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L’impero del male minore

di Pierre Bérard - 09/07/2012

 

 

Al contrario dei «ribelli di Panurgo[1]», cioè di quelle legioni di falsi ribelli che il «sistema» fabbrica alla catena di montaggio affinché saturino con le loro chiacchiere lo spazio assegnato alla contestazione autorizzata, Jean-Claude Michéa non è un sovversivo salariato. È sconosciuto alla televisione e praticamente impossibile da intervistare. Discepolo di Orwell e di Christopher Lasch, pubblica con L’impero del male minore un libro brillante e, certo, erudito, ma redatto con un’ironia tagliente che procura, leggendolo, un innegabile piacere.

La tesi sostenuta in questo libro può essere riassunta in maniera lapidaria. Contrariamente a ciò che spesso si sente dire, non c’è ragione di distinguere il liberalismo politico e culturale (definito come l’illimitata avanzata dei diritti e la permanente liberazione dei costumi), che ha i favori della «sinistra», dal liberalismo economico, che ottiene i suffragi della «destra». Se il liberalismo realmente esistente presenta diverse sfaccettature, esso è concettualmente un unico blocco, dato che ciascuno dei suoi aspetti si combina logicamente con tutti gli altri. È un insieme coerente, al punto che adottare uno dei suoi frammenti significa dover subito accettare tutti gli altri.

Per dissipare la persistente confusione intellettuale che presiede all’utilizzazione di questo vocabolo polisemico, Michéa procede prima a uno studio genealogico del pensiero liberale, di cui situa classicamente le premesse nel XVII secolo. I pensatori di questa epoca rompono, infatti, con l’umanesimo del Rinascimento e introducono numerosi paradigmi innovativi che sconvolgono l’antica rappresentazione del mondo. Il primo di questi paradigmi appare con l’invenzione della scienza sperimentale della natura e la fisica galileiana, «uno dei tratti più singolari dell’Occidente moderno».

Questa vera rivoluzione teorica dà alla nozione di progresso una «base metafisica particolarmente solida», che favorisce la credenza secondo la quale l’estensione del metodo galileiano allo studio della natura umana potrà, in futuro, permettere di sviluppare una vera «fisica sociale» e creare così le condizioni indispensabili, finalmente «scientifiche» e «imparziali», per risolvere il problema del politico. Hobbes e Spinosa sono i primi, allora, a definire i postulati di quella «scienza politica» di cui Auguste Comte riprese più tardi l’ambizioso disegno. Secondo Michéa, non c’è alcun dubbio che la rivoluzione galileiana abbia forgiato una gran parte egli strumenti filosofici necessari al dispiegarsi dell’immaginario moderno, di cui il liberalismo costituisce l’enunciato più radicale.

Un secondo paradigma sorge simultaneamente da una riflessione sulle guerre di religione che, per decenni, hanno messo il continente a ferro e fuoco. Per la loro gravità, questi conflitti hanno causato un trauma durevole e tutti aspirano d’ora innanzi alla pace civile. Domanda: come evitare, in futuro, la «guerra di tutti contro tutti»? Forma di guerra che sarebbe, secondo l’ipotesi di Hobbes, la guerra «primitiva» per eccellenza. L’ossessione del «mai più questo» induce allora i pensatori a definire le condizioni che permetteranno al genere umano di bandire definitivamente questo tipo di conflitto. Una volta appurato questo rifiuto, l’unica guerra che rimane immaginabile è la guerra dell’uomo contro la natura, guerra di sostituzione condotta con le armi della scienza e della tecnologia. In questa prospettiva, diventare «padrone e possessore della natura», secondo la prometeica parola d’ordine formulata da Cartesio, diviene un imperativo morale. Trasferire nel lavoro di imposizione della natura l’energia precedentemente consacrata alla guerra può essere considerata come una rivincita del mercante, figura fino ad allora universalmente disprezzata. Questa evoluzione verso il «dolce commercio», la «vita tranquilla» e un «riposo storico ben meritato», ne sollecita altre due. Infatti, se le «due principali cause della follia guerriera sono, da una parte, il desiderio di gloria dei Grandi e, dall’altra, la pretesa degli uomini […] di detenere la Verità sul Bene», si tratterà d’ora in poi di «decostruire» l’idea stessa di virtù eroica (e la disposizione al sacrificio ultimo che essa incoraggia) e di denunciare l’arroganza di coloro che si ritengono competenti per decidere sulla salvezza degli altri per imporre loro una concezione della «vita buona» (necessariamente arbitraria). Il lavoro di «demolizione dell’eroe» (secondo la felice espressione di Paul Benichou) è portato a termine tanto da Port-Royal e dall’agostinismo giansenista quanto da La Rochefoucauld, i quali spogliano la «gloria» della sua aura storica sminuendola con spiegazioni prosaiche come l’amor proprio e l’interesse privato. Il sublime non è altro che la maschera dell’ipocrisia.

