Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Etica comunitaria, progresso e rivoluzione (III parte)

Etica comunitaria, progresso e rivoluzione (III parte)

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 30/05/2012

 

 

 Connaturata allo sviluppo del capitalismo è l’idea del progresso. E’ questa visione lineare di un progresso incessante e fuori da ogni limite che costituisce il fondamento filosofico della concezione progressiva della storia e della cultura liberale. E’ la concezione determinista della storia, intesa come infinito progresso che presiede anche alle trasformazioni del capitalismo e ne legittima tutte le sue evoluzioni antisociali e devastanti per l’ambiente, le religioni, le culture, le identità dei popoli. Il mito del progresso ha origini illuministe e prefigura come obiettivi, società perfette, ritorni a stati di innocenza primordiali dell’uomo, in una parola, il fine del progresso si identificherebbe con il paradiso in terra. Il carattere astratto ed estraneo alla natura umana di tali concezioni è evidente. Il perseguimento di tali impossibili obiettivi presupporrebbe l’impegno e la dedizione assoluta propria di élites di sacerdoti del progresso. Tali proposizioni, nel contesto liberale, sarebbero contraddittorie: l’avanzata del progresso è coeva alla evoluzione della società in senso liberaldemocratico e pertanto il progresso può sussistere in quanto le sue conquiste siano generatrici di profitto e di rapida diffusione tra le masse. Si deve allora concludere che l’evoluzione progressista della società coincide con l’espansione capitalista e quindi, l’accezione contemporanea dell’idea del progresso si identifica con lo sviluppo illimitato della produzione e del consumo propri della economia del capitalismo avanzato. E’ quindi legittimo elaborare questa equazione: progresso = mercificazione del mondo. La stessa protesta degli indignati di tutto il mondo contro la schiavitù del debito, la disoccupazione, la mancanza di prospettive per i giovani, si fonda su presupposti errati, quando i giovani rivendicano il proprio diritto a vivere nella condizione dei loro padri. La condizione di benessere diffuso è oggi improponibile nella misura in cui è impossibile tornare ai livelli abnormi di consumo dei decenni passati. Certi livelli di consumo sono insostenibili, in quanto realizzati attraverso l’indebitamento insolvibile delle masse dei consumatori e uno sfruttamento delle materie prime incompatibile con l’equilibrio dell’ecosistema. Il consumismo illimitato è una creazione dell’economia finanziaria, che, a sua volta, ha la sua ragion d’essere nella impossibilità nell’economia industriale di creare nuova domanda. La società comunitaria non è incompatibile con l’idea del progresso, ma lo è semmai con uno sviluppo dell’innovazione subordinata alla logica del profitto. Il progresso dell’umanità è dunque legato ad altri parametri. Una società sarà tanto più progredita, quanto più avrà affrancato il maggior numero di individui dalla schiavitù dei bisogni materiali, avrà elevato il livello culturale della società, preservato l’ambiente, ridotto le diseguaglianze economiche, avrà offerto maggiori opportunità per tutti e una maggiore mobilità sociale. In tale ottica, si deve concludere che lo sviluppo del capitalismo ha seguito negli ultimi decenni un corso non progressista, ma regressivo.

 

 Toccherò due punti, quello della insostenibilità dell’attuale sviluppo basato sul consumismo illimitato, e quello sulla eventuale ridefinizione radicale dell’idea di progresso.

 Sono d’accordo con i teorici della decrescita (Latouche, Bontempelli) sulla sostanziale insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo capitalistico globalizzato. Condivido tutti i parametri essenziali del loro ragionamento, e rilevo che recentemente anche de Benoist vi ha aderito, suscitando i consueti sospetti dei “decrescisti di sinistra”, cui evidentemente la stessa decrescita interessa di meno dell’isterico mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra. Mi disturba soltanto il loro miserabilismo missionario, come se si dovesse essere ad ogni costo anche vegetariani o vegani per salvare il pianeta, i consigli per accendere il fuoco senza fiammiferi, e tutte le idiozie che un certo ecologismo innocuo alla moda ha messo in circolazione negli ultimi decenni. Il fatto che molte aree del pianeta non abbiano per ora bisogno di decrescita, ma semplicemente di crescita (gran parte dell’Africa e dell’Asia), non é rilevante per l’argomentazione, perché se ci si colloca al livello del pianeta complessivo l’unico argomento dei “crescisti” è una scommessa pasca liana, e cioè che la scienza e la tecnologia troveranno sempre materie prime e tecnologie adatte anche dopo l’esaurimento di minerali e carburanti. In realtà è tranquillamente possibile fare uno scenario futurologico in cui questo non avviene, o non avviene abbastanza.

