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Evola, Germinario, Evangelisti: «Scusi, lei a quale fazione appartiene?»

di Francesco Lamendola - 10/04/2012

 


 

“Fazioso” è, alla lettera, colui che appartiene a una fazione; e “fazione” è un gruppo organizzato che si contrappone a un altro, ciecamente, egoisticamente, con il solo obiettivo di soppiantarlo nella gestione del potere e nel totale disprezzo dell’interesse e del bene comuni.

In questo senso, l’Italia, Paese di fazioni secolari e di secolari faziosi, è anche il Paese dove più accesa e più indisponente è la faziosità dei sedicenti intellettuali; ma già la parola “intellettuale” evoca non un uomo di cultura, che è, per sua stessa natura, spassionato, tollerante, aperto alla verità senza pregiudizi né intereressi inconfessabili, ma un pennivendolo fegatoso e servile o, nel migliore dei casi, un piccolo fanatico al servizio esclusivo della propria fazione, cioè uno che, per professione e per abito mentale, chiude occhi e orecchi davanti a ciò che contrasta con la “sua” verità, salvo poi spalancarli al massimo allorché si imbatte in qualcosa che la conferma.

Insomma, l’intellettuale fazioso è uno specialista delle mezze verità; uno che non ha neanche il coraggio di mentire pienamente, ma che mente, appunto, a metà: tace quello che non gli conviene dire, dice tutto quello che fa comodo alla sua parte, e anche qualcosa di più. Per dirla in maniera ancor più precisa: non è interessato alla verità, ma alle verità: e in quel plurale sono già implicite tutta la sua ambiguità, tutta la sua intolleranza, tutta la sua faziosità.

All’intellettuale medio non interessa sapere e capire che cosa ha veramente detto il filosofo X o cosa ha fatto il personaggio storico Y; a lui basta sapere se essi appartenevano alla sua fazione oppure no; e, nel caso la sua fazione sia troppo recente, se quel filosofo o quel personaggio storico aderivano alla fazione che si può, in qualche modo, considerare come l’antenata della sua, ovvero se militavano nella fazione opposta.

Pertanto, l’intellettuale medio manifesta una doppia distorsione mentale: la prima è quella di voler ridurre il mondo entro lo schema forzato della propria ideologia; la seconda, quella di costringere il passato a piegarsi al paradigma del presente, a inchinarsi ad una logica diversa, costruita a posteriori, secondo categorie culturali e psicologiche profondamente mutate.

Per esempio: l’intellettuale “laico” che accusa i crociati di aver voluto mascherare le loro spregiudicate finalità economiche dietro il pretesto di una guerra di religione, non vogliono ammettere che, nell’Europa dell’XI, XII e XIII secolo, l’economia non fosse ancora una categoria completamente separata dalla morale e dalla religione, né che si fosse capaci di intraprendere una serie di campagne militari in un Paese lontano per scopi prevalentemente idealistici e non materiali: ma ciò in base al modo di sentire e di pensare dei moderni, che è completamente diverso da quello medievale.

Similmente, un tale storico non vorrà mai ammettere che, nella conquista e nella sottomissione dei popoli delle Americhe da parte degli Europei, fra XV e XVI secolo, sia entrata ANCHE una motivazione religiosa, ossia la conversione degli Indios; eppure, così facendo, si falsa il quadro, perché si pretende di capire il passato giudicandolo con le categorie del presente. Cristoforo Colombo, ad esempio, voleva raggiungere le Indie ANCHE per procurare alla cristianità le ricchezze con le quali finanziare una nuova crociata contro i Turchi, per liberare il Santo Sepolcro: era un uomo del Medioevo, da questo punto di vista, più di quanto non fosse, come quasi universalmente si crede, un uomo dell’età moderna.

Riguardo ai pensatori, lo sguardo fazioso dell’intellettuale moderno è ancora più drastico: non importa sapere quel che ha detto Jung, o quel che ha detto Evola, o quel che pensava Jünger; l’unica domanda che interessa è la seguente: erano nazisti, costoro, sì o no? Come se, sia detto fra parentesi, vi sia stata una sola maniera di essere nazisti, o fascisti, o comunisti, o democratici: il che è, palesemente, una forzatura dei fatti in chiave ideologica “post rem”.

