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Per chi scrive, uno scrittore?

di Francesco Lamendola - 11/07/2012

 


Per chi scrive, uno scrittore?

La domanda, universalmente valida, sorge con particolare urgenza davanti a opere letterarie le quali, sempre più spesso, solleticando i bassi istinti del lettore, degenerano nella pura e semplice pornografia, senza però trovare il coraggio, o piuttosto l’onestà, di presentarsi come tali (dopotutto, anche quello è un genere, con le sue regole e con il suo pubblico), bensì scimmiottando toni e arie più o meno sofisticati e, talvolta, persino pseudo-intellettuali.

Nei Paesi anglosassoni la moda è iniziata ormai da molti anni; e, dal momento che da lì partono le indicazioni per le tendenze mondiali quasi in ogni campo, non stupisce che sempre più spesso opere di quel tipo vengano tradotte, magari da editori prestigiosi, nonché volonterosamente  imitate, anche dalle nostre parti. Un discorso analogo si potrebbe fare per il cinema, ove le strizzatine d’occhio al pubblico sono ancora più insistite e furbesche, vista la posta (economica) in gioco.

C’è una differenza fra letteratura e pseudo-letteratura pornografica? Fino a qualche anno fa, c’era. Chi leggeva i romanzi di Xaviera Hollander, come «La mondana felice», non pretendeva di trovarvi altro che lussuria, magari confezionata con un po’ di humour, se non proprio d’ironia; e chi si dedicava alla lettura di «Emmanuelle» e di «Histoire d’O», non pretendeva di giustificarsi dietro qualche fragile schermo simil-intellettuale.

Ma adesso il mercato si è fatto più astuto; e, così come, al cinema, sono pressoché scomparsi i filmetti nazional-pornografici del buon tempo antico, sostituiti da pellicole “d’autore” che sono solo il pretesto per esibire, in tutte le varianti possibili, la massima superficie di corpi nudi e ansimanti (come nel tanto celebrato «Room in Rome» di Julio Medem), così dalle vetrine e dagli scaffali delle librerie sono spariti i romanzi dichiaratamente pornografici, per essere sostituiti da versioni non più raffinate, anzi, spesso ancora più triviali, ma in compenso assai più pretenziose dal punto di vista “intellettuale”, che vorrebbero scandagliare chissà quali profondità psicologiche, al solo scopo di mascherare meglio la loro vera natura e la desolante povertà dei contenuti.

Un caso tipico è quello della scrittrice inglese Helen Walsh, classe 1977, che ha debuttato clamorosamente, nel 2004, con il romanzo «Brass», prontamente tradotto in italiano, nel 2005, da una casa editrice prestigiosa - e debitamente “progressista”, si capisce - come la Einaudi di Torino, con il titolo «Senza pudore» e con una foto di copertina (di Antonio Marino) che avrebbe fatto l’invidia dei fotografi hard negli anni Settanta del secolo scorso.

È la storia della figlia ventunenne di un professore universitario, studentessa svogliata e affamata di esperienze estreme, della sua strana amicizia con un ventottenne altrettanto disinibito, ma un po’ più con i piedi per terra, nonché delle sue incessanti escursioni nei beati territori dell’alcool, della droga e del sesso mercenario. Millie, la protagonista, vive così una sorta di vita parallela e non comunicante con quella diurna di brava ragazza della middle class; la notte, la sua attività preferita è andare a caccia di ragazzine impasticcate o di giovani prostitute, con le quali inseguire l’orgasmo in ogni maniera possibile e immaginabile, ma sempre con una buona dose di brutalità e di sadismo, con un gusto irrefrenabile per la degradazione dell’altra e di se stessa.

I particolari anatomici e fisiologici, nei quali minuziosamente l’autrice guida il lettore, senza nulla risparmiargli di quanto è più scioccante e repulsivo; l’aggressività famelica con cui la protagonista manipola i genitali altrui, tutto questo potrebbe ricordare un certo filone alla Bataille o una certa predilezione per il teatro della crudeltà, se non fosse che nulla si cela dietro l’esibizione di quei furiosi amplessi, se non il gusto della perversione fine a se stesso. La critica sociale, che pure potrebbe svilupparsi a partire dal motivo dell’ipocrisia borghese, non è neppure accennata; e quanto al tema della discesa agli inferi mediante la volontaria e lucida auto-degradazione, sul modello di Rimbaud, che pure vorrebbe essere il filo conduttore dell’intera vicenda, risulta ben poco credibile, perché ha tutto il sapore rancido di una merce di seconda o terza mano.

