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Morti a credito

di Pietro Barbetta - 04/05/2012

Fonte: doppiozero



Imprenditori e disoccupati, agenti di custodia e carcerati. L'aumento dei suicidi nel paese sembra allarmante. Viste fuori dalla comunicazione mediale, che tende a generalizzare, le insidie suicidarie accomunano persone che un tempo apparivano antagoniste, gli uni dalla parte opposta della barricata rispetto agli altri.

Entro in un carcere con l'incarico di condurre un gruppo sull'autolesionismo, tra operatori sanitari e agenti di custodia l'aula è affollata. I carcerati non sono presenti. Meglio così che come in quest'immagine.

 

 

Agenti seduti da una parte, personale sanitario dall'altra. Separati da una linea invisibile. La richiesta dominante tra il personale sanitario è: come facciamo a impedire l'autolesionismo e il suicidio tra i carcerati, tecniche affidabili. Gli agenti invece raccontano: “Autolesionismo è venire qui tutti i giorni” dice un agente. Un altro: “Come si può vivere ascoltando discorsi che raccontano di come si è uccisa e fatta a pezzi la propria moglie”. Un altro ancora: “Abbiamo paura del dato che parla di un incremento preoccupante dei suicidi tra gli agenti di custodia, tra noi!”. Una parte dei sanitari partecipa, s'interessa, un'altra parte s’irrita: “Stiamo cambiando argomento!”. Non colgono il nesso, due condizioni opposte e complementari - agenti e carcerati - sono legate da un'esperienza mortifera.

Nel frattempo la crisi avanza, il paese pare assumere a occhi innocenti la dimensione di un enorme carcere: burocrazie soffocanti, norme restrittive, rivendicazioni nazionalistiche e corporative, tasse crescenti, sensazioni d'impotenza. Incontro Ambrogio, pasticciere, a cinquant'anni la pasticceria dove lavora chiude per la crisi. Prima che l'azienda chiuda decide di mettersi in proprio, aprire una  pasticceria a regime familiare.

 

Quando arriva - accompagnato dalla moglie e da un figlio adulto - non sa neppure dov'è di preciso. Prende una quantità di pastiglie - ansiolitici, di cui ha anche abusato - e beve. Depresso e angosciato perché disoccupato. Vorrebbe farla finita.

Il figlio racconta che stanno aprendo la pasticceria dove lui e la mamma lavoreranno, lei come cassiera, lui come pasticciere, la moglie annuisce, lui guarda stranito nel vuoto. Non ci sarebbero ragioni per disperare. Ambrogio mormora: “La gente compra sempre meno colombe a Pasqua”.

 

Claudio, ex capo-reparto, grossa azienda, licenziato. È accompagnato dai familiari, anche lui come un bambino, come un anziano. A sessant'anni è stato licenziato con la chiusura dell'azienda. Così altri e altri ancora. Artigiani, imprenditori, operai, senza contare quelli che si vedono scavalcati dai raccomandati, che vengono mobbizzati per essere iscritti al sindacato, che passano anni con il contratto a tempo determinato. Cinquantenni, quarantenni, trentenni. Fino a quell'età iscritti a master universitari e privati che assicurano lavoro.

Invero ognuna di queste storie trova senso in una concatenazione di eventi, in una connessione di relazioni passate e presenti, in una storia di vita particolare. Connessione che si disperde quando si cerca di affrontare un futuro privo di possibilità, senza immaginazione, di morte.

 

La categoria depressione raccoglie, come un principio dormitivo, tutte queste condizioni, serve anche a classificare per rassicurare. Tutte cose lette dall'alto dell'astrazione di un risanamento economico criminale. La crisi causa depressioni? L'industria farmaceutica ci salverà.

La clinica psicologica è ben altro. Salvare la vita non per un principio astratto o ideologico, che non tutti sono obbligati a condividere. Neanche salvare la vita per la convinzione hobbesiana che il suicidio sia un atto innaturale, contrario alla ragione, anche se Hobbes ritiene ci siano circostanze in cui si possa sentire il peso di mali superiori alla morte.

