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Ragazzi attenti alla filosofia: è bella, seducente, pericolosa

di Marcello Veneziani - 09/07/2012



Vi sembrerà strano ma capita più spesso di quanto possiate immaginare che ti avvicini o ti scriva un ragazzo o una ragazza per annunciare la sciagurata intenzione di darsi alla filosofia. E chiede consigli su come coltivare la sua perversione, in quale università rovinarsi e in qual modo farsi del male con più efficacia.
La prima risposta è «Per carità, non farlo», scatta la dissuasione per ragioni umanitarie. In una società che cerca ingegneri e infermieri, poliglotti tecnologici o badanti assai pazienti, studiare filosofia significa destinarsi oggi più di ieri a una sorte anacronistica di fame, solitudine e miseria. Poi subentra una certa vergogna per il pulpito da cui predico. Quando si è studiosi di filosofia, con l’aggravante di una laurea in filosofia contratta in giovane età, quando si è pure figli di studiosi e docenti di filosofia e quando si è perfino padri di studenti ribelli di filosofia, e addirittura zii, conviene solo tacere e nutrire compassione per la nuova vittima della filosofia. Vieni, fratello nel nostro librosario... Così subentra una più perfida argomentazione: io ti scoraggio perché è mio dovere farlo, come si usa sui pacchetti delle sigarette devo avvisarti che la filosofia uccide (di stenti, ma uccide). Ma è un test psicoattitudinale; se lo superi, se insisti, beh, allora vuol dire che non è colpa tua, è un vizio congenito, come la mia fu tara ereditaria, e non puoi farci nulla: dopo un blando tentativo di metadone - perché non dedicarti alla scienza, agli studi giuridici, alla critica, insomma a qualcosa che contiene in dosi minori la filosofia - si passa al vano esercizio di dare consigli sulla perdizione. In questa strategia di resistenza e di scoraggiamento alla filosofia sono in buona compagnia. È uscito di recente un libro-intervista di Sossio Giametta, a cura di Giuseppe Girgenti, che si chiama Il bue squartato e altri macelli. Titolo cruento e di per sé già scoraggiante, se non fosse mitigato da un sottotitolo ammiccante, La dolce filosofia (Mursia, pagg.296, euro 17). Il bue in questione non è il ragazzo che si affaccia nel macello della filosofia, e che meglio si definirebbe vitello o agnello sacrificale (oppure o' Vaccariello, come veniva chiamato a Napoli Edmondo Cione seguace fedele della Vacca Sacra don Benedetto Croce). Ma il riferimento è a Nietzsche del quale, spiega Giametta, ognuno «si ritaglia una bistecca che poi si cucina a modo suo». Ma le bistecche, osserva Sossio, non fanno il bue, soprattutto il bue vivo che pascola nei prati della sua epoca. Giametta, in effetti, ha frequentato il bue intero e non qualche lacerto, cioè tutto Nietzsche, di cui è gran traduttore da decenni, chiamato da Colli e Montinari. Giametta è pure traduttore di Schopenhauer e di altri grandi autori. Nel suo Bue squisito ci sono pagine sagaci su Nietzsche poeta, moralista e fondatore di un religione della vita (parallela alla religione dell’umanità di Comte, ma la sua è una religione della sovrumanità), pagine coraggiose in favore della pena di morte sotto il profilo filosofico, o sulla vecchiaia irreversibile del cristianesimo, ucciso dalla civiltà dei consumi. Ma il capitolo finale di questo libro, che è poi un bilancio della sua vita filosofica, è un commiato dedicato ai giovani pensatori. Giametta, 83enne, campano che vive da decenni a Bruxelles, parte proprio dallo sconsigliare ai giovani di avvicinarsi alla filosofia; fa l’esempio di un suo amico che seguì il suo consiglio di dedicarsi alla scienza anziché alla filosofia ed ha avuto successo nella ricerca delle particelle elementari. E giunge alla conclusione a cui sono giunto anch’io: «Bisogna fare filosofia solo se non se ne può fare a meno». È «la passione divorante» di Wittgenstein, di Giordano Bruno, di Spinoza e Schopenhauer; è la confessione di Paul Rèe, l’amico fraterno di Nietzsche: «Quando non avrò più materia di filosofare per me sarà meglio morire». Giustamente avverte Giametta che il filosofo non è sempre eroe etico; poi avverte che il professore di filosofia non è tenuto a essere filosofo, anche se non mancano gran filosofi professori. Però la filosofia è un fiore selvatico, non fiorisce necessariamente nei giardini appositi detti atenei; la filosofia è una mania, non un mestiere. Del resto, Giametta non è filosofo accademico, come non lo era Anacleto Verrecchia, scrittore di filosofia e traduttore, scomparso lo scorso maggio, consanguineo di Giametta in Nietzsche, Schopenhauer e Giordano Bruno. (Altro scrittore di filosofia per diletto e cupio dissolvi è il cinico Manlio Sgalambro). Sull’iniziazione alla filosofia, Pierre Hadot, studioso del pensiero antico, ha lasciato pagine smaglianti; per lui la saggezza sarebbe la conquista di «un io superiore che vede tutte le cose nella prospettiva dell’universalità e della totalità, e prende coscienza di sé come parte del cosmo».
A mio vedere la filosofia nasce da un duplice sgomento: lo stupore di nascere e l’angoscia di finire, ovvero la sorpresa di esistere - la meraviglia di essere al mondo, di cui parla Platone nel Teeteto e poi Aristotele - e l’addestramento a morire - l’educazione alla morte di cui parlò per primo Socrate, poi il suo allievo Platone, e gli stoici, Seneca, e Cicerone, fino a Montaigne...
La filosofia coglie la vita sorgiva e il suo estremo svanire, osserva l’alba e il tramonto dell’essere e il nesso tra le due cose... La filosofia cerca una spiegazione al miracolo di esserci e alla disperazione di non essere più, e s’addentra a dare un senso e una misura alla vita. Perciò la filosofia è universale, per tutti; ma chi non ci dorme la notte è filosofo. Se quella è la ragione primaria che induce a filosofare, è inevitabile la sua inutilità pratica, la sua sterilità di sbocchi professionali. Ma coloro che noi chiamiamo inutili sono le vere guide, dice Platone. La filosofia è inutile ma necessaria; almeno se si crede al primato della contemplazione sull’azione e alla convinzione che contemplare sia agire su un piano superiore.

Ed è così che dopo aver scoraggiato il ragazzo incauto che si rende teorico-dipendente cedendo al vizio della filosofia, gli confesso a mezza voce: «Però io e la mia signorina stiamo bene insieme... Sto con lei e non mi manca niente» (Sembra una massima filosofica di Seneca e invece è una canzone di Neffa). Ah, la Signorina Filosofia, nubile ma tutt’altro che vergine, fa balenare la verità ai suoi maniaci in stato di lucida alterazione...