Il bello è che molti intellettuali procedono in questo modo in nome della “chiarezza”, categoria metodologica che non si peritano di manipolare e stravolgere secondo le loro necessità: perché la chiarezza, nella ricerca storiografica o in quella filosofica, non può mai essere il punto di partenza, ma, semmai, il punto di arrivo. Non si parte da una “verità”, per dividere, con l’accetta, il nero dal bianco e i buoni dai cattivi; al contrario, si parte dall’umile raccolta dei fatti, dall’analisi spassionata dei documenti, e al termine della propria ricerca, se essa è stata onesta e libera da pregiudizi, si giunge ad una serie di conclusioni. Conclusioni che, comunque, non corrispondono mai ad una “verità” definitiva e inappellabile: la ricerca, infatti, non finisce mai, perché sempre nuovi elementi di analisi e di giudizio vengono nuovamente portati in luce da ulteriori ricerche.

In Italia, però, le cose vanno altrimenti; in Italia esiste una “verità” ufficiale, stabilita una volta per tutte, nella quale risiedono il Vero, il Buono e il Giusto, e a partire dalla quale si può e si deve condannare alla perpetua infamia quanti non la servirono in passato o non la riconoscono nel presente; una “verità” che, guarda caso, coincide con quella stabilita militarmente, politicamente, economicamente e culturalmente ad un dato momento della storia contemporanea.

In altre parole, per questi signori intellettuali che si sentono i depositari, i banditori e i supremi difensori della “verità” ufficiale, il fatto che il loro personale punto di vista coincida con quello del vincitore di turno è puramente casuale e del tutto ininfluente. Anzi, vogliamo dirlo?, essi si sentono tuttora dei militanti, dei combattenti, dei partigiani, impegnati contro l’idra nemica che minaccia sempre di risorgere, con qualcuna delle sue teste velenose, dalla precedente sconfitta; si sentono minoranza coraggiosa e intrepida, pur essendo maggioranza blindata e garantita; si sentono sulle barricate, anche se occupano comodissime poltrone e sono al centro di un establishment culturale che è anche establishment economico.

Sono gli stessi signori che si stracciano le vesti se uno dei loro viene inquisito per terrorismo dalla magistratura, sostenendo che è vittima di una infame montatura giudiziaria; e che forniscono ogni sorta di aiuto e di supporto alla povera vittima di tanto perfido accanimento, garantendogli, perfino da dietro le sbarre della prigione, la possibilità di far sentire la sua voce sulle maggiori testate giornalistiche del Paese, di continuare a pontificare su tutto e su tutti con logorroica petulanza, di recitare la parte del perseguitato politico, del maestro incompreso, del saggio che predica nel deserto, dell’opinionista tuttologo e infallibile, di colui che l’aveva sempre detto, di colui che aveva sempre saputo, nonché - addirittura - del pacifista e del democratico a oltranza, pur se con qualche condanna per omicidio sul groppone.

Di fatto, esiste una rete trasversale di complicità e di solidarietà, che va dai partiti della destra a quelli della sinistra, una sorta di Massoneria degli intellettuali che non abbandona mai un compagno in difficoltà, che si attiva per difenderlo a oltranza, che non gli fa mancare il sostegno morale e materiale in nessuna circostanza: tanto è forte, in essi, lo spirito di casta, specialmente se condito con i nostalgici, comuni ricordi di una giovinezza barricadiera e guevarista, romanticamente protesa all’affermazione del «vogliamo tutto» di sessantottesca memoria.

