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Vedere l’essenziale e formare il carattere, i due pilastri della pedagogia di F. W. Foerster

di Francesco Lamendola - 02/07/2012




 

Friedrich Wilhelm Foerster (Berlino, 2 giugno 1869 - Kilchberg, 9 gennaio 1966) è stato uno dei più grandi pedagogisti del Novecento e uno degli uomini di cultura più insigni della Germania moderna. Fino a qualche anno fa il suo nome si trovava sulle enciclopedie e sui manuali di storia della pedagogia; da un po’ di tempo in qua, invece, è stato espunto da un gran numero di testi, fra i quali l’Enciclopedia Garzanti di Filosofia e scienze affini; e il pubblico di media cultura, compresi gli studenti di liceo, quasi certamente non ne ha mai sentito parlare. Crediamo che ciò non sia estraneo al fatto che Foerster è ancora da morto, così come lo è stato da vivi, una figura scomoda, che non si lascia incasellare in una nicchia rassicurante, dove lo si possa neutralizzare.

Come pedagogista, il suo progressivo abbandono dell’etica umanistica e razionale e il suo approdo a una visione spirituale e trascendente dell’uomo, che si richiama esplicitamente al fondamento del Vangelo, non può non disturbare i cultori della pedagogia laica, che hanno innalzato altari a personaggi come Makarenko e Anna Freud, dando come cosa assolutamente scontata che il cristianesimo è ormai una cosa vecchia e superata e che l’uomo moderno non voglia più nemmeno sentirne parlare, dopo tutto il male che esso ha fatto alla coscienza europea attraverso secoli di intolleranza, di crociate, di roghi dell’Inquisizione. Foerster, per giunta, pur essendo di fede luterana, si è avvicinato come nessun altro protestante al cattolicesimo e alla Chiesa romana, riconoscendo in essi la fonte più genuina della tradizione cristiana e trattenendosi dalla conversione esplicita, forse, solo per poter continuare a svolgere quella funzione mediatrice  e dialogante cui si sentiva chiamato; e questa, nella prospettiva irreligiosa e anticattolica oggi dominante, è senza dubbio una circostanza aggravante.

Come uomo di cultura dai vasti e profondi interessi, che hanno abbracciato quasi tutto l’arco dell’umana conoscenza, Foerster ha avuto, agli occhi dei suoi compatrioti, anche un altro gravissimo difetto: quello di non condividere affatto la fanfare del nazionalismo e del pangermanesimo, anzi, di aver assunto posizioni pacifiste durante la prima guerra mondiale (cosa che, nel 1917, lo costrinse a trasferirsi in Svizzera) e, poi, di non essersi uniformato al totalitarismo nazista, ciò che lo costrinse a prendere nuovamente la via dell’esilio.

La sua stessa carriera universitaria, svoltasi fra Zurigo, Vienna e Monaco, aveva conosciuto aspre difficoltà proprio per le sue schiette, coraggiose prese di posizione fuori dal coro; aveva scontato tre mesi di detenzione in fortezza e, poi, diciassette anni di lontananza dagli atenei tedeschi, per aver energicamente protestato allorché il kaiser Guglielmo II aveva definito i socialdemocratici «una banda di individui senza patria», lui che socialista non era, e meno ancora marxista (fra l’altro, aveva conosciuto personalmente Lenin in Svizzera).

Un uomo che ebbe sempre il coraggio delle proprie opinioni, insomma; un esponente, in pieno militarismo prussiano, di quell’altra Germania, colta e gentile, la Germania della musica e della filosofia, la Germania crocevia di popoli e di culture, la Germania della grande tradizione medievale, frutto, a sua volta, della preziosa eredità romana: e proprio questo, crediamo, non gli venne perdonato, il fatto di testimoniare, lui, figlio di un famoso astronomo (il quale diceva, scherzosamente, che il kaiser Guglielmo II si recava al suo osservatorio berlinese per «ispezionare la Luna»), cresciuto nel culto dei libri, del greco e del latino, la continuità con quella meravigliosa tradizione di cultura, di affabilità, di apertura, che già aveva espresso figure di statura mondiale, come Erasmo da Rotterdam, Dürer, Bach, Kant, Goethe.

