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Il compito dell’uomo, per Nikolaj Berdjaev, è quello di diventare una persona

di Francesco Lamendola - 28/05/2012

 


 

L’uomo non è, o almeno non deve accontentarsi di essere, un semplice individuo; è, o deve sforzarsi di diventare, una persona: questa, in estrema sintesi, l’antropologia del filosofo russo Nikolaj Berdiaev (1874-1948).

Per Berdjaev, un pensatore che viene considerato come uno dei massimi esponenti dell’esistenzialismo e del personalismo cristiani e che meriterebbe di essere conosciuto molto di più, specialmente nell’Europa occidentale, la verità si trova nella persona, non nell’individuo: l’individuo è tale per un fatto meramente biologico e sociale; ma la sua intima verità, la sua vocazione, lo scopo della sua intera esistenza, emergono solo quando egli si incammina per diventare persona, realizzando la propria potenzialità ontologica, che è extranaturale e partecipe del divino.

Si capisce come Berdjaev non fosse amato nella sua patria, dopo che i bolscevichi si impadronirono del potere: lo caricarono su una nave, a Riga, insieme a una numerosa “infornata” di altri pensatori i quali, pur non essendo pregiudizialmente anticomunisti, non erano nemmeno disposti a cantare le lodi del regime sovietico, solo perché Lenin e Trotzkij pretendevano che tutti gli intellettuali suonassero il piffero per quel colpo di Stato dell’Ottobre 1917 che, allora come oggi, venivan contrabbandato per una rivoluzione.

Ma si capisce anche la ragione per cui, nel mondo capitalista, si mette tuttora la sordina alle sue opere e al suo pensiero (egli è morto a Parigi, al suo tavolo di lavoro, dopo che aveva fatto della Francia la sua nuova patria di adozione): il suo richiamo alla persona e alla verità che in essa risiede è anche, e in maniera esplicita, una denuncia della menzogna su cui si regge la società moderna: la menzogna che basti realizzare l’individuo, promettendogli la libertà e la giustizia, per creare, nello stesso tempo, la migliore delle società possibili.

Il capitalismo non è stato meno arrogante del comunismo nel portare avanti una simile pretesa, totalitaria e materialistica insieme (si pensi al delirio di onnipotenza di Francis Fukuyama e della sua teoria sulla “fine della storia” dopo il crollo del muro di Berlino); anzi, se possibile, lo è stato ancora di più, tanto è vero che ora si accinge a esportare e ad imporre le sue ricette di salvezza - democrazia e mercato - in ogni angolo del globo terracqueo, a suon di bombe se necessario, ma per carità, bombe intelligenti; intelligenti e bene intenzionate.

E invece no: l’immagine dell’uomo che prospettano le società capitaliste, con i loro presupposti liberali e radicali, è una immagine irriconoscibile, orribilmente deformata; è l’immagine di un individuo che persegue esclusivamente il proprio interesse materiale, che coltiva unicamente la propria dimensione egoistica e narcisista; quella di un essere senz’anima, senza tensione verso la trascendenza, senza la sete di Dio.

Ed ecco qui l’altro aspetto “antimoderno” del pensiero di Berdjaev: il suo profondo, lucido e tuttavia drammatico sentimento cristiano; un cristianesimo sofferto, che passa attraverso il setaccio del dubbio e della sofferenza, sul modello di Dostoevskij; un cristianesimo che, come quello di Kierkegaard, è ancora scandalo e follia; e che, come narra il romanziere russo nella «Leggenda del Grande Inquisitore», non si lascia adulterare, non si lascia annacquare, non si lascia stravolgere, ma va dritto incontro al mondo, nella sua disarmata compassione, pronto ad accettare la propria croce.

Berdjaev è convinto che, nel mondo moderno, siano presenti ed agiscano delle potenti forze anticristiane; ma è anche convinto che, contemplando l’immagine del Cristo, l’uomo contemporaneo possa ritrovare se stesso e reagire vittoriosamente al nichilismo, all’angoscia, alla disperazione, e rifondare un mondo rinnovato nello spirito di Dio.