Questa evoluzione demistificatrice fa dire a Michéa che la «modernità occidentale appare […] come la prima civiltà della storia che abbia tentato di fare della conservazione di sé la prima (se non addirittura l’unica) preoccupazione dell’individuo ragionevole, e l’ideale fondante della società che egli deve formare con i suoi simili». Questa radicale rimozione dell’antica etica della vergogna e dell’onore prepara evidentemente il terreno all’irresistibile assunzione del «borghese», come nota ancora Michéa: «L’essenza dell’Uomo comincerà ad essere letta in maniera privilegiata attraverso il modello del borghese, questo negoziante molto accomodante, che l’intera epoca definisce ora concordemente prosaico, tranquillo e inoffensivo». Evoluzione di cui Nietzsche ha perfettamente riassunto il percorso nell’aforisma 173 del suo libro Aurora, nel quale scrive che in una società che «adora la sicurezza come la divinità somma» il lavoro costituisce necessariamente la «migliore polizia».

Quanto all’idea, ormai ritenuta criminale, secondo cui sarebbe legittimo conservare alla società una base di valori comuni che le conferisca, nella prospettiva del «bene comune», una coerenza culturale senza la quale il vivere insieme potrebbe rivelarsi problematico, è del tutto da escludere per i moderni, secondo i quali l’armonia implica «che non ci sia alcuna ragione di fare appello alla virtù dei soggetti».

Tracciato questo abbozzo, l’autore può esporre il «doppio movimento parallelo che porta il liberalismo filosofico a proporre l’utopia di una società razionale che pone il fondamento stesso della sua esistenza pacificata nella sola dinamica delle strutture impersonali del Mercato e del Diritto», essendo ciascuna di queste istanze sollecitata a funzionare in maniera «meccanica» (sul modello delle teorie fisiche) senza che ci sia mai più necessità di convocare una morale superiore o di fare appello alla virtù dei soggetti. Michéa ammette ben volentieri che il liberalismo del diritto, o liberalismo politico, è storicamente distinto dal liberalismo del mercato, ma, sottolinea, entrambi sono nei fatti storicamente contigui e avanzano di conserva, sostenendosi teoricamente.

Il postulato inaugurale del liberalismo politico è la neutralità assiologica dello Stato, semplice organismo di regolazione e armonizzazione di libertà individuali ormai concorrenti. Il suo strumento principale è il diritto, la cui missione è di assicurare il primato del giusto sul bene accontentandosi di regolare al meglio le passioni rivali. Dunque, il meno Stato possibile (lo Stato guardiano notturno) e, soprattutto, uno «Stato che non pensi». Così avviene la transizione tra il governo degli uomini e la semplice «amministrazione delle cose» (Saint-Simon).

Michéa non manca di sottolineare le numerose aporie cui conduce un tale assioma. Perché ciò che potrebbe, in teoria, apparire giudizioso, si rivela, in pratica, spesso rischioso. Se, infatti, ogni individuo è libero di vivere secondo la propria definizione della felicità, dal momento che essa non ostacola la libertà dei suoi simili, «come, ad esempio, decidere in modo strettamente “tecnico” tra il diritto di scioperare dei lavoratori e quello degli utenti di beneficiare del servizio pubblico? Come decidere tra il diritto alla caricatura e quello del credente al rispetto della sua religione?»[2]. La continua evoluzione dei costumi e il riconoscimento che le nuove mode comportamentali esigono imperativamente accentuano la pressione che i «problemi della società» esercitano sul corso della giustizia, al punto che quest’ultima non ha più altra scelta che quella di imboccare la «strada di una massiccia regolarizzazione di tutti i comportamenti possibili e immaginabili» e di decidere solo in funzione dei rapporti di forze.

