governatore della Banca Centrale birmana, Maung Maung Win, in un’intervista rilasciata questa settimana al Wall Street Journal.

l governo starebbe appunto cercando di riformare il sistema finanziario con l’adozione di un regime meno restrittivo della conversione della valuta locale, nuovi piani per il rilancio della Borsa, maggiore indipendenza per la Banca Centrale e l’introduzione di carte di debito locali. Inoltre, il regime sta valutando l’ipotesi di permettere alle banche estere di operare nel paese, anche se ciò causerebbe notevoli problemi per quelle locali ancora impreparate a sostenere la concorrenza.

Ufficialmente, gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali si dicono ancora preoccupati per le continue violazioni dei diritti umani nel paese e invitano il regime a fare di più in questo senso. In realtà, simili scrupoli servono solo per confortare l’opinione pubblica, mentre le vere apprensioni sembrano essere legate alla creazione di un ambiente sicuro per le compagnie private che a breve si precipiteranno a fare affari in Myanmar.

Le opportunità di profitto e la corsa che si sta preparando negli ambienti finanziari e imprenditoriali occidentali e non solo, sono d’altra parte ben note. Il Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, ha recentemente pubblicato uno studio che mette in risalto “l’elevato potenziale di crescita” di un paese che “potrebbe diventare la prossima frontiera economica in Asia”. Il rapporto sosteneva che il provvedimento più urgente era mettere fine al tasso parallelo di cambio del kyat birmano, cosa che il regime ha prontamente fatto pochi giorni prima del voto di domenica scorsa.

L’evoluzione dei rapporti tra Occidente ed ex Birmania, in ogni caso, non ha praticamente nulla a che fare con la promozione della libertà e della democrazia in quest’ultimo paese. Le “riforme” del sistema economico e finanziario in senso liberista che il regime sta mettendo in atto, nonostante vengano puntualmente associate dai governi e dai media occidentali a quelle politiche, porteranno infatti benefici solo per la ristretta oligarchia che controlla il potere in Myanmar e, tutt’al più, per la borghesia birmana filo-occidentale rappresentata dall’LND di Aung San Suu Kyi.

Le misure per attirare investimenti dall’estero provocheranno, per cominciare, un rapido aumento del livello di inflazione che andrà a colpire in maniera pesante la maggior parte della popolazione impoverita del Myanmar. Le altre “riforme” che si stanno preparando sono allo stesso modo intese a favorire i grandi interessi esteri e le élite locali, come l’esenzione fiscale per almeno cinque anni per gli investitori stranieri, le garanzie contro eventuali progetti di nazionalizzazione e l’eliminazione dell’obbligo di avere partner birmani per coloro che intendono fare affari in Myanmar. Il piano di privatizzazione delle compagnie pubbliche, infine, causerà la perdita di migliaia di posti di lavoro e, con ogni probabilità, un abbassamento delle retribuzioni.

Per consentire al regime di portare a termine questo processo che causerà un aggravamento delle disuguaglianze sociali, giocheranno un ruolo fondamentale Aung San Suu Kyi e il suo partito, reintegrati nella politica birmana appositamente per mediare il riavvicinamento con l’Occidente e, in prospettiva futura, per contenere il malcontento e le tensioni sociali che inevitabilmente esploderanno nel paese.