 In realtà, i sostenitori della decrescita sono ridotti alla esortazione morale rivolta erga omnes ed agli amanti del ragionamento previsionale (il due per cento della popolazione mondiale, con una valutazione di vertiginoso ottimismo). Il meccanismo del consumismo illimitato è semplicemente la ricaduta antropologica di massa del funzionamento del capitalismo finanziario globalizzato, che unisce strettamente la fame nel mondo, il consumo di prestigio per pochi e l’estetica del centro commerciale per le nuove plebi a reddito basso. Se Renzo Bossi detto Trota si vuole comprare ad ogni costo la Ferrari e Claudio Scajola un alloggio davanti al Colosseo dichiarando di non essere infornato sulle fonti di finanziamento, simili scene da avanspettacolo non mi suscitano nessuna indignazione morale (da tempo so che nel suo complesso salvo eccezioni il ceto politico professionale in Italia è composto da criminali comuni organizzati), ma solo pacate riflessioni sul fatto che i consumi di lusso ed in generale le spese inutili e scandalose sono semplicemente ricadute della immoralità strutturale di un sistema fondato sul denaro che ha come inno popolare religioso la canzonetta: “Nessuno mi può giudicare!”. Ecco perché, in. Conclusione, si può certamente pensare in alcuni casi ad economia più “verde” (la Germania insegna), ma una vera e propria decrescita implica una rivoluzione titanica, in cui i bisogni di greca ed epicurea memoria sostituiscano i desideri illimitati di tipo pubblicitario. Se pensiamo che oggi persino il pensiero di estrema sinistra si basa sulla antropologia del desiderio illimitato (Deleuze, Guattari, Negri. Hardt, eccetera), sostituendo Marx con Benetton senza neppure averne la più lontana coscienza, potremo concluderne con Ennio Flajano che 1a situazione è disperata, ma non seria. Passando al tema del progresso, tu noti correttamente che di fatto, al netto della           retorica edificante, oggi il progresso è diventato regressivo, perché si identifica con la mercificazione del mondo. Elementare, Watson! Ma poi sostieni che il concetto di progresso deve essere mantenuto, ma riparametrato, ed indichi fra i nuovi parametri l’affrancamento del maggior numero di individui dalla schiavitù dei beni materiali (immagino necessari per una dignitosa sopravvivenza), un elevato livello culturale della società, la preservazione dell’ambiente, la riduzione delle diseguaglianze, una maggiore mobilità sociale.

Si tratta ovviamente di proposte di buon senso pienamente condivisibili, che peraltro anche Draghi, Monti, Berlusconi e Bersani sottoscriverebbero fra gli applausi della plebe dei comizi della domenica, voltando immediatamente pagina sulla base della fede del “rilancio dell’economia” sulle stesse basi neoliberali e globalizzate. Ecco perché io sono molto più radicale, e propongo l’abolizione tout court della paroletta “progresso”, sia come parola che come concetto.

Intendiamoci, non penso proprio di impedire alla gente di usare quando vuole il collaudatissimo paroletta”progresso” (progresso delle tecniche chirurgiche, progresso delle terapie farmacologiche, progresso delle innovazioni informatiche, progresso nella corretta alimentazioni e nell’apprendimento dell’inglese, eccetera). La gente parli pure come vuole.  Tempo fa le femministe cercarono di imporre formule scritte di raddoppiamento obbligatorio politicamente corretto dei finali di parola a/o e i/e, trovando accoglienza nella parte tradizionalmente più stupida dell’intera società, i gruppettini di sinistra politicamente corretti. Parlo di stupidità, perché mentre il problema era quello di riqualificare integralmente il comunismo, sporcato ed infangato dai Gorbaciov, Eltsin, D’Alema e Veltroni, essi credettero di salvarlo con iniezioni dopanti di ecologismo, femminismo e pacifismo, e cioè con ingredienti provenienti direttamente dall’impero, e cioè dal pensiero radicale statunitense. A suo tempo, Vercingetorige non era così coglione da pensare di poter salvare i costumi dei Celti adottando 1a toga romana ed i giochi gladiatori.

Ma torniamo al concetto di progresso. Se lo vogliamo usare come sinonimo di “miglioramento”, si faccia pure. Ma qui è il concetto che deve essere tolto integralmente, e cerchiamo di spiegare sommariamente il perché.

Nella cultura greca classica, matrice dell’intera tradizione occidentale del “progresso” non esisteva né la parola né il concetto. Per indicare l’equivalente semantico positivo si parlava di ristabilimento di una misura (metron) e di un equilibrio infranto. Questo non significa che gli antichi greci non avessero il concetto di miglioramento delle tecniche di navigazione, di cura, di costruzione, eccetera. E’ evidente che ce lo avevano. Ma il concetto unificato di progresso come senso univoco direzionale della storia anch’essa concettualmente unificata (Koselleck) è un prodotto originale del settecento borghese europeo. Si tratta certamente di una filosofia (Condorcet), ma di filosofia fortemente ideologica, in cui il concetto di progresso prima di ogni altra cosa è un’arma simbolica da usare contro i residui feudali-signorili.

Da allora questo concetto si è riprodotto in modo automatico facendo da minimo comun denominatore sia del liberalismo che del comunismo. Il comunismo fece l’errore di trasformarlo in pilastro della sua filosofia necessitaristica della storia, ignorò sempre i consigli di felativizzar1o che pure venivano dal suo interno (Sorel, Benjamin), e fu infine seppellito sotto le sue macerie. Il liberalismo lo legò strettamente ai due parametri della liberalizzazione dei mercati e dell’incremento del consumi, sorvegliati benevolmente dall’alto dalla scienza e dalla tecnologia. Arche in questo caso, vediamo che la cosa migliore sarebbe rinunciare alla parola, per gli equivoci che essa si porta con sé.