La «liberazione dei costumi» è divenuta sinonimo di «progresso del diritto» in un incessante rilancio di cui Philippe Muray seppe fare la cronaca buffonesca con un’appetenza e un umorismo cui Michéa non è rimasto indifferente. Alla fin fine, che cosa ne risulta? Oltre al moltiplicarsi delle vittime e alla loro inesorabile concorrenza, si assiste all’inflazione della litigiosità e, a lungo andare, all’abolizione delle libertà. Infatti, scrive Michéa, «come qualsiasi presa di posizione politica, religiosa o morale presuppone, se è coerente, la critica delle posizioni contrarie, essa sarà sempre, giuridicamente, sospetta di nutrire “una fobia” (cosciente o inconscia) a loro riguardo. La “fobofobia” liberale (ossia la “fobia” di tutti i discorsi suscettibili di “nuocere all’altro” osando contraddire il suo punto di vista o criticare i suoi modi d’essere) non può dunque che sfociare – attraverso il moltiplicarsi delle leggi che istituiscono il “reato d’opinione” e sotto la permanente minaccia dei processi per diffamazione – nella progressiva scomparsa di ogni dibattito politico “serio” e, in prospettiva, nella graduale estinzione della stessa libertà d’espressione, qualunque sia stata, all’inizio, l’intenzione dei poteri liberali».     

Nel suo precedente libro[3], Jean-Claude Michéa riconosceva di buon grado l’innegabile successo di un sistema che si è imposto alla quasi totalità degli uomini. Tuttavia, riprendeva una intuizione di Marcel Mauss sviluppata da Cornelius Castoriadis, la quale suggeriva che l’utilitarismo non poteva essere la causa principale di questi successi. Scrive, infatti, Castoriadis: «Il capitalismo ha potuto funzionare solo perché ha ereditato una serie di tipi antropologici che non aveva creato e non avrebbe potuto creare da solo: giudici incorruttibili, funzionai integri e weberiani, educatori che si dedicano alla propria vocazione, operai con un minimo di coscienza professionale, eccetera. Questi tipi non emergono e non possono emergere da soli, sono stati creati in periodo storici precedenti, in riferimento a valori allora sacri e incontestabili: l’onestà, i servizio allo Stato, la trasmissione del sapere, l’opera degna, eccetera. Noi oggi viviamo in società in cui tali valori sono, com’è palese, diventati ridicoli, e in cui contano soltanto la quantità di denaro intascato, poco importa come, o il numero di comparse televisive accumulate»[4]. Di qui l’analisi di Michéa, il quale sostiene che il mercato ha potuto conservare, per un certo tempo, equilibrio ed efficacia in quanto le condizioni dell’egoismo liberale non erano ancora realizzate. Proprio come il meccanismo dell’orologio a pendolo è stabilizzato dall’inerzia del bilanciere, la dinamica del liberalismo fu a lungo canalizzata dallo stock di valori e di habitus costituito nelle precedenti società «disciplinari» e che esso è per natura incapace di edificare.

Una volta esauritosi questo stock, lo scambio commerciale non ha più freni e sprofonda nell’hybris.

Il ragionamento di Castoriadis mostra che il liberalismo è storicamente vitale solo se le comunità dove si sperimenta il suo regno sono, societalmente, sufficientemente solide e vive per contenerne gli aspetti devastatori. Questa solidità dipende tanto dal radicamento dei sistemi di limitazioni culturali e simboliche da molto tempo interiorizzati quanto dalle regolazioni politiche di uno Stato che non si era ancora deciso ad essere solo una struttura di accompagnamento «facilitatrice» delle «leggi del mercato». Ciò spiega, ad esempio, che nella Francia degli anni sessanta (la Francia del generale de Gaulle) la «crescita» conoscesse un ritmo sostenuto e generasse un aumento reale e generale del benessere mentre, tra altri dati sociologici molto eloquenti, il tasso di delinquenza restava basso. La pregnanza dei vecchi modelli comportamentali era ancora dominante ed è su questa base che si è potuto realizzare il «glorioso trentennio». Negli anni seguenti, quando si attenua la preoccupazione del collettivo e trionfano gli ego «emancipati», promossi tanto dai dottrinari libertari quanto dagli slogans pubblicitari, tutti questi anticorpi cominciano a dissolversi[5].

Il periodo attuale costituisce, per Michéa, l’ultimo esito di una logica liberale ormai senza altrove e dunque abbandonata alla propria demonia. Da un lato, l’estensione indefinita della sfera commerciale e, dall’altro, la moltiplicazione dei conflitti nati dal relativismo morale. Altrettante lotte che si traducono in nuove costrizioni e nell’instaurazione di una società di sorveglianza dalle maglie sempre più strette.

