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Victorio, un grande stratega apache

di Gaetano Marabello - 04/05/2012

 

 

 

Se si operasse una scala di valori tra i più grandi condottieri pellirosse, l’apache Victorio (da qualcuno chiamato “Victoria” da una presunta zia che aveva quel nome) non sfigurerebbe accanto ai famosi Crazy Horse (Cavallo Indomito) e Chef Joseph (Capo Giuseppe). Eppure, come vedremo, la sua “carriera militare” si ridusse in sostanza ai soli tredici mesi compresi tra il 1879 e il 1880.
Non si sa quale e egli avesse al momento della morte, essendo la sua data di nascita incerta e collocabile tra il 1820 e il 1825. Qualcuno sostenne a suo tempo che non fosse neanche di sangue apache. Questa versione risentiva dell’incapacità degli “Occhi bianchi” statunitensi e dei “Visi pallidi” messicani di accettare che un pellerossa possedesse capacità, degne di uno stratega uscito da West Point. Secondo questa tesi di comodo, Victorio sarebbe stato rapito quand’era piccino da una hacienda messicana nello Stato del Chihuahua. Il ratto sarebbe stato opera di una banda di Chihenne (Popolo dalla Tinta Rossa), di cui poi Victorio diverrà capo.
Si trattava di indiani che controllavano, sia pur frammentati in più gruppi matrilocali, tutta la vasta regione del Nuovo Messico che è compresa tra il Rio Grande e il Gila. Essi venivano indicati anche come “Warm Springs”, con esplicito riferimento proprio ai monti sacri dove soggiornavano. A parte la questione delle origini, sta di fatto che il Nostro si chiamava in realtà Biduye e ricevette il soprannome “Victorio” dai bianchi, che rifiutavano di usare i nomi originali dei Nativi appellandoli, di conseguenza, nei modi più diversi. Della sua gioventù si sa che crebbe come ogni altro ragazzino apache. Dovette quindi imparare subito le scaltrezze imposte da un ambiente particolarmente ostico, dove sopravvivere significava sottoporsi ad una disciplina spietata.
Doveva ogni giorno immergersi nelle acque ghiacciate dei ruscelli, per temprare le membra. Poi doveva abituare il fisico a resistere all’arsura, attraverso la scalata di un monte con la bocca piena d’acqua e senza ingoiarne una goccia. Era infatti vitale abituarsi a respirare con il naso, anziché con la bocca, per evitare i problemi di disidratazione delle zone desertiche che costellavano l’Apacheria. Un passo ulteriore consisteva nello scagliare frecce su altri coetanei o nel fare a sua volta da bersaglio, avendo l’abilità di scansare i dardi per non rischiare grosso. Biduye imparò pure a conoscere ogni minimo aspetto del territorio, in vista della vita da guerriero che l’attendeva. I nemici principali della sua gente erano i messicani, che spesso compivano spedizioni nei villaggi per procurarsi bestiame e schiavi. I prigionieri, ivi inclusi donne e bambini, venivano poi barattati con altri prigionieri messicani oppure venduti al mercato. Quando nel 1846 giunsero nella zona gli statunitensi, le cose si complicarono. All’inizio, le relazioni furono improntate a curiosi e cordialità.
Qualcuno s’illuse di poterne addirittura sfruttare la rivalità con i messicani. Purtroppo, solo col tempo i Nativi scoprirono a loro spese il vero volto dei nuovi arrivati. Va detto che gli apache furono i più grandi razziatori di bestiame di sempre. Una volta fatto il colpo, permutavano una parte del bottino in alcune “zone franche”, controllate da gentaglia di pochi scrupoli. In quell’area povera e in gran parte desertica, era scontato che si campasse con questi metodi. La razzia era praticata un po’ da tutti. Il fatto è che ogni volta che spariva qualche capo di bestiame la colpa veniva addossata solo agli apache. Alcuni Stati, come Sonora e Chihuahua, giunsero a mettere persino una taglia sul loro scalpo. Al contrario, gli apache – contrariamente a quanto si crede - disdegnavano ricorrere allo scotennamento, per motivi di superstizione. In particolare, smentendo lo stereotipo hollywoodiano dell’apache crudele, Victorio vie espressamente di usare questo sistema barbaro. Comunque, una esistenza davvero difficile, tra attacchi e rappresaglie reciproci, era quella che attendeva il povero Biduye.