Scriveva Nikolaj Berdjaev nel suo saggio «Il problema dell’uomo» (titolo originale: «Problema celoveka (k postroeniju christianskoj antropologii)»; in «Pensieri controcorrente» a cura di Adriano Dell’Asta, Milano, Edizioni La Casa di Matrjona, 2007, pp. 126-31):

 

«Se l’uomo fosse soltanto un individuo non si innalzerebbe al di sopra del mondo naturale. Quella di individuo è una categoria naturalistica, innanzitutto biologica. L’individuo è qualcosa di indivisibile, un atomo.  […]

L’individuo è anche una categoria sociologica e sotto questo aspetto dipende dalla società, è una parte della società, un atomo dell’intero sociale. […]

La persona è qualcosa di assolutamente diverso. La persona è una categoria dello spirito, non della natura, e non è soggetta né alla natura né alla società. La persona non è assolutamente una parte della natura e della società, e non può essere pensata come una parte in relazione a un tutto, quale che esso sia.  […]

Le persona, considerata come un tutto, non può essere soggetta a nessun altro intero, si trova al di fuori del rapporto tra genere e individuo. Si deve pensare la persona non come qualcosa che è sottomosso al genere, ma come una realtà che è in correlazione e in comunione con altre persone, con il mondo e con Dio.  […]

Per la filosofia esistenziale la persona umana ha un’esistenza sua propria extranaturale, pur avendo in sé degli elementi naturali. La persona si contrappone alla cosa, si contrappone al mondo degli oggetti, è un soggetto attivo, un centro esistenziale.  Ed è solo per questo che la persona umana è indipendente dal regno di Cesare. Essa ha un carattere assiologico, è un valore.  Il compito dell’uomo è appunto quello di diventare persona. Dire di qualcuno che è una persona significa dare una valutazione positiva di quell’uomo.  La persona non nasce dai genitori come l’individuo, è creata da Dio e si auto-crea, è l’idea che Dio ha di ogni uomo. […]
La persona è l’unità di un destino. E questa è un’altra delle sue definizioni fondamentali.  Essa è inoltre l’unità nella molteplicità.  Non si compone di parti. Ha una composizione complessa e multiforme, ma in essa il tutto precede le parti. L’insieme complesso dell’uomo, che è psico-fisico-spirituale, costituisce un unico soggetto. Ciò che è più essenziale per la persona è il fatto che essa presuppone l’esistenza di un principio sovra personale, di qualcosa che le è superiore e verso il quale essa si innalza nella propria realizzazione. Non si dà persona se non c’è un essere che stia più in alto di lei. Altrimenti c‘è solo l’individuo soggetto al genere e alla società, altrimenti la natura è più importante dell’uomo e quest’ultimo è soltanto una sua parte.  La persona può portare in sé un contenuto universale; anzi, solo la persona ha questa capacità. Nessuna realtà oggettiva può racchiudere un contenuto universale, ciò che è oggettivo è sempre particolare.  […]

La persona può essere concepita soltanto come un atto, è opposta alla passività, indica sempre una resistenza creativa. L’atto è sempre atto creatore, un atto non creatore, come abbiamo già detto, è una forma di passività. L’atto non può essere ripetizione, esso porta sempre con sé una novità. Nell’atto è sempre presente la libertà ed essa, appunto, porta la novità. L’atto creativo è sempre legato a ciò che nella persona c’è di più profondo. La persona è creatività. […]

La persona è resistenza, resistenza contro il determinismo che la società e la natura ci vorrebbero imporre, è una lotta eroica per l’autodeterminazione interiore. La persona ha un centro volitivo nel quale ogni movimento è determinato dall’interno e non dall’esterno, La persona si contrappone al determinismo. La persona è dolore. L’eroica lotta per la realizzazione della persona è dolorosa. Si può evitare il dolore rinunciando alla propria personalità. E l’uomo troppo spesso sceglie questa via. Essere una persona, essere liberi, non è facile, è anzi qualcosa di molto difficile, un peso che l’uomo deve portare. Dall’uomo si pretende in continuazione che rinunci alla sua personalità, che rinunci alla libertà, e sempre i cambio gli viene promesso che la sua vita sarà molto più facile. Si esige che si assoggetti al determinismo della società e della natura. È da ciò che dipende tutta la tragicità della vita. Non v’è un solo uomo che possa ritenersi una persona compiuta.[…]

La persona non è autosufficiente, non può mai essere soddisfatta di sé. Essa presuppone sempre l’esistenza di altre persone, l’uscita da sé verso l’altro. Il rapporto della persona con le altre persone è il contenuto qualitativo della vita umana. […]

