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Etica comunitaria, progresso e rivoluzione (IV parte)

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 30/05/2012

       

 

 

 Si avverte l’esigenza di un nuovo modello di sviluppo, di nuovi orizzonti sociali e culturali che si sostituiscano a questo stato di atrofia spirituale generalizzata, propria di una società in perenne decadenza. Come è naturale, l’idea di trasformazione dell’esistente è di per sé per molti accattivante, ma tuttora nebulosa e relegata nel regno del possibile - futuribile. Come è del resto radicata l’idea di conservazione di un presente, anche se pieno di fenomeni negativi e contraddittori, in quanto si teme il salto nel buio, si diffida di un nuovo mondo il cui avvento sembra improbabile. Ma soprattutto, è quasi un luogo comune ripetere che questa realtà può mutata solo con una trasformazione rivoluzionaria. E quando però si vuole prendere in considerazione l’avvento di un possibile fenomeno rivoluzionario, le idee divengono assai vaghe. Ci si domanda: con chi? per fare cosa? Certo è che oggi sono di scarso ausilio i riferimenti alle rivoluzioni del 1789 e del 1917. Nuove rivoluzioni, proprio perché volte ad abbattere il capitalismo, la società piramidale delle élites finanziarie, la diseguaglianza e l’egualitarismo del consumo, non potranno essere attuate da ristrette classi dirigenti cui sia devoluta la missione storica di educare le masse ad un credo ideologico, considerato come un ineluttabile destino dell’umanità. Nuove rivoluzioni non potranno che essere comunitarie e quindi opera della base, perché presuppongono l’azione di popoli che già hanno creato nella società nuovi modelli produttivi e di organizzazione sociale. Ma si può obiettare: dov’è lo spirito comunitario nelle masse alienate dalla produzione e dal consumo? Si può immaginare un operaio, un impiegato, un insegnante, un professionista, un industriale, un commerciante ecc… diverso da quello che è nella vita sociale di questa realtà? Ci si chiede come sia possibile un comunitarismo in una società strutturata sugli egoismi individuali e collettivi. Invero si costata ogni giorno la sussistenza di una antropologia sociale fondata sull’individualismo, che sembra immodificabile. Esiste allora una antropologia comunitaria? L’antropologia del capitalismo in tanto sussiste, in quanto la struttura economico - sociale ha creato dei ruoli funzionali all’esistenza sia dell’ordine politico - economico, sia della cultura massmediatica. Il comunitarismo è una rivoluzione di popolo perché rivoluzione delle coscienze, basata sulla fuoriuscita delle masse dai ruoli ad esse attribuiti dal sistema capitalista. La crisi del capitalismo avanza ed emargina masse crescenti di lavoratori: tale processo sarà determinante nel creare nella prassi sociale una nuova antropologia comunitaria. Le rivoluzioni non si realizzano per l’oppressione fiscale e per cause utilitariste, ma presuppongono etica, disciplina, una coscienza interiore scevra di egoismi individuali, in vista dell’avvento di una nuova società e nuovi destini dell’umanità.

 

Il concetto di rivoluzione è oggi strettamente legato a quello di ristabilimento di una antropologia comunitaria, ed è per l’appunto questo il problema che per il momento appare assolutamente insolubile.

Se vogliamo usare il termine di rivoluzione nel solo modo corretto e non equivoco (per cui eviteremo le primavere arabe - fenomeno controrivoluzionario, i mutamenti di gusti musicali e sessuali, eccetera), e cioè di rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di produzione (mi sembra che qui, Marx non sia ancora stato superato, certo non da Max Weber o da Heidegger), allora ne consegue che nell’ultimo secolo in Europa (1912-2012) la sola ed unica rivoluzione sia stata quella russa del 1917. Abbiamo poi avuto molte guerre civili (Spagna 1936, Grecia 1946), molti rivolgimenti e cambi nelle forme di stato e di governo (persino il colpo di stato giudiziario extra-parlamentare surrealmente definito Mani Pulite è stato gabellato per “rivoluzione”), ma la stessa resistenza italiana 1943-1945, con buona pace sia dei suoi ammiratori sia dei suoi detrattori, non è stata in alcun modo una rivoluzione, così come non lo sono state le esportazioni del modello staliniano di socialismo nei paesi dell’Est (Cina 1949 e Cuba 1959 invece lo sono veramente state, indipendentemente dalla successiva restaurazione del capitalismo in Cina). Nel 1989 si è invece verificata tecnicamente una controrivoluzione, fatta passare ideologicamente per liberazione, e cioè per scatenamento del capitalismo. E questo - lo ripeto - in senso tecnico, prescindendo cioè dal giudizio positivo o negativo (o misto) da dare ai paesi del defunto socialismo reale. Anzi, tecnicamente la definirei controrivoluzione pacifica di massa dei nuovi ceti medi socialisti contro un dispotismo burocratico operaio livellatore. Poi ognuno ci metta il giudizio di valore che vuole, purché sappia che in ogni caso esso dipende dalla filosofia della storia sottostante che ognuno coltiva nel suo foro interno.