C’è voluta la scrittrice Kathlee P. Chamberlain per mettere in luce gli aspetti meno noti di Victorio, che la documentazione esistente non evidenziava, puntando piuttosto su personaggi come Cochise o Geronimo. Nel suo libro “Victorio” (Il punto d’incontro, 2010) la studiosa americana ha saputo ricostruire la sua figura non solo di guerriero, ma anche di leader pragmatico, di uomo profondamente spirituale e di persona dotata di buone capacità diplomatiche. Divenuto grandicello, Victorio fece le sue prime esperienze di guerra, partecipando ad alcune incursioni come semplice assistente. Tale compito, che escludeva la partecipazione diretta agli scontri, consisteva nello svolgimento delle mansioni più umili, sotto l’occhio severo degli adulti. Egli poi si sposò con la donna amata, andando – secondo l’usanza locale - a vivere nella tribù di lei finché la poveretta fu uccisa in un’incursione nemica. Solo una figlia e un figlio gli sopravvissero, mentre un altro maschio cadde in combattimento. Dopo la guerra di secessione, arrivò purtroppo il momento in cui gli statunitensi pretesero di restringere i Nativi nelle cosiddette “riserve”. Secondo questa criminale politica, tutti i popoli del Sudovest andavano concentrati in determinate località, a prescindere dalle incompatibilità caratteriali che li avevano sempre divisi. Il generale James H. Carleton, tristemente noto per i suoi massacri, individuò una zona per lo stanziamento che ebbe la sfrontatezza di definire ideale”: San Carlos.
In realtà, questo luogo venne definito da Britton Davis, uno degli agenti del governo chiamati a dirigerlo, come “quaranta acri di inferno”. Infatti, oltre a raggiungere temperature insopportabili, risultava letteralmente infestato da serpenti a sonagli, scorpioni e insetti d’ogni tipo. Eppure si pretendeva che, in quell’Eden a rovescio, i reclusi vi si trasformassero in agricoltori! Mentre qualche Nativo vi si adattò con le buone o le cattive, Victorio resistette il più a lungo possibile a farsi rinchiudere come una bestia. Nel decennio successivo alla guerra di secessione, egli comunicò ripetutamente di mirare esclusivamente a una pace durevole. Per questa ragione, chiedeva solo di vivere il più lontano possibile dagli insediamenti dei bianchi. Oggi gli si sarebbe dato il Nobel per la pace. E invece allora gli fu offerto di vivere in un’altra località altrettanto inaccettabile: Tularosa Valley. Anche se non era San Carlos, anche lì le provviste da fame fornite dal governo riducevano gli “ospiti” a mentecatti, costringendoli a mendicare di continuo le razioni. Questa situazione degradante finiva per incentivare qualche razzia di nascosto all’esterno per sopravvivere. In queste condizioni, persino per gente ,che sapeva sopportare come pochi altri ogni disagio fisico, le sofferenze erano intollerabili. Del resto, Victorio stentava a capire una cosa. Se Dio (Ussen) aveva assegnato al suo popolo le fonti sacre di Warm Springs, affinché le proteggesse, era inammissibile che quello stesso popolo dovesse lasciarle ad altri. Qualche persona lungimirante a Washington propose allora che si adibisse a riserva quella località.
In effetti, ci sarebbe voluta una spesa di poche migliaia di dollari, che avrebbe evitato tra l’altro la deportazione forzata dei recalcitranti e una possibile guerra. Non se ne fece però nulla. E, a conti fatti, visto come andarono poi le vicende, l’Indian Office e il Ministero degli interni avrebbero potuto risparmiare centinaia di vite umane e milioni di dollari. Sta di fatto che Victorio alla fine fuggì con buona parte dei suoi da San Carlos. Secondo l’agente Samuel Russell, a spingerlo sarebbe stata un’accusa di omicidio mossagli nel luglio del 1879 da un gran giurì del New Mexico. La tesi è smentita dalla Chamberlain. In verità, Victorio voleva semplicemente tornarsene a casa, anche se il territorio era divenuto suolo pubblico e brulicava ormai di piantatori bianchi. Nella fuga, la colonna dei disperati s’arrestò inorridita dinanzi alle correnti tumultuose del Rio Grande che era in piena. Alle loro spalle s’era intanto aperta la caccia da parte della cavalleria, dei coloni e dei cacciatori di taglie. A sbloccare l’empasse fu il coraggio di Lozen, la sorella più piccola di Victorio, che s’avventurò per prima nel fiume dando l’esempio agli altri. Costei era una donna straordinaria, che il popolo chiamava “Sorellina”. Per le sue qualità, arrivò a riscuotere l’ammirazione di un duro di un’altra banda come Geronimo. Possedendo tra l’altro l’arcano potere d’intuire la direzione da cui provenivano i nemici, ella fu utilissima alla sua gente nei mesi successivi. Fu l’uccisione ad ottobre della prima moglie, mentre gli uomini erano assenti dal villaggio, a spingere definitivamente sul sentiero di guerra Victorio. Sta di fatto che da questo momento il “Vecchio Vic” (appellativo spiritoso affibbiatogli dai nemici) balzò all’onore delle cronache militari. Egli conosceva infatti a menadito come passare e ripassare senza danni da un confine all’altro. Era la tattica giusta per seminare e bloccare chi lo inseguiva. Per mesi continuò a razziare bestiame e a sfruttare i soliti sperimentati appoggi per i suoi scambi. Affrontò pure nugoli di inseguitori, che seppe sempre tenere a debita distanza grazie alla sua perfetta conoscenza del terreno.