Il rifiuto radicale che nutre Jean-Claude Michéa nei confronti del liberalismo può sembrare, a prima vista, sposare passioni francesi abbastanza largamente condivise. Tuttavia, non è così, poiché il suo rifiuto è, appunto, «radicale», mentre la maggioranza dei nostri contemporanei, quali che siano le prevenzioni che ostentano, continuano, imperturbabilmente, a muoversi politicamente nel riferimento destra-sinistra e adottano, volens nolens, modi di vita che li inscrivono nella dinamica del liberalismo trionfante. Il liberalismo richiede, più che adesioni formali, stili di vita e questo consenso, massicciamente fabbricato dall’industria della persuasione, gli è più prezioso delle connivenze ideologiche proclamate con grande ostentazione. Da questo punto di vista, è una banale evidenza, i dissidenti non sono legioni.

Definendosi, sulla scia di Orwell, anarchico tory, Jean-Claude Michéa si situa di primo acchito al di là delle polarità conformistiche e caduche che innumerevoli falsari mantengono, consapevolmente o per pigrizia, sotto costante fleboclisi per differire l’irruzione di nuovi spartiacque. L’ossimoro orwelliano ha il grande merito di suggerire un posizionamento che rinvia i «conflitti» messi in scena dal sistema alla loro natura pubblicitaria (e di conseguenza, mistificatrice e anestetizzante) e alla loro verità impolitica[6].

In queste condizioni, va da sé che Michéa si consideri refrattario a una «sinistra» che striglia per quanto possibile. Se non è «di sinistra», si richiama, per contro, al socialismo delle origini e sa molto bene, come ha dimostrato Marc Crapez[7], che quel socialismo francese si è fuso nella «sinistra» per abolirvisi alla fine del XIX secolo. Ciò che distingueva quel socialismo «utopico» (sintagma spregiativo che gli accollarono i sostenitori del «materialismo dialettico») era un duplice rifiuto dell’Ancien Régime e della modernità borghese. Spontaneamente contrari a questa modernità borghese, i socialisti di quell’epoca affermavano il primato del sociale e rifiutavano di considerare l’individuo come una monade staccata dal corpo organico della comunità. Perciò, contro Marx e i suoi epigoni, rifiutavano di definire l’economia come ciò che è sempre e ovunque determinante «in ultima istanza». Sebbene non abbiano mai concettualizzato quella che sembrava loro un’evidenza, pensavano l’economia come una realtà incorporata («incastrata», secondo l’espressione di Polanyi) nella struttura sociale, sempre preminente. Contrari anche all’Ancien Régime, non sognavano una «controrivoluzione» e non cercavano di rifugiarsi nell’utopia di una restaurazione della trascendenza come punto d’appoggio dell’ordine sociale. Sufficientemente «moderni» per diffidare dell’eteronomia delle società anteriori, affermavano il principio dell’autonomia secondo il quale i soli cittadini hanno la missione di pensare, senza l’abusivo soccorso del cielo, le forme di un «essere insieme» che rispetti l’eredità senza lasciarsi mai ammaliare dai suoi sortilegi.

Dalla philia degli Antichi alla common decency dei proletari londinesi che ispirarono Orwell, c’è un filo d’Arianna e come un serbatoio inesplorato di valori. In questo tesoro, Jean-Claude Michéa ci propone di attingere le armi teoriche della necessaria lotta contro l’orrore liberale.

 


 

(traduzione di Giuseppe Giaccio)                                                           



NOTE

 

[1] Personaggio del Gargantua e Pantagruele di Rabelais (n.d.t.).

[2] «Jean-Claude Michéa et la servitude libérale», intervista di Élisabeth Lévy, ne Le Point, 6 settembre 2007.  

[3] Jean-Claude Michéa, Il vicolo cieco dell’economia. Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo, Elèuthera, Milano 2004.  

[4] Cornelius Castoriadis, La montée de l’insignifiance, Seuil 1996. Cfr. in particolare il capitolo intitolato «Le délabrement de l’Occident», pag. 68.   

[5] Jean-Claude Michéa non rinuncia a denunciare l’impostura del Sessantotto. Quell’episodio costituisce, secondo lui, un momento chiave per aver «fatto tabula rasa» degli ultimi ostacoli alla mercificazione generalizzata. Principale vittima di quella «terribile confusione», il popolo, che non avrà conosciuto altro cambiamento che la «sostituzione del vecchio dispotismo dell’avenue Foch con la tirannia, innegabilmente più decorativa, di place des Vosges e del Marais».   uellQQQvvv

[6] Secondo Carl Schmitt, citato da Michéa a pagina 18, non c’è una politica liberale sui generis, ma soltanto una critica liberale della politica.   

[7] Marc Crapez, Naissance de la gauche, suivi de Précis d’une droite dominée, Michalon 1998.