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È possibile bagnarsi per due volte nelle acque del fiume della propria vita?

di Francesco Lamendola - 09/07/2012

 


 

È possibile ritrovare i momenti perduti, riallacciare le relazioni finite, riprendere i sentieri interrotti della propria vita?

È possibile invertire la ruota del tempo, fermare l’automatismo degli anni, riallacciarsi alla propria parte smarrita, sulla quale sono frattanto cresciute le erbacce dell’oblio?

È possibile bagnarsi per due volte nelle acque del fiume della propria esistenza, a dispetto della nota affermazione di Eraclito, secondo il quale tutto scorre inesorabilmente e non ci si può immergere per due volte neppure nelle acque dello stesso fiume?

Se lo sono chiesto in tanti; tra gli altri, se lo è chiesto lo scrittore russo Anton Pavlovic Cechov, in un suo dramma giovanile in quattro atti che, però, gli venne rifiutato da tutti e che, scoraggiato, richiuse per sempre in un cassetto, dal quale uscì solo nel 1920, dopo la sua morte. Era un piccolo capolavoro, uno dei tanti capolavori incompresi dai contemporanei:  gli venne messo come titolo «Platonov», dal nome del protagonista; e, da allora, è stato rappresentato innumerevoli volte, sui palcoscenici di tutto il mondo, con sempre rinnovato successo.

Un regista, anch’egli russo, Nikita Mikhalkov, ispirandosi liberamente ad esso ne ha tratto uno dei suoi film più belli, anche se, probabilmente, meno conosciuti presso il nostro pubblico: «Partitura incompiuta per pianola meccanica», del 1977. In esso Platonov, maestro in un villaggio e fallito sia come intellettuale, sia come dongiovanni, ritrova Sofia, la donna un tempo amata intensamente, nel corso di una festa organizzata da una signora di provincia che vorrebbe offrire un po’ di svago ai suoi annoiati amici e vicini.

Ma sia Platonov che Sofia sono ormai sposati e, sebbene per un istante la fiamma dell’antico amore sembri riaccendersi in entrambi, la conclusione è amara: non si può ritrovare il tempo perduto, non si possono cogliere le occasioni mancate. Platonov, consapevole del proprio fallimento esistenziale, cercherà la morte in un grottesco tentativo di suicidio, buttandosi nel fiume ove scorrono solo pochi centimetri d’acqua; sarà abbracciato e consolato dalla giovane moglie, che lo ama davvero, ma che lui non ha mai amato; e ogni cosa - per usare le parole rassicuranti, ma in fondo ciniche di Anna, la padrona di casa - tornerà a posto, così com’era prima; nella tranquilla disperazione, si potrebbe aggiungere, di altrettante esistenze mancate.

È un film che merita di essere visto da chi non lo conosce, e rivisto da chi lo vide a suo tempo; un film agrodolce, costruito con superba padronanza dei pieni e dei vuoti, dei dialoghi e dei silenzi, della farsa e del dramma; un film nel quale la disperata constatazione del protagonista: «Ho quasi trent’anni e non ho combinato niente nella vita, niente!» non ha un peso narrativo più grande del ronzare insistente di una mosca introdottasi in casa dalla finestra aperta di una calda, interminabile giornata estiva.

Ha ragione Eraclito, dunque e, con lui, hanno ragione Cechov e Mikhalkov?

Non c’è proprio nulla da fare e, quando il momento magico è passato, non ritornerà mai indietro, non lo ritroveremo più, qualunque cosa possiamo fare, sperare, cercare ardentemente? Il ronzio noioso, monotono di quella mosca, che echeggia nella stanza abbacinata dalla luce del meriggio estivo, mentre le tende bianche ondeggiano debolmente alla brezza, sembra assumere il significato del cupo ammonimento pronunciato dal Corvo nel poemetto omonimo di Edgar Allan Poe: «Nevermore», «Mai più!».

Ma è proprio così?

Ci siamo già occupati , in passato, di questo problema da un punto di vista filosofico (cfr. l’articolo: «Il passato può essere cambiato o è radicalmente immodificabile?», apparso sul sito di Edicolaweb e, poi, su quello di Arianna Editrice in data 17/07/2007); ora proveremo a farlo in una prospettiva esistenziale più concreta.

Prima di tutto, occorre tener presenti due punti di fondamentale importanza.

