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Giudicare la bellezza altrui è, piaccia o no, un atto sessuale

di Francesco Lamendola - 04/06/2012

 


 

I concorsi di bellezza della società moderna non sono che un’eco, forse sbiadita, certamente fracassona e di gusto discutibile, di quelli che avevano luogo nell’antica Grecia, nel contesto di una civiltà che attribuiva il massimo valore alla bellezza fisica e che, anzi ne era a tal punto ossessionata, da credere che essa dovesse per forza accompagnarsi alle qualità dell’animo; e che, al contrario, la bruttezza fosse indice di viltà, perfidia, maldicenza (e si veda, in proposto, l’episodio di Tersite nell’«Iliade».

Ora, non possiamo dire di sapere molto intorno alle gare di bellezza esistenti già nel periodo greco arcaico; ma il fatto che esse siano attestate, tanto per il genere femminile che per quello maschile, da poeti come Saffo e Alcmane, ci fa immediatamente avvertiti che un profondo legame doveva esistere fra poesia, musica ed esposizione della bellezza corporea.

Addirittura, si potrebbe ipotizzare che la poesia lirica nasca proprio dal corteggiamento implicito (o esplicito) contenuto nei versi che venivano declamati in occasione di tali gare e che erano rivolti a questo o quel fanciullo, a questa o quella determinata o fanciulla; o che, quanto meno, tale circostanza fosse una delle sue più antiche sorgenti.

Ma chi svolgeva la funzione di giudice nelle gare di bellezza dell’antica Grecia, sia in quelle femminili che in quelle maschili?

Lo studioso inglese K. J. Dover, già professore a Oxford e considerato uno dei massimi classicisti al mondo, ha supposto che la condizione delle donne libere greche era tale da rendere difficile, se non impensabile, che esse potessero svolgere la funzione di giudici in una gara di bellezza virile; ciò le avrebbe abbassate al livello delle prostitute, o meglio, sarebbe stato incompatibile con i principi vigenti nelle classi medie ed alte delle “poleis”.

Di conseguenza, come logica deduzione, si può supporre che le donne fossero preposte a giudicare la bellezza delle concorrenti nelle gare femminili, mentre gli uomini avrebbero potuto giudicare sia i partecipanti dei concorsi maschili, sia quelle dei concorsi femminili.

La conclusione di Dover è che i concorsi di bellezza femminili fossero una ghiotta occasione per la celebrazione dell’amore lesbico, come sarebbe possibile vedere nei versi di Saffo; versi che invano qualche critico pudibondo ha voluto interpretare in senso non sessuale, mentre è chiaro a qualunque lettore non prevenuto che l’erotismo in cui essi si esprimono è di natura inequivocabilmente sessuale.

Ebbene, così come sarebbe ipocrita negare la relazione che doveva esistere nel mondo antico, e specificamente nella Grecia arcaica e in quella classica, fra la danza, la musica e l’erotismo, del pari lo sarebbe il voler fingere di non vedere il rapporto che si instaura, oggi come ieri, fra il giudizio estetico della bellezza altrui e la sfera del desiderio sessuale.

Giudicare e la bellezza del corpo di un ragazzo o di una ragazza, infatti - e giudicarla nel senso più proprio della parola, ossia con l’attribuzione di un premio al vincitore o alla vincitrice - è un atto che attiene alla sfera sessuale; perché, se il giudizio del critico d’arte rispetto a un nudo rappresentato sulla tela o nel marmo si fonda su categorie di tipo estetico, il giudizio del membro di una giuria in un concorso di bellezza, che non ha davanti a sé dei quadri o delle sculture, ma dei corpi vivi, giovani e attraenti, non può scaturire che da emozioni che appartengono, invece, alla sfera più propriamente sessuale.

Si può anche far finta che così non sia: e non solo i membri di una giuria, che si atteggiano a esaminatori distaccati e imparziali; non solo il pubblico, che assiste con un entusiasmo e una curiosità falsamente innocenti, ma anche gli stessi partecipanti, o le stesse partecipanti, a un concorso d bellezza, possono ostentare una forma di distacco professionale, quasi che non stessero esponendo il proprio corpo nudo, ma un’opera d’arte da loro creata.