A un uomo così, la Germania bismarckiana e guglielmina, costruita sul blocco sociale degli industriali e dei finanzieri con gli junker prussiani, andava stretta; e ad essa egli appariva come una figura incongrua, sorpassata, addirittura sgradita. Avido di sapere, aveva frequentato le lezioni dei migliori professori del suo tempo; ma quelle di Heinrich von Treitschke non aveva potuto sopportarle: dopo la prima era fuggito, letteralmente disgustato dal tono tribunizio del professore e dalla malsana eccitazione nazionalista degli studenti.

Specialmente l’aver levato la voce contro l’«inutile strage» del 1914-18, quando pressoché tutti i suoi colleghi avevano sposato la causa dell’”unione sacra”, sostenendo la tesi della giusta guerra difensiva contro l’accerchiamento della Germania (con la sola eccezione dei socialdemocratici di sinistra, che però muovevano da tutt’altra prospettiva) lo rese inviso alla classe dirigente del suo Paese; né il loro giudizio fu alleggerito dall’essersi prestato ai confusi tentativi di aprire un tavolo di trattative con l’Intesa, nel 1917, sulla base di una pace di compromesso.

Per Foerster, la Germania riunificata aveva tradito la propria missione storica, identificandosi con il militarismo e con il prussianesimo e rinunciando alla sua missione culturale al di là delle frontiere; così come l’Austria-Ungheria aveva tradito la sua, rinunciando a svolgere un ruolo da protagonista nella federazione dei popoli slavi e appiattendosi, a sua volta, sul pangermanesimo e sull’alleanza “nibelungica” con il Reich tedesco.

Tanto andava detto per spiegare come mai il nome di Foerster, probabilmente, non dica nulla alla maggioranza dei lettori, nonostante la sua indubbia statura e i suoi meriti di pedagogista innovativo e geniale. La franchezza e la modernità con cui egli affrontò le questioni educative più concrete e spinose, dal rapporto fra i sessi alle questioni del lavoro; la sua capacità di dialogare con i giovani, dedicando loro cicli di incontri rivolti specificamente agli adolescenti fra gli undici e i quattordici anni; la simpatia con cui guardò ai movimenti giovanili del suo tempo, primo fra tutti quello dei Wandervögel (uccelli migratori), riconoscendovi istanze autentiche di libertà e generosità, anche se talvolta espresse in maniera confusa, tutto questo basterebbe a farne una figura di primo piano nel campo della pedagogia novecentesca.

A maggior ragione meriterebbe di essere conosciuto per i contenuti specifici del suo pensiero educativo, che muove dalla necessità di guidare l’individuo a riconoscere in se stesso ciò che è essenziale e, nello stesso tempo, formarne il carattere; posizione da cui traspare la chiara consapevolezza che nessuna pedagogia è possibile, se non si sa o non si può o non si vuole guidare il bambino verso un progetto di vita chiaro e consapevole, basato sulla valorizzazione integrale della sua parte migliore e sul diuturno allenamento a sorvegliare e rafforzare la volontà, ossia lo strumento necessario alla realizzazione di fini e valori.

Pur muovendo da una concezione spirituale dell’uomo, proprio per la sua formazione “laica” e illuminista Foerster non sottovaluta l’importanza dei fattori materiali e concreti, non disdegna affatto un sano realismo; un po’ come Manzoni, ritiene che il cristiano abbia il dover di confrontarsi con le sfide del mondo e che non debba realizzare la propria fede in una dimensione astratta e velleitaria, ma qui e ora, in mezzo ai propri simili e alle difficoltà della vita quotidiana, sempre conservando uno spirito positivo e costruttivo.

Soprattutto, egli è convinto che nell’anima dell’uomo sia impressa l’esigenza di un Fine assoluto; che a questo il bambino debba essere guidato a tendere; e che siano sbagliate tutte quelle pedagogie anarchiche le quali, affermando di voler rispettare la personalità del bambino, invece di indicargli la strada e di rafforzarne il carattere, lo lasciano in balia di se stesso.

Vi è una gerarchia di valori, nell’anima umana, dalla natura inferiore delle pulsioni e degli istinti, alla sfera superiore in cui essa giunge, platonicamente, a scorgere la coincidenza della verità, della bontà e della bellezza: ma per arrivare a tanto, essa deve lottare e procedere secondo un chiaro disegno e con un esercizio costante della volontà, senza il quale non è possibile dominare gli impulsi inferiori, ma si finisce per diventarne schiavi.

Un esempio di impulso inferiore è quello del possesso. Il bambino desidera possedere francobolli da collezionare, così come il capitalista desidera possedere un impero finanziario; il meccanismo psicologico è lo stesso nei due casi e si basa su una illusione: che il possesso delle cose assicuri il benessere dell’anima.