Un buon esempio del fatto che, in Italia, è più importante schedare, etichettare e giudicare, che non sforzarsi di comprendere, è offerto dal libro di Francesco Germinario: «Razza del sangue, razza dello spirito. Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo», apparso nel 2001 per i tipi della Boringhieri di Torino, prontamente recensito da Valerio Evangelisti sulla rivista «Pulp libri» (n. 31 del maggio-giugno 2001, p. 46); recensione che ci piace riportare, perché eloquente di un certo modo di porsi nei confronti dei fatti del pensiero e della cultura:

 

«Un libro come questo ci voleva proprio. Stava ormai passando la legenda di uno Julius Evola né fascista né antifascista, fautore di un razzismo tanto astratto ed etereo da non avere praticamente alcun rapporto con la deportazione e la strage degli ebrei e di altri “sottouomini” nei campi di sterminio. Una menzogna alimentata non solo da istituzioni culturali di chiara impronta neofascista, ma anche da “insospettabili” votati al revisionismo e alla riabilitazione a oltranza(dei carnefici, non certo delle vittime). Così, su “la Repubblica” dello scorso 31 gennaio, Antonio Gnoli giudicava Evola “ampiamente sdoganato” (e una settimana dopo avrebbe irriso chi considera Ernst Jünger un “pensatore di destra”). Viene quasi da provare simpatia per chi, come Franco Freda e i suoi seguaci, ama Evola perché razzista e Jünger perché filonazista. Senza tanti infingimenti.

Dopo il volume di Germinario, gli sdoganatori frettolosi dovrebbero rivedere la loro sentenza (ma sono certo che non lo faranno). Non è che Evola negasse un razzismo tutto materiale in nome di un altro solo intellettuale. Semplicemente innescava [sic: probabilmente voleva dire: “innestava”] il secondo sul primo, reclamando una selezione più sottile, che tenesse conto non solo dell’etnia, ma anche dell’imbastardimento dei valori aristocratici che razze errabonde e poco rispettose della gerarchia, come quella ebraica, avevano provocato. Guai, dal suo punto di vista, se il razzismo avesse rappresentato un protagonismo della plebe ariana. Accanto all’ebreo (o al “negroide”, grande ossessione di Evola negli anni della senescenza), proprio le plebi erano il nemico della spiritualità guerriera, e dell’ordine che questa avrebbe dovuto imporre.

Di qui la critica al fascismo - e anche, in parte, al nazismo - quali possibili veicoli di un attivismo delle masse che andava spento. Senza però (ovviamente, viste le premesse) che la critica si traducesse in ostilità o in estraneità. Evola protestò a gran voce contro le leggi razziali di Mussolini, ma solo perché permettevano di colpire un numero troppo limitato di ebrei. L’”ebreo”, per lui, era qualcosa di più: la quintessenza del vero nemico mortale, la democrazia, socialista o liberale che fosse.

Divertirebbe, se non amareggiasse un poco, vedere che oggi simile pensiero viene difeso a una corte dei miracoli tra le più disparate, comprendente, fianco a fianco, fondamentalisti cattolici e fautori del paganesimo, seguaci di Aleister Crowley e comunisti pentiti, esoteristi e antidemonologi di professione (più gli immancabili Ernesto gali Della Loggia e Stefano Zecchi). Non che il pensiero di Evola, per quanto barocco e fatto di strati disparati di erudizione (come è tipico della sua scuola), non meriti di essere approfondito. Ha una sua coerenza e una sua dignità culturale. Ma la sostanza resta turpe. Sarebbe bene non dimenticarlo.»

 

Un libro come quello di Germinario ci voleva proprio? Bisogna vedere per chi. A noi sembra che la sua impostazione di fondo sia la quintessenza dello schematismo manicheo e della faziosità ideologica.

Fin dalla copertina: cosa ci fanno quelle fanciulle ariane che sfilano in una esercitazione di ginnastica, con il pallone in mano e le cosce al vento, in una foto degli anni Trenta?  Se il libro è una riflessione sul pensiero razziale (o razzista) di Evola, perché non mettere in copertina una foto di Evola? Forse perché, con quelle fanciulle biancovestite in odore di nazismo, si vuole suggerire che Evola è stato il corresponsabile morale di ogni nefandezza razziale del nazismo e del fascismo? Ma questa, come si è capito, è la tesi conclusiva dell’autore: dunque dovrebbe essere un punto di arrivo, non un punto di partenza. Quella foto in copertina, invece, suggerisce al lettore che la sentenza è già stata emessa, che non c’è più alcuna verità da ricercare: tutto è già chiaro, Evola ha preparato, per la sua parte, il genocidio degli Ebrei; e non c’è altro da aggiungere.