In effetti, dopo aver toccato il limite estremo dell’umiliazione e della profanazione, la protagonista, nella pagina finale del romanzo, prende il treno e si presenta da sua madre, deus ex machina che dovrebbe risolvere tutto, in un sorriso pieno di amore che risana miracolosamente tutte le ferite, che placa tutte le ansie e rasserena tutte le vergogne. Ma, di fatto, quel che il lettore percepisce è solo il sapore autobiografico, questo sì, di una operazione di scrittura liberatoria, ma che sarebbe stato molto più onesto riservare a un ambito strettamente privato.

Alla conclusione del libro, infatti, l’autrice ringrazia sua madre, definendola sua «ancora di salvezza» e sua «migliore amica in assoluto»; mentre le notizie biografiche sul risvolto della copertina ci informano che la spavalda scrittrice allora ventisettenne, nata a Warrington nel Cheshire, ha vissuto a lungo a Barcellona, lavorando nel quartiere a luci rosse come organizzatrice di appuntamenti sessuali (ma l’espressione dell’editore è «appuntamenti sexy», forse perché ciò esorcizza la sgradevole immagine della prostituzione a pagamento: Berlusconi docet), per poi spostarsi a Liverpool e dedicarsi al recupero sociale dei “ragazzi a rischio”.

Certo che dal mestiere di ruffiana al volontariato sociale, il passo è lungo; ma è pur vero che, ad esempio, per combattere la droga ci vogliono gli ex drogati; ma di qui a fare dell’ambigua signorina un genio letterario e una rivelazione internazionale, insomma una specie di eroina del post-moderno, questo non è più un passo, per quanto azzardato, ma un triplo salto mortale. Tutta la sua “bravura”, infatti, consiste nel versare sulla pagina le sue pulsioni proibite, il suo eros irrefrenabile, la sua sadica smania di profanazione, raggiungendo, forse, una personale catarsi.

Ci si chiede, però, cosa c’entri il lettore con tutto questo; quale interesse, quale beneficio, quale utilità ricavi il lettore dalla immersione nei liquami maleodoranti che la signora riversa su di lui ad ogni pagina, con un compiacimento, con un cinismo, con una ostentazione che, in una confraternita di debosciati, sarebbero superiori a ogni elogio. E non si venga a dire che si tratta di un viaggio dantesco dell’anima, attraverso le tenebre del peccato e il chiaroscuro della purificazione, verso la luce della redenzione finale: a parte l’estrema povertà sul piano letterario, che si limita alla logora riproposizione del gergo giovanile e dei quartieri bassi, la redenzione finale, se c’è, appare quanto meno incongrua, perché non si nota alcuna traccia di purificazione.

Perfino le singole trovate della narrazione sono prese a prestito da qualche precedente illustre (si fa per dire); così, per dirne una, la scena in cui Millie provoca un potente orgasmo ad una prostituta, infilandole nella vagina il collo di una bottiglia, è letteralmente rubata a una scena del tutto simile che la nota scrittrice femminista Erica Jong descrive nel capitolo nono del suo romanzo «Come salvarsi la vita» («How to save your own life», del 1977: l’anno di nascita della Walsh), ma, se non altro, con un tocco di arguzia che nella greve scrittura di «Brass» manca del tutto.

Insomma: se la signorina Walsh ha scritto il suo romanzo per fare i conti con i suoi fantasmi interiori, e se è riuscita, addirittura, a trasformare la sua vita, passando dal ruolo di mezzana stipendiata a quello di volontaria dell’Esercito della salvezza, buon per lei; ma, con buona pace di tutti gli sveviani dottori psicanalisti che vogliono pubblicare le confessioni dei loro pazienti a scopo terapeutico, restiamo fermamente dell’idea che una fogna è pur sempre una fogna e che, se pure è necessario, ogni tanto, lavarla, non è carino scaraventarne tutta la sozzura addosso al primo che passa, chiedendogli poi anche di pagare il prezzo del trattamento.

Torna perciò, imperiosa, la domanda che ci eravamo posta all’inizio: per chi scrive, lo scrittore? Il che ci rimanda, inevitabilmente, all’altra domanda: perché scrive? Se lo fa per esorcizzare i propri demoni, ne ha tutto il diritto, anzi, può essere realmente una esperienza liberatoria: ma scrivere e pubblicare sono due cose diverse. Anche andare di corpo è una esperienza liberatoria e non certo meno necessaria; ma - tranne qualche estremo artista seguace del surrealismo, come Piero Manzoni nel 1961, con i suoi barattoli di «Merda d’artista» - non ci sembra appropriato offrire poi al pubblico le proprie deiezioni come opera da fruire. E questo vale per la pittura come per la letteratura e, naturalmente, per il cinema (ragion per cui non siamo fra gli ammiratori del regista Rainer Werner Fassbinder).