Come si vede, Foerster non fa sconti al marxismo, che accusa di voler sostituire una nuova tirannia alla vecchia, ma nemmeno al capitalismo, che accusa di egoismo e di divinizzazione delle cose materiali; riconosce, conformemente alla dottrina sociale della Chiesa, che, se la lotta di classe è male, male è anche lo sfruttamento del lavoratore; e pensa che l’educazione debba insegnare il valore del lavoro, ma senza esasperare l’aspetto produttivistico della società e senza mai scordare che, al centro di quest’ultima, deve esserci la persona.

A differenza degli illuministi, inoltre, egli è persuaso che l’uomo non possa realizzare pienamente se stesso, se non aprendosi alla dimensione dell’Assoluto; che il suo centro interiore non sia chiuso in un orizzonte finito, ma che coincida con l’esigenza del divino; e che né il chiaro riconoscimento di sé, né la tensione costante della volontà, possano giungere a buon fine se egli presume di contare soltanto sulle proprie forze e se non riconosce il suo bisogno di un aiuto soprannaturale, prendendo a modello di vita perfetta la persona del Cristo.

Ha scritto Mauro Laeng nella sua biografia del pedagogista tedesco (M. Laeng, «Foerster», Brescia, Editrice La Scuola, 1960, 1970, pp. 113-14):

 

«Ciò a cui la fanciullezza, l’adolescenza, la giovinezza aspirano, secondo la legge di natura, è lo sviluppo pieno di tutte le facoltà: questo sviluppo si consegue attraverso l’arricchimento di molteplici apporti, ma nel rispetto della fondamentale unità della persona. In altri termini, quanto più si moltiplicano i legami dell’io con le altre persone e con le cose, tanto più occorre che si rinsaldi la sua unità, perché solo nella direzione di una crescente organicità  si attua il suo progresso.

“Il Comenio descrive, nei suoi “Labirinti del mondo”, tutta la sconcertante molteplicità delle aspirazioni umane. E nell’altra sua opera “Unum necessarium” indica all’anima la via per salvarsi da questa molteplicità. Per lui era chiaro che il pedagogista dev’essere un organizzatore spirituale, il quale strappi l’uomo alla dispersione  che rovina il carattere, ponendo al centro ciò che è più importante, tracciando  precisi confini alle cose secondarie, escludendo il superfluo e ponendo ogni cosa temporale  al servizio della salvezza eterna dell’anima.  In questo senso si può senz’altro affermare: vera educazione è la capacità di distinguere nella vita ciò che è essenziale da ciò che è contingente, e carattere è la forza di manifestare,  anche nella condotta di vita, questa distinzione” (da: F. W. Foerster, “Schule und Charakter”, Zürich, 1908, p. 61).

La formazione del carattere è per il Foerster lo scopo fondamentale dell’educazione; i problemi della cultura fisica e intellettuale non possono esservi che subordinati. »

 

In questo aver riconosciuto che, nel mondo moderno, l’uso inconsapevole della tecnica accentua la dispersione spirituale e psicologica degli individui e che pertanto, il compito prioritario di una sana pedagogia deve essere quello di aiutare l’anima del bambino a ritrovare se stessa, a raccogliersi intorno a ciò che in essa (e fuori di essa) è davvero essenziale, tralasciando ciò che non lo è, ci sembra risiedere il maggior merito di Friedrich Wilhelm Foerster.

Se dovessimo sintetizzare in un concetto quel che vi è di sbagliato in quasi tutte le pedagogie oggi dominanti (e sappiamo di usare il termine “pedagogie” in senso improprio, giacché spesso i bambini e i giovani sono gettati allo sbaraglio, nella totale assenza di un progetto educativo consapevole), diremmo che consiste proprio nell’accentuare la dispersione, indirizzando il bambino verso innumerevoli oggetti, nessuno dei quali veramente essenziale e, comunque, senza alcuna gerarchia di valori, di ideali, di priorità, nonché senza alcun allenamento della volontà.

Il carattere, così, si infiacchisce; si compie appena lo sforzo strettamente necessario per raggiungere questo o quell’oggetto parziale, dopo di che si ricade nell’inerzia e nel relativismo: in fondo, tutto sembra uguale a tutto e niente appare degno di entusiasmo, di fiducia, di perseveranza.

Ma partendo da una volontà debole e da una confusa consapevolezza di sé, quale serio progetto di vita riuscirà mai a realizzarsi?