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Quella parte di noi sconosciuta a noi stessi che grida in silenzio per venire alla luce

di Francesco Lamendola - 06/06/2012



Quante persone costruiscono la propria vita su di una menzogna raccontata a se stesse, senza mai trovare il coraggio di guardarsi dentro con sguardo limpido e leale?
Quante persone si fabbricano una maschera, si raccontano una storia di comodo, si costruiscono da se stesse una propria mitologia, per non dover affrontare la propria verità?
Quante persone ingannano e tradiscono quel nucleo di autenticità che esiste al fondo di ciascuno, rivestendolo accuratamente, uno strato dopo l’altro, un giorno dopo l’altro, e ciò per mesi, anni e decenni, con una immagine artificiale appositamente costruita?
Molte, senza dubbio.
Non è sempre facile saper guardarsi dentro; non è cosa che sia alla portata di tutti; e, inoltre, vi sono dei casi nei quali la menzogna è stata così tenace e sistematica, e la verità da nascondere così poco rassicurante, che talora viene da dubitare se guardare in faccia la propria verità, sino in fondo, sia la cosa migliore, specialmente quando si sia raggiunto un certo equilibrio.
L’episodio della morte di Clorinda, nel canto dodicesimo de «La Gerusalemme liberata» di Torquato Tasso, offre un buon esempio di ciò.
Clorinda, la vergine guerriera, fin dall’adolescenza ha sempre disdegnato le occupazioni femminili e si è addestrata esclusivamente nelle arti della caccia e della guerra, fino a conquistarsi la fama di valorosa e intrepida guerriera negli eserciti musulmani.
In realtà ella è figlia di genitori cristiani, il re e la regina d’Etiopia; ma, per una oscura vicenda di gelosia del padre, Sanapo, era stata allontanata dalla sua patria appena nata e il servo Arsete, che l’aveva allevata, aveva trascurato di farle somministrare il battesimo, come sarebbe stato desiderio della regina, sua madre.
Clorinda è il prototipo della femminilità algida, scontrosa e inavvicinabile; Tancredi, uno dei più prodi cavalieri cristiani, che l’ha vista abbeverarsi al fiume e ne è rimasto letteralmente incantato, nel bel mezzo della battaglia le ha fatto la sua brava dichiarazione d’amore, ma senza scalfire minimamente la dura corazza del suo virilismo e della sua fierezza guerriera: è come se ella avesse ucciso in se stessa la dimensione dell’Eros, per vivere unicamente al servizio di un ideale di patria e di gloria cavalleresca.
Alla vigilia della sua ultima impresa, l’incendio della torre mobile con cui i cristiani stanno minacciando le mura di Gerusalemme, Arsete le ha rivelato la verità sulle sue origine; benché sconvolta, la giovane va ugualmente incontro al suo destino - o forse ci va propria cercando, inconsciamente, la morte, non riuscendo a padroneggiare il drammatico dissidio interiore che in lei si è aperto.
L’impresa è condotta a termine, la torre è incendiata; ma, mentre il suo compagno di avventura, Argante, rientra felicemente in città, ella rimane chiusa fuori e viene raggiunta da Tancredi che, non avendola riconosciuta, la sfida a duello. I due si affrontano in una tenzone notturna all’ultimo sangue; sdegnosamente lei rifiuta di rivelare la propria identità all’avversario, violando il codice cavalleresco ed esacerbando l’ira di lui.
Alla fine, Clorinda cade trafitta dalla spada di Tancredi; ferita a morte, si accascia, mentre la veste trapunta d’oro si inzuppa del suo sangue. Ed ecco che avviene la metamorfosi: l’algida guerriera si trasforma in una dolce creatura femminile, che senza più mostrare l’abituale orgoglio, anzi con toni inaspettatamente dolci e remissivi, chiede al suo uccisore di ricevere il battesimo e, prima di chiudere gli occhi per sempre, finalmente rasserenata, gli dà, con la mano, un segno di pace, dopo averlo chiamato mestamente “amico”.
È come se la certezza della morte avesse fatto cadere le difese psicologiche che la ragazza si era costruita per reprimere e negare la propria “anima” femminile (in senso junghiano), impostando la sua intera vita sotto il segno del proprio “animus” virile; ormai, non dovendo più fingere, ella permette alla sua natura più autentica di venire a galla, anche se la sua trasformazione in una delicata creatura femminile, forse desiderosa di amore come qualunque altra, avviene proprio quando l’amore è divenuto impossibile, perché la vita sta fuggendo via da lei.