Primo: noi non possediamo un io, ma solo un complesso di operazioni mentali sempre cangianti. Abbiamo bisogno, per ragioni di ordine psicologico e morale, di credere il contrario; e, soprattutto, ne hanno bisogno gli altri; ma il fatto è che, ogni volta che diciamo “io”, indichiamo qualche cosa che già non esiste più, che esisteva, forse, un attimo prima, e che certamente non esisterà domani. L’io è come l’istante: non lo si può afferrare, non lo si può fermare.

Con ciò non vogliamo negare che vi sia un “qualche cosa” capace di tenere unito, non già tale complesso di operazioni mentali, ma la sua percezione e, per meglio dire, la sua illusione; ma che cosa precisamente esso sia, crediamo che vada al di là delle possibilità umane. Prendiamo atto della circostanza che, per motivi pratici, noi abbiamo bisogno di credere nel nostro “io”, ossia in una realtà interiore permanente e sempre uguale a se stessa, in un mondo che, tutto intorno, cambia di continuo: ma in effetti si tratta di un errore di prospettiva, come quello del bambino che vede la luna dal finestrino dell’automobile in corsa ed è convinto che essa lo stia seguendo, perché non si rende conto che quel movimento è, invece, il suo.

Secondo: tutto quel che facciamo, le persone che incontriamo, le emozioni e i sentimenti che proviamo, non derivano propriamente da una supposta realtà esterna, ma sono il prodotto di una specie di rappresentazione interiore. Noi facciamo tutto da soli e non ce ne rendiamo conto: imprestiamo alla realtà esterna i nostri desideri e le nostre paure, proiettiamo su di essa quel che speriamo e quel che temiamo, quel che ci rende felici oppure infelici. Crediamo che sia il mondo esterno ad agire su di noi, invece il mondo “esterno” è una nostra immagine mentale, che muta via via che muta il nostro stato interiore; tanto è vero che la stessa cosa ci si presenta in maniera diversissima a seconda dello stato d’animo con cui la sperimentiamo.

Anche in questo caso, non osiamo negare che possa esservi un qualche cosa che fornisce il substrato delle percezioni che noi chiamiamo “esterne”, conferendo loro una certa apparenza di continuità. Se entriamo nella nostra camera senza accendere la luce, sappiamo, anche al buio, quale sia la disposizione degli oggetti; e, quando accendiamo la luce, l’esperienza ce ne dà conferma. Dunque, il mondo esterno non è “inventato” da noi; esiste; ma qual genere di esistenza abbia, questo è un grande mistero: di certo non possiede l’esistenza ovvia e scontata che noi le attribuiamo; soprattutto, non possiede una realtà “oggettiva”, perché tutto quel che sappiamo di esso deriva dalle nostre percezioni, e avviene dentro la nostra mente, non fuori.

Fatte queste due brevi premesse (che pure meriterebbero, ce ne rendiamo conto, ben altro approfondimento; ma il lettore che ci abbia pazientemente seguito in questi anni, sa che ne abbiamo trattato in numerose occasioni), alla domanda se ci si possa bagnare due volte nelle stese acque, la risposta è che non ci si può bagnare nemmeno UNA volta, perché nessuna acqua è mai esistita fuori di noi e perché noi stessi non siamo mai sati un “io” coerente e durevole. Nel teatro della nostra rappresentazione interiore - un teatro delle ombre, come quelli dell’isola di Bali - abbiamo vissuto e sperimentato incontri, esperienze, sentimenti: ma eravamo noi stessi gli autori del tutto, e, per giunta, cessavamo (e cessiamo) di essere “noi” ad ogni istante che passa. Moriamo e torniamo a nascere ad ogni momento, incessantemente.

Ecco, dunque, che quel nostro “io” che ha vissuto una certa esperienza, che ha amato o che ha odiato, che è stato felice o infelice, che ha provato il gusto inebriante della vittoria o quello amaro della sconfitta, non esiste più; o meglio, per parlare in maniera appropriata, non è mai esistito. Da ciò si ricava quanto grande sia il male che ci facciamo allorché ci trasciniamo dietro ogni ora, ogni giorno, ogni anno, tutto il peso del “nostro” passato e ce ne affliggiamo continuamente: se è stato brutto, perché ci fa soffrire ancora; se è stato bello, perché se ne è andato via, lasciandoci soli. Noi siamo tormentati da un arto che ci è stato amputato e soffriamo per un qualcosa che più non ci appartiene, posto che ci sia mai appartenuto. Siamo gli stolti carnefici di noi stessi e, per torturarci, adoperiamo il peso di un grande nulla, che noi, però, crediamo fermamente reale.