 Per un secolo, finito il tempo delle rivoluzioni borghesi inaugurate a Parigi nel 1789, 1a rivoluzione è stata associata strettamente al soggetto politicamente organizzato operaio, salariato e proletario. Si è trattato sempre e solo di un mito di mobilitazione di tipo soreliano, perché i proletari di tutto il mondo non si sono mai uniti, non danno traccia di volerlo fare ed a mio modesto avviso di anticapitalista radicale che non vuole però raccontar(si) delle storie non lo faranno mai, muovendosi sempre e soltarato, quando riescono a farlo (ed oggi non ci riescono), su basi esclusivamente nazionali. Se pensiamo che oggi l’estrema sinistra accademicamente riconosciuta (Negri, ma anche Hobsbawm) auspica il superamento dello stato nazionale, ne consegne che oggi non c’è più Scienza Politica, ma soltanto Masochismo Politico.

Si usa ripetere a pappagallo che oggi non c’è più rivoluzione perché è venuto a mancare un “modello”, o meglio perché il modello precedente é fallito, e quindi irriproponibile. Ma non lo credo proprio. Il 1789 francese ed il 1917 russo furono fatti senza nessun modello, in quanto non lo erano a rigore né il giusnaturalismo illuministico dei diritti dell’uomo né il modello statalizzatore del marxismo della Seconda Internazionale, di cui i bolscevichi erano pur sempre dipendenti. I modelli si trovano sempre rapidamente ex post, e non consistono mai in applicazioni artificiali già pronte. Inoltre, i modelli si costruiscono e ricostruiscono per prove, tentativi ed errori, e richiedono decenni per potersi assestare in modo più o meno stabile.

 Oggi la rivoluzione purtroppo (e sottolineo il purtroppo) appare letteralmente “indispensabile”, proprio perché non riusciamo neppure ad immaginarne la forma possibile. Certo, in una modellistica astratte inevitabilmente kantiana e maxweberiana possiamo immaginarcela come un grande sciopero generale soreliano, pacifico o violento, o più esattamente con una miscela delle due componenti della violenza e dell’ordine pianificato. Ma tutti sappiamo che non è realistico, e questo non certo per la risibile ragione per cui le utopie sarebbero irreversibilmente fallite (nella storia le presunte irreversibilità, si calcolano in ventenni), ma per cui mancano le forze soggettive aggregabili. Lasciamo ai nostalgici l’idea che l’aggregazione verrà da forze sociologiche salariate, operaie e proletarie.

Il fatto è che oggi, insieme alla prospettiva della rivoluzione nel vecchio (ed unico) senso del termine, è venuta meno anche la vecchia dicotomie Riforme/Rivoluzione, per cui per un secolo e mezzo si è detto che era meglio affidarsi ad una lenta evoluzione positiva senza strappi per ottenere risultati simili senza lo scorrimento del sangue ed i cicli di violenza che ne susseguono. In realtà non si vede oggi neppure quali forze siano seriamente in grado di ipotizzare una riforma di questo modello di capitalismo globalizzato a prevalenza finanziaria. Oggi il fattore soggettivo sembra spento non solo per le rivoluzioni, ma anche per le riforme. I frenetici ed ipocriti summit dei politici, disturbati o meno da incappucciati in passamontagna o da pagliacci dipinti in trampoli e tamburi, pattinano sul ghiaccio sottile delle superfici di realtà interamente dominate dalla speculazione finanziaria e dai suoi riti in inglese (del tipo dello spread – oh, il buon vecchio Spirito Santo!).

E allora? Bisogna forse rassegnarsi? Bisogna accettare la trinità universale della gabbia d’acciaio, del disincanto del mondo e del politeismo dei valori? Bisogna accettare il più odioso dei domini militari travestito da interventismo in difesa della pace e dei diritti umani? Bisogna accettare, che il Politicamente Corretto ci imponga che cosa possiamo dire e che cosa non possiamo neppure pensare?

Non può essere questa ovviamente la conclusione. Il pessimismo non è obbligatorio, ed anche l’ottimismo è facoltativo. Non si tratta allora di dare retta alle ideologie diffuse dai pensatori permessi dal potere, in quanto il potere dosa anche la critica concessa a dosi omeopatiche (esemplare il caso di saggisti come Bauman e Zizek). Ciò che passa il mercato editoriale e televisivo è sempre filtrato de vere e proprie “griglie di compatibilità”. Il massimo di coraggio nello svelamento (esemplare l’unica vera giornalista italiana d’inchiesta onesta, Milena Gabanelli, il resto è cabaret per semicolti PD, Santoro e Saviano inclusi) consiste nell’indicare veri e propri casi scandalosi. Ma essi sono migliaia, e come i buchi nelle dighe tappatone uno se ne apre un altro.

Le rivoluzioni non si fanno con modelli preapplicabili, e neppure accostandosi o discostandosi da modelli ideali pregressi, come è stato il caso del marxismo, dato che il modello originale di Marx era perfettamente inapplicabile, fondandosi su vere e proprie fanfaluche come l’abolizione dello stato e la capacità di auto-organizzazione rivoluzionaria (e non solo sindacale, quella ovviamente c’è) della classe operaia, salariata e proletaria. Le rivoluzioni richiedono lente precondizioni di aggregazione antropologica, e soprattutto la visibilità non tanto del modello futuro, quanto della debolezza del nemico e della perforabilità delle sue difese. Questa non c’è ancora, e non si può affrettare artificialmente. Per ora basti affermare che ci può essere, e mandare cordialmente al diavolo chi parla di utopia, terrore ed altre fregnacce di prevenzione e contenimento.