È difficile dire se ella si renda conto pienamente, in quei pochi minuti che ancora le rimangono, della reale portata del dramma spirituale che sta vivendo: il dramma di una persona che si rende conto di aver costruito tutta la propria esistenza attorno a una menzogna, e di aver riconosciuto la propria parte più autentica solo quando ormai è tardi per qualunque cosa.
Ci chiedevamo se valga sempre e comunque la pena di imparare a guardare in se stessi senza infingimenti o se, in certi casi, non sia meglio lasciare le cose come stanno, evitando di aprire delle piaghe nascoste troppo dolorose e di dover intraprendere un incerto e faticoso cammino di auto-riconoscimento e di auto-accettazione.
L’anima umana è simile a un albero che si protende verso la luce: se trova un ostacolo nella sua crescita, si piega e lo aggira, per poi tornare a svilupparsi nella direzione del sole. Per quanto tortuosa possa essere la crescita del tronco, se la pianta riesce comunque a raggiungere la luce, il suo scopo fondamentale è assicurato. A che pro, dunque, compromettere un equilibrio che, forse, si è duramente lottato per conquistarlo, senza avere alcuna certezza che ne varrà la pena o che, ad ogni modo, un nuovo equilibrio potrà essere ricostruito?
Prima di provare a rispondere a questo interrogativo, dobbiamo innanzitutto chiarire due punti fondamentali.
Il primo è che, quando parliamo del riconoscimento della propria verità interiore, non intendiamo tanto riferirci, con tale espressione, alla dimensione strettamente psicologica, e meno ancora - come vorrebbero i freudiani, che in pratica fanno coincidere le due cose - a quella specificamente erotica e sessuale; ci riferiamo, invece, a quella verità spirituale più profonda, che appartiene ad ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente dal sesso, dall’età, dalla condizione sociale o alla cultura, e che costituisce come il diamante luminoso che giace nascosto sotto le scorie.
Naturalmente, questo modo di vedere implica che non si pensi all’uomo come ad una creatura dotata, semplicemente, di una “psiche”, ma di un’anima, in questo caso nel senso teologico del termine e non in quello psicanalitico junghiano; e così come l’anima è una realtà molto più ampia e complessa della psiche, allo stesso modo il riconoscimento della sua parte essenziale è cosa molto più importante e delicata del semplice riconoscimento di questa o quella singola funzione psicologica, di questo o quell’aspetto del carattere e del comportamento.
Il secondo punto, che deriva dal primo, è che la valutazione se valga o no la pena di intraprendere un cammino di chiarificazione interiore, in questa ottica, non può essere demandata al parere di un sedicente esperto, sia esso uno psicologo o uno psicanalista di qual si voglia impostazione o indirizzo culturale; perché noi e soltanto noi possiamo essere giudici in una cosa di tale importanza, e perché l’eventuale aiuto di uno psicologo (non di uno psicanalista) sarà, appunto, un semplice supporto, ma lo sforzo di verità ricade principalmente su colui che lo compie.
Nessuno può percorrere una tale strada al nostro posto; nessuno può decidere, più e meglio di noi, se valga la pena di intraprenderla, affrontando i non pochi sacrifici e le non lievi fatiche che ciò, se fatto con intenzione realmente onesta e rigorosa, immancabilmente comporta.
Occorre distinguere, pertanto, l’ambito psicologico da quello spirituale propriamente detto. Nell’ambito psicologico è miglior giudice di noi, forse, una persona che abbia dedicato la propria vita allo studio delle dinamiche della mente; ma nell’ambito spirituale, che comprende la domanda di senso della vita umana e su cui la psicologia, a meno di esorbitare dal proprio ambito legittimo, non ha nulla da dire, siamo giudici noi.
Può accadere che il disagio psicologico di una persona sia così grande, da renderla obiettivamente incapace di farsi carico di un autentico processo di chiarificazione interiore; in tali casi, sarà opportuno che essa si limiti ad un lavoro di chiarificazione parziale, nel quale l’aiuto di un esperto, purché bravo e responsabile, può essere necessario e, forse, indispensabile.
