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Le nuove idee nascono da una corretta analisi del problema

di Gianfranco Bologna - 17/07/2012


 

In questo periodo nel quale la crisi economica finanziaria che sta coinvolgendo ormai tutti i paesi del mondo non sembra affatto recedere o essere in via di soluzione, il dibattito culturale, sociale ed economico sulle cause, le analisi, le soluzioni che vengono proposte è vastissimo, vivace, ricco e molto articolato.

Il 28 giugno scorso il "Financial Times" ha pubblicato un breve e succoso "manifesto per il buon senso economico", firmato da due autorevoli economisti, Paul Krugman della Princeton University, premio Nobel per l'Economia 2008 e Richard Layard, famoso economista, direttore del Wellbeing Programme della prestigiosa London School of Economics (il manifesto è presentato in un apposito sito www.manifestoforeconomicsense.org ).

Ho avuto modo di parlare recentemente, nelle pagine di questa rubrica, di Richard Layard perché il 2 aprile scorso, presso le Nazioni Unite, a New York, si è tenuto un interessante High-level Meeting sul tema "Happiness and Well-being: Defining a New Economic Paradigm" ("Felicità e benessere: definire un nuovo paradigma economico").

In occasione di questo meeting è stato presentato il primo rapporto mondiale sulla felicità, intitolato "World Happiness Report" e curato dai John Helliwell, Jeffrey Sachs e, appunto, Richard Layard (il rapporto è scaricabile sia dal sito dell'Earth Institute della Columbia University diretto da Jeffrey Sachs  http://www.earth.columbia.edu che dal sito di Action for Happiness www.actionforhappiness.org ).

Il rapporto cerca di approfondire il contenuto del concetto di felicità, sottolineando i grandi problemi che stanno attraversando le nostre società e la necessità e l'urgenza di adottare stili di vita e tecnologie che promuovano ed incrementino la felicità umana e riducano la nostra azione di distruzione dei sistemi naturali. Il rapporto approfondisce le misure della felicità che sono attualmente in uso nei diversi paesi del mondo, analizzando quanto queste misure siano in grado di fornire valide informazioni sulla qualità della vita delle persone, tanto da poter essere utilizzate come guida per i decisori politici e facendo il punto su almeno 30 anni di ricerche in questo campo.

I fattori che entrano in gioco nella valutazione della felicità sono molti e vanno da quelli più standard, quali il proprio reddito, il lavoro, la comunità in cui si vive, gli strumenti di governance, i valori, il credo religioso a quelli più personali quali la salute fisica e mentale, la dimensione, le relazioni e le esperienze familiari, quelle educative, di genere e di età. Il rapporto analizza questi fattori e la loro importanza in diversi contesti e discute delle implicazioni politiche dei risultati delle ricerche sulla felicità e delle misurazioni sin qui intraprese, in merito, nei vari paesi.

Il Pil pur essendo considerato un indicatore utile ma parziale e limitato, certamente non copre e quindi non registra altri ambiti importanti della nostra esistenza, dove la stabilità economica è minacciata, la coesione delle comunità distrutta, la vulnerabilità non viene ostacolata, gli standard etici sacrificati o il sistema climatico ed i sistemi naturali sono messi a rischio. 

Mentre i valori standard del vivere sono essenziali per la felicità, una volta garantiti nei loro livelli di base, il rapporto sottolinea come sia possibile riscontrare che vi è più felicità grazie alla qualità delle relazioni umane rispetto alla variabile dell'incremento del reddito. Non è quindi solo la ricchezza a fare un popolo felice, ma un mix in cui la libertà politica, le forti connessioni sociali e l'assenza di corruzione, devono essere presenti. A livello individuale, una buona salute fisica e mentale, la sicurezza del lavoro e delle buone relazioni familiari e di amicizia sono cruciali per il livello di felicità.

L'argomento di questo rapporto (e Layard è, da decenni, uno specialista delle questioni legate al benessere, basti ricordare il suo bel libro "Felicità. La nuova scienza del benessere comune" edito da Rizzoli, 2005), costituisce un tema centrale per il futuro di tutti noi ed è strettamente connesso alla possibilità di essere capaci, con urgenza, di costruire una nuova economia.

Il manifesto Krugman-Layard costituisce un chiaro attacco alla visione del rigore e dell'austerità nello stile degli anni Trenta del secolo scorso che oggi è tornato prevalente per fronteggiare la grave crisi in atto.

Gli autori ricordano, in avvio del manifesto, che più di quattro anni dopo l'inizio della crisi finanziaria, le principali economie avanzate del mondo restano profondamente depresse, richiamando una scena che ricorda fin troppo quella del 1930, dopo la Grande Depressione del 1929.

Per Krugman e Layard la ragione è semplice: "ci affidiamo alle stesse idee che hanno governato le azioni di politica economica nel 1930. Queste idee, da tempo smentite, comprendono errori profondi sia sulle cause della crisi che sulla sua natura che sulla risposta appropriata."

Secondo i due noti economisti questi errori hanno messo radici profonde nella coscienza pubblica e forniscono a tutt'oggi il sostegno pubblico per il taglio eccessivamente austero delle attuali politiche fiscali in molti paesi. Quindi i tempi sono maturi per un manifesto in cui gli economisti che seguono la linea economica predominante (quella definita del mainstream ) offrano al pubblico un' analisi dei nostri problemi maggiormente basata sulle evidenze.