L’uomo è un essere scontento di sé e insoddisfatto che negli atti più importanti della propria vita va al di là di se stesso. In questa autodeterminazione creativa la persona si forgia. Essa presuppone sempre una vocazione, l’unica e irripetibile vocazione di ognuno. Segue una voce interiore che la esorta a realizzare l’opera della sua vita. L’uomo è persona solo quando segue questa vocazione interiore e non le influenze esterne. La vocazione ha sempre un carattere individuale.  E il problema della vocazione di un determinato uomo non può essere risolto da nessun altro se  non da questo stesso uomo. La persona ha una vocazione perché è chiamata alla creazione. E la creazione è sempre individuale.  La realizzazione della persona presuppone l’ascesi. Ma l’ascesi non può essere intesa come un fine, come ostilità verso il mondo e la vita. L’ascesi è soltanto un mezzo, un esercizio, un modo per concentrare le forze interiori.  […]

La persona è diversità, unicità, irripetibilità, originalità, non somiglia ad altri. La persona è l’eccezione e non la regola. Siano di fronte a un paradossale accostamento di realtà contrapposte: personale e sovra-personale, finito e infinto, immutabile e mutevole, libertà e destino. E c’è, da ultimo, un’altra antinomia fondamentale connessa alla persona. La persona deve ancora realizzarsi e nessuno può considerarsi una persona già pienamente realizzata. Ma per potersi realizzare creativamente la persona deve già essere, deve già essere quel soggetto attivo che si realizza. […] è questo il più grande mistero dell’esistenza umana… »

 

Berdjaev non crede alla democrazia; meglio: non crede alla democrazia materialista, che nasce dalla demagogia, ossia dal vezzeggiamento dei più bassi istinti delle folle. Nega anche che esista un “popolo” come categoria ontologica, e accusa i democratici di nominalismo, poiché, riempiendosi la bocca del “popolo”, finiscono per non vedere la persona, la persona concreta che soffre, che spera, che lotta per una vita migliore. La demagogia, mediante la quale tutte le democrazie si affermano, è una fonte impura, dalla quale non può nascere qualcosa di buono.

Egli afferma che quando gli uomini hanno smesso di credere alla verità e alla giustizia, allora si sono affidati alla democrazia; facendo del “popolo” il giudice supremo in fatto di verità e di giustizia, a costo di negare, nei fatti, la verità e la giustizia: perché il “popolo” non è un buon giudice in tali questioni, meno ancora se agitato e travolto dalle passioni che la politica demagogica dei suoi “rappresentanti” attizza ed esaspera incessantemente.

Berdjaev, peraltro, afferma che la democrazia è una fase storica necessaria: serve, se non altro, a mostrare agli uomini la fallacia e l’illusorietà di un governo retto dal “popolo”, ma basato sulla menzogna che quanto dice il “popolo” sia, per ciò stesso, verità e giustizia. E tutto questo nasce essenzialmente dal’oblio della persona, dall’aver sostituito alla persona l’individuo, ossia una mera entità biologica e sociale.

Lo stesso concetto di società andrebbe rivisto: esso indica un insieme in cui la persona scompare, in cui la persona è passiva e subisce l’azione di forze esterne; ad esso, il filosofo russo preferisce sostituire il concetto di “collettività”, in cui ogni singola persona è spronata a porsi in relazione aperta e dinamica con il prossimo e con il mondo. Né si tratta solo di cambiare parole o concetti, ma, ovviamente, di modificare il nostro atteggiamento verso la vita e verso i problemi che essa pone: bisogna ritrovare il senso della persona e della relazionalità, contro i meccanismi spersonalizzanti e omologanti della società moderna.

Berdjaev auspica l’avvento di una democrazia spirituale, liberata dal pregiudizio razionalista su cui si fondano le democrazie moderne: perché l’uomo senza Dio è come una pianta senza radici, e una civiltà fondata sull’ateismo o sul rifiuto intenzionale del cristianesimo è destinata a inaridirsi e autodistruggersi fatalmente.

Quanto vi sarebbe bisogno di diffondere simili idee, facendo entrare un poco di aria e di luce nel chiuso e nel grigiore della filosofia contemporanea; restituendo un poco di speranza in una cultura che sembra capace di seminare soltanto dubbio, angoscia e turbamento…