 

Salvare la vita per riconquistare dignità, di fronte al pensiero assicurativo: “Cos'è un morto, se non una quota di ammortamento?”. In inglese mortgage, promessa di morte. La storia di un uomo che lavora una vita per pagare i mutui, che quando ha terminato di pagarli si uccide; con la delirante idea di simulare un incidente automobilistico per assicurare alla famiglia il riscatto di un compenso assicurativo. Arthur Miller fa dire allo zio Charley, al termine della pièce:

 

Willy era un commesso viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lucido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest'uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.

(Arthur Miller, Morte di un commesso viaggiatore)

 

Questa storia messa in scena da Miller - la storia del rapporto tra la vita e la morte nell'epoca moderna – sarà poi descritta da Jean Baudrillard e Michel Foucault.

“È sulla vita, scrive Foucault, e lungo tutto il suo svolgimento che il potere stabilisce la sua presa”. Mentre da sempre infliggere all'altro la morte è stato inscenato come atto di potere, nella modernità togliersi la vita è inscenato come un gesto di ribellione individuale. Le osservazioni su “lavoro e morte” di Baudrillard sono ancor più incisive. Si tratta del lavoro come differimento della morte, quanto accade all'operaio della modernità classica. Il suicidio è riservato al padrone, se fallisce. Chi, nato negli anni del baby boom, non ricorda, o non ha mai sentito raccontare almeno una storia degli occhiali scuri di molti imprenditori falliti negli anni Sessanta, di ragazze e ragazzi che trovano il padre appeso. Quale psicoterapeuta non ha sentito, almeno una volta, una storia simile relativa a quegli anni?

 

Il padrone confisca la morte dell'altro, e conserva il diritto di rischiare la propria - scrive Baudrillard nel 1976, e aggiunge, più avanti – Solo la resa di questa vita, la ritorsione con la morte immediata della morte differita, costituisce una risposta radicale, e l'unica possibilità di abolire il potere (Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, p.56).

Baudrillard descrive la fine dell'epoca del buon risparmiatore, del salvadanaio che ci regalavano in prima elementare, delle banche alle quali prestavi denaro in cambio d’interesse, della solidità economica, dei Buoni del Tesoro, del lavoro fisso, di una classe operaia che, di generazione in generazione, diventava piccola borghesia, del progresso. Così, di generazione in generazione, dopo la guerra, si pensava che la mia morte differita fosse capitalizzata dai figli e poi dai nipoti, in una sensazione di pace perpetua. Baudrillard ne descrive i lati oscuri che stanno per affacciarsi, gli anni Ottanta.

 

Ora è diverso, è cambiata la lingua, diventata cinica, lingua da cani. Come quella che usano i politici: bassa, volgare, insultante, omofoba, sessista, razzista, sciovinista, anti-ironica, auto-celebrativa. Residuo di un che di antico nel totalitarismo classico: benché la tua intimità sia violata, finché ti uccidono se ti comporti diversamente da quanto prescritto, siamo nel totalitarismo classico. Quando la società ti ruba i sogni, e ti spinge al suicidio, allora il totalitarismo è sublime.

La dedizione al lavoro, alla produttività come progetto esistenziale sembra terminata, è stata sostituita dall'epoca della Grande Depressione Interiore. Il self-made-man è soppiantato dal self-mad-man. Secondo questa descrizione, la responsabilità non appartiene più alla persona, appartiene ai neurotrasmettitori.

 

Sarà ancora possibile ricostruire i legami, la relazione con gli altri? Sarà ancora possibile parlare di queste cose ricostruendo l'immaginazione? Mantenere vivo il principio di speranza? Andiamo tutti a Milano, guardiamo la scultura di Cattelan davanti agli uffici della Borsa - prima che la eliminino! - è un'esperienza estetica, non violenta. Dà una certa soddisfazione,