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Grecità, latinità, romanità, barbarità, germanesimo

di Franco Cardini - 17/07/2012


Ci si può interessare alle radici in sei casi. Primo, se ci si occupa di botanica, o di
giardinaggio, o semplicemente di coltivare l’orticello di casa (chi ha la fortuna di possederne
uno). Secondo, se ci si occupa di filologia, di fonetica, di linguistica, di lessicologia e
scienze affini: in quel caso la “radice” è una cosa precisa. Terzo, se si è odontoiatri: e anche
lì si va sul sicuro. Quarto, se si ha dimestichezza con la teologia morale: nel qual caso si è
rinviati, in termini analogico-simbolici, alla botanica ( per esempio, radix omnium malorum
est superbia). Quinto, se si è cultori di algebra: e anche qui vale il commento relativo al
secondo e al terzo caso. Sesto, se i nostri interessi sono storici, sociologici, antropologici,
demopsicologici, politologici: in quel caso il termine “radice”, di solito associato o più
spesso contrapposto a quello “origini”, acquista una polisemanticità, una flessibilità, una
complessità tali da indurre chiunque a servirsene il meno possibile.
Secondo l’ultima tra le accezioni indicate, la parola entrò nell’uso politico corrente
come aggettivo (radical reformer, “riformatore radicale”) trasformandosi poi in un termine
che indicava un movimento o un atteggiamento concettuale (radicalism), che quindi, in
Germania e negli Stati Uniti soprattutto, ha assunto il significato di “estremistico”. Il suo
significato etico-politico originario qualificava la volontà d’individuare il nucleo più
profondo, più autentico e più nascosto di istituzioni, strutture e consuetudini correnti, e di
solito accettato come ovvio, naturale e comunque suscettibile sì di riforme e di modifiche
ma non di rimessa in discussione, allo scopo invece di modificarlo o (è proprio il caso di
dirlo) di “sradicarlo”.
In tempi più recenti, invece, si è avviata la problematica della “ricerca” o del
“recupero” delle radici in un àmbito molto lontano se non addirittura opposto a quello che
assisté al sorgere storico del radicalismo politico: l’àmbito dell’identificazione dei valori
“identitari”, importante quando tra Sette e Ottocento si sono andati sviluppando il concetto e
il sentimento di “nazione” e quindi, in tempi più recenti, divenuta secondo alcuni
drammaticamente necessaria nella misura in cui gli esiti ultimi della Modernità e della
globalizzazione (ipertrofia dell’individualismo, critica rivolta alle tradizioni e alle
consuetudini, omologazione culturale, esperimenti multiculturalistici, “scontri di civiltà”)
rischiavano di mettere in crisi la coscienza di appartenenza appunto identitaria.
Bisogna però sottolineare, arrivati a questo punto, che la ricerca relativa alle
“origini” e quella relativa alle “radici” di una cultura o di una civiltà possono anche
procedere di apri passo, sovente possono anche intrecciarsi e confondersi a causa dello
scarso rigore epistemologico di chi le porta avanti, ma sono due cose in sé molto diverse. La
ricerca relativa alle “origini” non può non puntare su dati storici, etnologici, antropologici,
linguistici obiettivi, o comunque avvertiti come tali da chi al conduce, e non può pertanto
che giungere a risultati di tipo deterministico: si può in altri termini procedere ad analisi
biologiche e filologicolinguistiche tese a tradurre in termini scientifici, ad esempio, le
successive vicende del popolamento di una certa area (penso ad esempio alla ricerca dei
Cavalli Sforza). Lo studio storico dell’universo mentale e immaginario dei singoli gruppi
che si sono incontrati e confrontati in varia misura per costituire un “popolo”, una
“nazione”, può chiarire in che misura da certe origini si è passati allo sviluppo di istituzioni
e di strutture specifiche. Ma si resta nel campo di quella che, in tedesco, si chiamerebbe la
Zivilisation. Possiamo, per esempio, porci il problema genetico dello sviluppo della
Zivilisation abruzzese: si dovrà allora cominciar col delimitare attentamente il campo
geostorico della nostra ricerca (l’Abruzzo storico, o meglio gli Abruzzi storici, non
coincidono sempre e del tutto con l’attuale regione amministrativa); quindi, incrociando la
storia con l’etnoantropologia, la fisiologia e la linguistica-dialettologia, si dovranno stabilire
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al meglio possibile struttura antropica eventualmente autoctona, “pelasgica” (e già qui il
ricorso a ipotesi, teorie e quindi in ultima analisi strumenti più “ideologici” che scientifici
saranno inevitabili) tempi, provenienza, ragioni, entità quantitativa e vicende precise di ogni
successiva migrazione, modi d’insediamento, elementi di convivenza e di scontro e così via,