Quando camminiamo a testa bassa, mortificati e addolorati per le cose che ci sono sfuggite, per le persone che abbiamo perduto, per le emozioni che se ne sono andate, ci comportiamo come dei dementi; con inutile, perverso masochismo giriamo e rigiriamo il coltello nella piaga della memoria, senza renderci conto di maneggiare letteralmente il nulla e di infliggerci continuamente ferite per mezzo del nulla.

Questo non vuol dire che le cose belle, le persone care, le esperienze dolci della nostra vita siano state un nulla; vuol dire che esse non sono più e che non c’è mai stato un “io” al centro di esse, bensì erano esse al centro di un complesso di operazioni mentali che incessantemente mutavano, si aggregavano e si disaggregavano, formando sempre nuove combinazioni di un agilissimo, sorprendente caleidoscopio, determinato, in sostanza, da quello che noi desideriamo e da quello che ci fa paura, e che incessantemente ci viene incontro perché da noi “chiamato”.

Le persone che abbiamo amato e che abbiamo odiato, erano una proiezione dei nostri bisogni e delle nostre ansie; se ci hanno fatto del bene, era perché noi ci siamo voluti bene; se ci hanno fatto del male, era perché noi non eravamo in pace con noi stessi e volevamo punirci, volevamo tormentarci, volevamo straziarci e distruggerci, magari senza trovare il coraggio di farlo apertamente e materialmente.

Non è stata e non è una rappresentazione assurda, quella del nostro teatro delle ombre; vi è una logica in essa, la logica del cammino verso la consapevolezza e verso la liberazione. Essere liberi vuol dire comprendere l’illusorietà delle nostre brame e dei nostri timori, l’illusorietà della nostra separatezza dal Tutto, l’illusorietà del nostro piccolo “io” capriccioso e viziato, incessantemente bisognoso di rassicurazioni e di gratificazioni.

Al di sopra del piccolo “io”, infatti, illusorio e ingannevole, c’è qualche cosa di permanente e di luminoso, che però non è “nostro” nel senso che ci appartenga e che sia una nostra proprietà; il nostro Sé è piuttosto il nome che diamo alla dimensione della consapevolezza, quando ci rendiamo conto di essere parte di una cosa sola con l’universo, di essere una scintilla dell’infinito splendore divino.

In questo senso, alla nostra domanda iniziale, se ci si possa bagnare per due volte nelle stesse acque, potremmo dare ora una risposta più articolata: sì, nella misura in cui riusciamo a comprendere che quelle acque non sono fuori di noi, ma in noi; e che noi stessi non siamo soltanto e unicamente in noi, ma che siamo nel Tutto, gocce di un oceano che tutto abbraccia e tutto comprende, e al di fuori del quale nulla esiste.

Se questo è vero, allora perché non potremmo immergerci di nuovo nelle acque del passato, perché non potremmo riallacciare quel filo perduto, colmare quel sentiero interrotto? In un certo senso noi lo possiamo, proprio perché “noi” non siamo più quel che eravamo allora e dunque possediamo una freschezza, una elasticità, uno slancio vitale che ci mettono in grado di essere qualunque cosa, di reinventarci qualsiasi cosa, di ritrovare e riprendere ogni cosa. Le cose, infatti, non sono, né sono mai state, al di fuori di noi: non quelle che percepiamo, almeno; non quelle che sperimentiamo nel corso della nostra vita di relazione.

Per trovare il nostro vero Sé, del resto, non dobbiamo allontanarci per andare chissà dove, ma semplicemente dobbiamo fare silenzio in noi stessi e immergerci al fondo della nostra anima, spingerci al di là dei nostri pensieri, lasciar andare il nostro piccolo “io” smanioso e ignorante, per naufragare volontariamente e gioiosamente sulle immense rive dell’Essere.

Lì, nella dimensione senza tempo e senza spazio, troveremo il nostro Sé e, nello stesso tempo, scopriremo che esso non è un “io” potenziato e permanente, ma un riflesso di quella Luce infinita che ha tratto l’essere dal non essere e che ha reso possibile il fatto che noi siamo qui, pensierosi e trepidanti, a interrogarci sul senso della nostra vita.

È un cammino impegnativo, spesso faticoso, diciamo pure difficile, ma non impossibile; se così non fosse, non ci sarebbe stato dato.

Il nulla dà, ancora e sempre, soltanto nulla; ma noi siamo stati chiamati alla pienezza dell’Essere...