Affrontare le radici del disagio esistenziale più profondo, quello che ha a che fare con l’anima in quanto tale, è tutta un’altra cosa: qui si tratta di mettersi alla ricerca del proprio diamante nascosto e, quindi, di dare un nuovo orientamento a tutta la propria vita: e non è cosa che si possa intraprendere se non si dispone di forze bastanti, anche a livello psicologico.
Bisogna procedere per gradi: dal meno difficile al più difficile; dal disagio della psiche, al disagio dell’anima; dalle terapie mediche, se necessario anche di tipo farmacologico, alla terapia dell’anima, che richiede un aiuto soprannaturale, perché l’anima è solo in parte un organo del nostro essere e, per un’altra parte, è una emanazione dell’Essere in sé.
Chi non possiede questa consapevolezza, rischia di impostare tutto il proprio percorso in maniera sbagliata; chi non possiede questa umiltà, questa apertura, questa disponibilità a lasciarsi illuminare e plasmare dalla luce e dalla forza dell’Essere, è meglio che lasci perdere e si accontenti di vivere come sempre ha fatto, magari adottando qualche strategia parziale per contenere il proprio disagio esistenziale entro limiti ragionevoli e sopportabili.
Vi è un mistero, al fondo di noi stessi, molto più profondo di quanto possa immaginare qualunque scienza psicologica, specialmente se di matrice positivista e materialista; talmente profondo che, gettandovi un sasso, talvolta non si arriva a udire nemmeno il suono di quando esso arriva al fondo: perché il fondo, forse, non esiste.
E qui torniamo al concetto espresso poc’anzi. Se l’anima è una emanazione dell’Essere, allora essa non ha un fondo vero e proprio, né delle pareti; non ha un centro, non ha una periferia; allora essa è tutto un universo, tutto l’universo: il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, il questo e il quello, il passato e il futuro, il qui e l’altrove, il mio e il tuo.
Figuriamoci se gli stregoni freudiani sono minimamente attrezzati per esplorare un simile abisso: le loro rozze lampade ad acetilene sono costruite in modo da poter illuminare solo qualche metro di distanza, non certo degli anni-luce; e, cosa più grave ancora, arrivati ad un certo punto non si deve adoperare la lampada per rischiarare il cammino, perché il cammino è talmente luminoso che il problema, semmai, è quello di proteggersi gli occhi dalla sua bruciante intensità; anzi, il cammino diventa luce in se stesso, un unico, immenso, infinito fiotto di luce.
Lo sguardo non potrebbe sostenerlo - nessuno sguardo, neanche quello di un superuomo alla Zarathustra - se non ricevesse un aiuto dall’alto: che è quanto le religioni definiscono con il termine “grazia”; laddove è chiaro che dicendo “dall’alto” adoperiamo una espressione figurata, che non va presa alla lettera, perché nella luce dell’Essere non esistono più né alto né basso, e tutte le nostre polarità si rivelano per quel che in realtà sono: delle realtà illusorie, nate dalla nostra incapacità di contemplare l’Assoluto nella sua radiosa interezza.
E adesso, proviamo a rispondere a quella famosa domanda: vale sempre e comunque la pena di fare chiarezza in se stessi e discendere nell’abisso, alla ricerca del proprio diamante perduto?
Fatta salva la premessa che, quando la situazione psicologica è troppo compromessa, forse conviene accontentarsi del precario equilibrio esistenziale che si è riusciti a costruire per sopravvivere, in tutti gli altri casi la risposta è senz’altro affermativa: vale sempre la pena, perché una vita senza verità è una vita mancata e miseramente mutilata. Il fatto che milioni e milioni di esseri umani si accontentino di vivere in tal modo non è un argomento a favore del contrario, perché, in tali cose, la maggioranza non ha mai ragione.
Se vogliamo essere attori protagonisti e non misere comparse nella rappresentazione della nostra stessa vita, dobbiamo trovare il coraggio di guardarci dentro nel profondo, e l’umiltà di domandare aiuto: non solo e non tanto un aiuto naturale, che può venirci da parte dei nostri simili, ma anche e soprattutto l’aiuto sopranaturale della Grazia.
Che non è questione di lauree in psicologia o in qualsiasi altra scienza, magari da mettere in cornice sulla parete più bella del proprio studio; ma di retto sentire, di retto giudicare e di retto volere.