Mescolando qualche assurdità storica (di quale democrazia socialista parla, nel contesto degli anni Trenta e Quaranta del Novecento?) a parecchie approssimazioni spacciate per verità definitive e inappellabili (Jünger era un filo-nazista più o meno quanto Ignazio Silone si potrebbe tacciare di filo-stalinismo, tanto per fare un parallelo nostrano), tutta la recensione gronda del compiacimento di chi si sente dalla parte giusta della storia, e lancia i suoi strali non solo contro i “cattivi” del passato, ma anche contro i revisionisti del presente.

Non ci sentiamo nemmeno di entrare nel merito degli argomenti adoperati, tali sono la loro rozzezza, il loro schematismo, la costante forzatura del pensiero altrui; e, più ancora, per la concezione poliziesca, terroristica, del giudizio storico che essa sottende: al punto da plaudire le forzature di segno uguale e contrario degli avversari politici, come l’interpretazione fatta da Freda del pensiero di Evola e Jünger, perché, almeno, essa avrebbe il peggio di essere esplicita e «senza infingimenti»; mentre  è semplicemente faziosa e strumentale e, perciò, perfettamente compatibile, anche se specularmente contrapposta, a quella dell’autore.

Riteniamo si possano dire queste cose pur non condividendo quasi nulla del percorso speculativo di Evola e pur non provando una particolare tenerezza nei suoi confronti, anzi, riconoscendo francamente che le sue ambiguità e certe sue esasperazioni hanno oggettivamente favorito un clima di animosità e di contrapposizione che ha delle precise responsabilità storiche sia prima, che durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Tuttavia, questo è il punto, vogliamo mettere il carro avanti ai buoi, giudicando prima di aver cercato di capire? E, inoltre, vogliamo trasformare la ricerca storica e filosofica in un tribunale rivoluzionario permanente, con la lama della ghigliottina perennemente sospesa sul capo di quegli autori che, a suo tempo, non hanno riconosciuto incondizionatamente, in tutto il suo fulgore, il Verbo rivoluzionario marxista e leninista - perché è di questo, sia chiaro, che si tratta, e non di altro?

E poi, che cosa sono quel tono di sufficienza, di disprezzo, di irrisione, verso quanti la pensano diversamente o verso quanti si permettono di accostarsi a quei pensatori da un punto di vista diverso, e cioè senza smaccati pregiudizi ideologici; che cos’è quel parlare di “corte dei miracoli”, quel dire “gli immancabili” Ernesto Galli Della Loggi e Stefano Zecchi? Qui scendiamo decisamente sul piano del livore personale.

A chi pensa di avere la verità in tasca, e che essa sia fatta tutta d’un pezzo, riesce incomprensibile che persone e gruppi di diversa estrazione culturale e di differente orientamento ideologico convergano nella rivisitazione e nello studio attento di autori come Evola o come Jünger, perché, nella sua pigrizia intellettuale, sembra impossibile che non si possano schedare tutti i cattivi da una parte e collocare tutti i buoni dall’altra.

Ma questo è un limite del suo approccio, del suo pensiero e, forse, della sua onestà intellettuale; un limite che gli impedisce di capire che il tempo della sinistra tutta buona e della destra tutta cattiva è finito per sempre, e che le persone intellettualmente libere e oneste continuano a fare apertamente quel che, per decenni, un establishment culturale fazioso e totalitario ha cercato di impedire in ogni modo, col silenzio e col ricatto morale: la ricerca della verità, con umiltà, con pazienza, con il senso della complessità del reale, che non ammette eccessive semplificazioni e che non tollera giudizi sbrigativi e inappellabili, come se la storia si potesse scrivere una volta per tutte.