Tutto questo, però, non è che falsa coscienza e nasce dal desiderio di occultare ciò che, invece, è fin troppo evidente: ossia che tutto lo spettacolo è una celebrazione del desiderio sessuale, che esso stimola potentemente l’immaginazione sessuale e che vi si partecipa non solo per vincere una somma di denaro o un titolo, nonché per accedere, forse, a una carriera di conduttrice o di attrice televisiva, ma anche e soprattutto per ricevere una gratificazione di tipo sessuale.

Il fatto che tale gratificazione avvenga in forma sublimata, ossia non mediante il raggiungimento dell’orgasmo fisico (ma chi può dire che così non sia?), bensì mediante l’euforia, la gioia sfrenata e incontenibile di essere stati riconosciuti come i più belli, ossia come i più desiderabili, in mezzo a una folta e agguerrita schiera di concorrenti, non dovrebbe fare velo alla reale natura di essa, che è, appunto, di tipo sessuale, e non altro.

Ciò è particolarmente evidente in quei concorsi di bellezza, specificamente femminili, nei quali non viene giudicata la bellezza dell’intera persona, né dell’intero corpo, ma di singole parti di esso, ad esempio le gambe o il seno; per non parlare di quei particolari concorsi, tipici di certi ambienti balneari (o studenteschi), soprattutto americani, finalizzati ad eleggere eletta “miss maglietta bagnata” e nei quali l’ammiccamento e la provocazione sessuali sono quanto di più esplicito si potrebbe immaginare.

Scriveva, nella sua dotta e ormai classica monografia Kenneth J. Dover, «L’omosessualità nella Grecia antica» (titolo originale: «Greek Homosexuality», London, Gerard Duckworth and Company Ltd, 1978; traduzione italiana di Martino Menghi, Torino, Einaudi, 1985, pp. 189-91):

 

«Sappiamo che al tempo di Saffo c’erano gare di bellezza fra donne, dal momento che Alceo, nel suo fr. 130.32 dice:

 

“Vengano qui con gli strascichi lunghi le donne

di Lesbo, emule in gare di beltà. D’intorno

palpito d’ineffabili echi: femmineo

urlio, nell’annuale.”

 

Anche in Elide vi erano gare di bellezza tra donne e anche tra uomini (Teofrasto fr. 111). Chi era il giudice?  Valutare la bellezza altrui è (ci piaccia o no) un atto sessuale, ed è questo il motivo per cui è improbabile che, in una comunità greca, donne che godevano dello statuto di cittadine fossero incaricate di giudicare uomini e di assegnare premi a determinati individui in base a un criterio di stimolo sessuale; Plutarco, “Licurgo 14.4, trova che Sparta sia singolare Anche per il fatto che in quella città i giovani maschi potevano essere presenti come spettatori alle rappresentazioni dei “partheneia”. Comunque, se delle fanciulle ricevevano elogi da donne e da altre fanciulle in termini eccessivi e disinibiti,  potevano essere certe che le loro controparti maschili ne ricevano in abbondanza. È quindi possibile che i rapporti tra quelle  che partecipavano a un coro femminile oppure fra maestra e allieve nella musica e nella poesia costituissero una vera e propria “sottocultura”, o meglio una “controcultura”, in cui le donne  del fanciulle ricevevano dal loro sesso quello che la segregazione  e la monogamia impediva che ricevessero dall’uomo.  Il linguaggio con cui questi rapporti venivano espressi non è sufficiente a dirci se Saffo, le fanciulle di Lesbo e coloro che partecipavano ai cori di Alcmane cercassero di provocare l’orgasmo l’uno nell’altro mediante il contatto fisico. Saffo, fr. 94 e Plutarco, “Licurgo”, 18.9, ci lasciano intendere che così fosse, e che la popolazione maschile di Lesbo e Sparta del periodo arcaico fosse senz’altro a conoscenza di questo fatto; al di fuori del circolo socratico non è possibile che un Greco avesse molte occasioni di ascoltare un linguaggio erotico senza presupporre che coloro che se ne servivano provassero piacere in atti sessuali ogniqualvolta se ne presentasse l’occasione. Se ho ragione di pensare che nell’arte e nella letteratura attica l’omosessualità femminile fosse, a tutti gli effetti, un argomento tabù, è chiaro che esistevano differenze importanti da regione a regione e da periodo a periodo […]. Il fatto che una valutazione negativa dell’omosessualità di Saffo sia stata messa in circolazione in un periodo tardo può essere spiegabile facendo riferimento al ruolo che gli atteggiamenti morali, sociali e culturali ateniesi (e non dimentichiamo la crescente importanza di preoccupazioni di tipo filosofico presso la società ateniese cola del IV secolo) svolsero nel determinare i criteri morali ellenistici.»