Riporto i passaggi interessanti del manifesto che indicano le cause, la natura della crisi e le soluzioni.

Le cause. Molti responsabili politici insistono sul fatto che la crisi è stata causata dalla gestione irresponsabile del debito pubblico. Con pochissime eccezioni - come la Grecia - questo, dichiarano Krugman e Layard, è falso. Invece, le condizioni per la crisi sono state create da un eccessivo indebitamento del settore privato e dai prestiti, incluse la situazione delle banche sovra-indebitate. Il crollo della bolla ha portato a massicce cadute della produzione e quindi del gettito fiscale. Così i disavanzi pubblici di grandi dimensioni che vediamo oggi sono una conseguenza della crisi, non la sua causa.

La natura della crisi. Quando le bolle immobiliari su entrambi i lati dell'Atlantico sono scoppiate, molte parti del settore privato hanno tagliato la spesa nel tentativo di ripagare i debiti contratti nel passato. Questa è stata una risposta razionale da parte degli individui, ma - proprio come ha avuto luogo con la risposta simile dei debitori nel 1930 - si è dimostrata collettivamente autolesionista, perché la spesa di una persona costituisce il reddito di un'altra persona. Il risultato del crollo della spesa è stato una depressione economica che ha peggiorato il debito pubblico.

La risposta appropriata. In un momento in cui il settore privato è impegnato in uno sforzo collettivo per spendere meno, la politica pubblica dovrebbe agire come una forza di stabilizzazione, nel tentativo di sostenere la spesa. Per lo meno non dovremmo peggiorare le cose tramite grandi tagli della spesa pubblica o grandi aumenti delle aliquote fiscali sulle persone comuni. Purtroppo, questo è esattamente ciò che molti governi stanno facendo.

Da qui Krugman e Layard indicano quello che ritengono "il grande errore". Dopo aver risposto bene nella prima e acuta fase della crisi economica, la saggezza politica convenzionale ha preso una strada sbagliata, concentrandosi sui deficit pubblici, che sono principalmente il risultato di una crisi indotta dal crollo delle entrate, e sostenendo che il settore pubblico dovrebbe cercare di ridurre i suoi debiti in tandem con il settore privato. Come risultato, invece di giocare un ruolo di stabilizzazione, la politica fiscale ha finito per rafforzare gli effetti frenanti dei tagli alla spesa del settore privato.

Di fronte a uno shock meno grave, la politica monetaria potrebbe bastare. Ma con i tassi di interesse prossimi allo zero, la politica monetaria - mentre dovrebbe fare tutto il possibile - non può fare l'intero lavoro. Ci deve naturalmente essere un piano a medio termine per ridurre il disavanzo pubblico. Ma se questo è troppo sbilanciato può facilmente essere controproducente annullando la ripresa. Una priorità chiave è ora quella di ridurre la disoccupazione, prima che diventi endemica, rendendo la rispesa e la futura riduzione del deficit ancora più difficile.

Il manifesto continua ricordando che il Fondo Monetario Internazionale ha studiato 173 casi di tagli di bilancio dei singoli paesi e ha scoperto che il risultato coerente che ne deriva è la contrazione economica. La lezione dello studio del FMI è chiara: i tagli al bilancio ritardano la ripresa. E questo è ciò che sta accadendo ora: i paesi con i maggiori tagli di bilancio hanno avuto le più pesanti cadute dell'output. L'austerità scoraggia gli investimenti.

Come risultato delle loro idee sbagliate, secondo Krugman e Layard,  in molti paesi occidentali i politici stanno infliggendo sofferenze enormi ai loro popoli. Ma le idee che sposano su come gestire le recessioni sono state respinte da quasi tutti gli economisti dopo i disastri del 1930, e per i successivi quarant'anni o giù di lì l'Occidente ha goduto di un periodo senza precedenti di stabilità economica e bassa disoccupazione.

Viene quindi ritenuto tragico che negli ultimi anni le vecchie idee abbiano di nuovo messo radici. Politiche migliori differiranno da Paese a Paese e hanno bisogno di un dibattito approfondito. Ma devono essere basate su una corretta analisi del problema.  E qui Krugman e Layard  invitono, attraverso il sito, gli economisti a firmare il manifesto e a trovare soluzioni più solide alla crisi.

Mi sembra che il documento, nel suo complesso, sia molto logico e sensato e quindi condivisibile. Colpisce comunque che anche importanti figure del mondo economico che stanno seriamente riflettendo su nuove basi economiche sulle quali cercare di costruire il futuro, tralascino di considerare il gravissimo problema ambientale in cui si trova l'umanità intera e che costituisce una componente di base ineludibile per costruire una nuova economia.

Il nostro deficit ecologico che ci sta collocando nel periodo geologico dell'Antropocene, iniziato appena dalla Rivoluzione Industriale ad oggi, è veramente ingente ed è dovuto anche e soprattutto all'impostazione economica della crescita continua materiale e quantitativa. Ormai tutto il mondo dell'economia che a sua volta condiziona così pesantemente la politica in tutti i paesi del mondo, deve cominciare a riconoscere che dobbiamo imparare a vivere nei limiti di un solo Pianeta.