Sì, lo sappiamo: è una posizione tremendamente “demodé”. Tuttavia, a costo di passare per dei biechi reazionari e per dei nemici impenitenti della modernità, per noi la merda è merda e l’arte è un’altra cosa. Non si può dire, con nessun artificio, che la merda e l’arte sono la stessa cosa; o che certe merde, se prodotte da un autore profondo e originale, diventano, per qualche miracoloso processo catartico, delle opere d’arte.

Restiamo dell’idea, quindi, che vomitare addosso agli altri il proprio marciume non è una operazione del tutto limpida, anche se è certo che si troverà sempre qualcuno disposto a goderne e a disputarselo: perché le varietà della degradazione umana sono quasi infinite; e, così come per ogni sadico c’è un masochista in lista d’attesa, pronto e dispostissimo a farsi picchiare, insultare e umiliare, allo stesso modo per ogni furbo c’è un cretino che chiede di essere ingannato e preso in giro, e per ogni corruttore c’è un concusso, che non aspetta altro se non ricevere un’offerta allettante per mettersi in vendita.

Non crediamo, peraltro, che sia una posizione moralistica. Non ci passa nemmeno per la testa di negare che, nella vita, c’è bisogno anche delle latrine, nelle quali versare il sovrappiù del cibo e delle bevande assunte dal corpo; quel che non ci trova d’accordo, è il fatto di mettere una bella telecamera nelle latrine e di distribuire a tutti i relativi filmati, per di più con la sublime impudenza di qualificarli come letteratura, cinema o arte. L’evacuazione è un processo fisiologico necessario, ma di carattere strettamente privato.

Il fatto è che, complici i reality televisivi sul tipo del «Grande Fratello», abbiamo smarrito non solo la distinzione fra ciò che è pubblico e ciò che è privato, ma anche fra ciò che è naturale, come lo sono gli atti fisiologici, e ciò che è innaturale, come la loro plateale esibizione. Di conseguenza, abbiamo perso di vista anche il confine fra ciò che è decente e ciò che è indecente; e il tutto è stato agevolato dal conformismo e dalla paura, tipica del progressismo cialtrone, di passare per dei bacchettoni e dei moralisti. E a chi piace vedersi appioppare il ruolo di represso e di perbenista ipocrita, dopo che sono stati predicate, con tanto fervore e tanto zelo, le nuove Tavole della Legge della psicanalisi freudiana?

Se, infatti, l’ostentazione dei più bassi istinti sessuali dà fastidio, ciò vuol dire che si sta barando con se stessi, che si sta censurando la propria parte più profonda: così recita il nuovo Verbo freudiano; e del resto, perché no?, con qualche fondo di verità. Resta da vedere, e questo i santoni del grande guru della psicanalisi non lo spiegano, perché mai dovrebbe essere una cosa disdicevole il pudore delle proprie pulsioni lutulente; perché mai dovrebbe essere sbagliato il disgusto davanti alla ostentazione della sporcizia, propria e altrui.

Dunque: lo scrittore che pubblica i suoi libri o che li ritiene comunque degni di pubblicazione, non deve confondere la propria igiene privata con l’atto di proporli alla lettura altrui; se ciò avviene, si tratta o di una deplorevole forma di esibizionismo, o di una non limpida operazione commerciale, cose entrambe che nulla hanno a che fare con la serietà della letteratura.

Lo scrittore, crediamo, scrive e pubblica i suoi libri perché ne sente l’impulso, ma anche perché ritiene di avere qualcosa di valido da comunicare ai suoi simili; altrimenti, dovrebbe limitarsi a scrivere per se stesso, così come per se stessi ci si dedica alle proprie necessità fisiologiche. Lo sfogo sulla pagina scritta non è letteratura, ma, tutt’al più, terapia psicanalitica; e il carezzare le pulsioni proibite del pubblico non è letteratura, ma operazione di mercato.

Ora possiamo provare a rispondere anche alla domanda iniziale: per chi scrive lo scrittore, beninteso lo scrittore che desidera pubblicare le sue opere? Per se stesso, certamente: per chiarirsi, per liberarsi, per purificarsi; ma non solo: se così fosse, sarebbe appagato dal semplice fatto di scrivere, e non cercherebbe il consenso dei lettori.

No: se lo scrittore si rivolge a un pubblico, allora vuol dire che scrive anche per esso; e, se è così, ne deriva che egli ha dei doveri nei suoi confronti, così come una guida ha dei doveri nei confronti di coloro che si affidano a lei per trovare la strada. Nessuno, nella vita, ha l’obbligo di fare da guida agli altri; ma, se decide di proporsi come tale, allora deve essere una guida onesta e, per prima cosa, deve conoscere la strada. Ma questo, oggi, è un discorso che non piace, perché non piacciono i discorsi che implicano doveri e responsabilità: due parole, queste, divenute quasi impronunciabili…