 

La società contemporanea, proprio per la caratteristica tendenza del capitalismo a trasformare ogni cosa in merce, e dunque anche il corpo umano, nonché per una serie di fattori spirituali ed estetici legati alla sua “décadence” (sazietà, estenuazione del gusto, e, al tempo stesso, confusione e incertezza morale) è una società ad alto quoziente erotico; e le sfilate e i concorsi di bellezza possono considerarsi come una delle espressioni più tipiche dell’erotismo dilagante.

Sotto questo rispetto, sembrerebbe di poter istituire un parallelismo fra la società odierna e quella della Grecia antica; entrambe ossessionate dalla bellezza fisica e dal piacere fisico; entrambe portate ad anteporre questo edonismo grossolano a qualunque altro valore (anche se, nella Grecia antica, non sono mancati i tentativi, come nel caso di Platone, per spiritualizzare l’erotismo e per farne, addirittura, un tramite verso la bellezza spirituale).

Però, a uno sguardo più attento, non si tarda ad accorgersi che la somiglianza fra le due situazioni è più apparente ed esteriore, che sostanziale.

La civiltà greca amava la bellezza, la bellezza fisica, in tutte le sue manifestazioni: la bellezza del corpo umano non ne era che un aspetto, per quanto, indubbiamente, il più importante; o, quanto meno, il più evidente e il più celebrato. Gli antichi Greci amavano appassionatamente tutte le manifestazioni del bello e rifuggivano dal brutto; anche se - da Nietzsche in poi la cosa è pacifica - non bisogna cadere nell’errore di Winckelmann, di identificare l’ideale greco della bellezza con il solo aspetto apollineo: calmo, composto, armonioso, poiché vi era anche una dimensione dionisiaca: disordinata, passionale, perfino sfrenata.

La civiltà moderna, al contrario, non ama il bello: ama il denaro, che è una cosa assai diversa (anche se si illude, con il denaro, di poter comperare la bellezza). La bellezza realizzata nella fase giovanile della civiltà occidentale moderna, ossia durante i secoli del Medioevo, non è stata fatta, per dirla con Ezra Pound, mediante l’usura, ma inseguendo disinteressatamente l’idea del bello, e sia pure una nuova idea del bello, rispetto all’idea greca, comprendente anche soggetti che, di per sé, belli non sono: come il corpo piagato e sofferente del Crocifisso.

Pertanto, l’esibizione odierna del corpo nudo o seminudo, culminante nelle sfilate e nei concorsi di bellezza, non si inserisce naturalmente in un contesto di ricerca e di apprezzamento della bellezza: le nostre città sono quasi sempre brutte; brutte le case moderne, i grattacieli, le stazioni ferroviarie; brutti i paesaggi di periferia e, sempre più spesso, anche quelli di campagna, deturpati da incessanti colate di cemento, da fabbriche e capannoni onnipresenti; brutti i programmi televisivi, i film che si proiettano nei cinema, il modo di vestire delle persone; brutto il linguaggio, il modo di gestire, il modo di camminare, il modo di guidare la macchina; brutto lo spettacolo della politica, della pubblica amministrazione, della stessa cultura e perfino dello sport.

La bellezza dei corpi, tanto ricercata e tanto ostentata, ha anch’essa qualcosa di patologico, di discutibile, di brutto: è una bellezza priva di calore e senz’anima; una bellezza asettica e fredda; una bellezza che vorrebbe essere erotica, ma sovente riesce soltanto ripugnante, come lo sono certi corpi anoressici di giovanissime modelle che rischiano la morte per fame, pur di calcare le passerelle indossando i capi firmati di qualche grande casa di abbigliamento.

E patologico è il fatto che simili corpi possano piacere, possano suscitare interesse a attrazione sessuale; possano essere imitati, per così dire, da milioni di persone, che si sottopongono a strapazzi d’ogni genere e si rovinano la salute, pur di divenire altrettanto scheletriche, altrettanto cadaveriche.

Qui c’è qualcosa che non va. Questa società non ama la vita, ma la morte: è malata di necrofilia…