badando bene – in termini braudeliani – a tener ben presenti e ben distinti gli elementi di
“lunga durata” e quelli al contrario emergenziali. E, siccome il tempo non è una realtà
omogenea, dopo aver individuato i tempi lunghi delle migrazioni e delle acculturazioni
bisognerà confrontarli con quelli brevi della politica e delle istituzioni: assoggettamento alal
repubblica romana, cristianizzazione, effetti delle Völkerwanderungen di lunga, media e
breve durata, peso dell’economia transumante e del pericolo d’incursioni dal mare,
inquadramento in realtà istituzionali e demografiche come l’appropriazione e la messa a
cultura dei suoli, il rapporto con l’ambiente, gli inquadramenti monastici, diocesani e
pievanili, i rapporti vassallatico-beneficiari, quelli tra centri demici e campagne,
l’impiantarsi di attività manifatturiere e mercantili, le dinamiche geoclimatiche. Solo una
volta stabilite tutte queste cose si potrà dare una risposta precisa alle domande relative alle
dinamiche storico-antropologiche che hanno favorito e/o determinato l’impiantarsi della
festa dei serpari di Cocullo, o della cultura dello zafferano di Sulmona, o di quella dei
torroni e dei confetti sempre di Sulmona o dell’Aquila, o di quella degli argenti e delle
filigrane di Guardiagrele. Ma saremo sul piano dell’identificazione e dello studio delle
origini e delle dinamiche, quindi della Zivilization: al quale potrà anche darsi, forse, qualche
più precisa risposta alla domanda relativa a che cosa siano gli abruzzesi di oggi. Ma non ci
dirà nulla – anche se potrà predisporci a formulare qualche risposta – alla domanda relativa a
quel che essi oggi sentono o credono di essere, che riguarda invece la Kuktur: e stabilire il
rapporto tra le due dimensioni è estremamente arduo.
Ciò dal momento che, se l’albero della Zivilisation ha radici fisiche – gruppi umani,
rappresentazioni mentali, vicende storiche “obiettive” e ricostruibili nella misura in cui il
“vero storico” risultato della ricerca può somigliare al “vero obiettivo”, che di per sé è
inconoscibile -, quello della Kultur ha viceversa radici che sono state individuate e scelte, o
che vengono di continuo individuate e scelte di nuovo, da quanti di una certa civiltà si
sentono parte e alla loro appartenenza attribuiscono un dato valore. L’albero della Kultur
somiglia all’albero che simboleggia il Paradiso in Dante, è un albero rovesciato che trae il
suo vitale alimento dal Cielo: “l’albero che vive de la cima – e frutta sempre e mai non
perde foglia” (Paradiso, XVIII, 29) e il suo modello archetipico si trova nella cultura vedica.
Le radici di una civiltà, identificate dalla riflessione di quanti la condividono e soggette
quindi alla sua dinamica storica, con tutto il peso dei suoi caratteri di continuità, ma anche di
rottura e di “emergenza”, di “irruzione dell’evento” e “dell’imponderabile”, sono quelle che
essa identifica: sono pertanto frutto non d’indagine “obiettiva”, bensì di elezione e di
selezione, dunque di decisione.
Si parla molto, oggi, di romanità e di germanesimo, e anche di grecità e di
germanesimo: e ciò senza dubbio in quanto l’intransigenza tedesca di fronte alla crisi
finanziaria europea ha risvegliato animosità e con essa pregiudizi antichi e recenti. Qualcuno
ha rispolverato i termini di “latinità” e “germanesimo” come contrapposti o come
complementari. Qualcun altro ha riesumato la balla propagandistica risorgimentale del
“tedesco” come erede del “barbaro invasore” e “secolare nemico” d’Italia, roba degna solo
della brutta poesiola di Giovanni Berchet. Basta far attenzione alle dediche alla Maestà
cesarea dell’imperatore – evidentemente un Asburgo, la germanicità del quale era indubbia –
apposte a molte opere di quel grande, autentico indagatore delle radici culturali d’Italia che
era il canonico Antonio Muratori, per convincerci di quanto improvvisata e arbitraria fosse
la verniciatura antitedesca di tanto romanticismo risorgimentale italiano. Ma proprio questo
è uno degli snodi problematici del nostro discorso. E bisogna rivolgerci per rendercene
conto ancora una volta proprio al Berchet e alla sua Lettera semiseria di Grisostomo, del
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1816, testimone straordinario delle contraddizioni nelle quali si dibatteva no quanti,
guardando appunto a modelli come quelli della de Staël, di Herder, degli Schlegel, di
Schiller e di Bürger proponevano una poesia nuova che attingesse alla “spontaneità
popolare” abbandonando finalmente “l’imitazione” e “la scuola”, il che – nell’universo
polemico del Berchet e nella temperie della primissima Restaurazione – significava ribellarsi
contro il neoclassicismo propugnato dall’austrofila rivista “Biblioteca italiana” per fondare
una poetica nuova, quella romantica italiana appunto, che a sua volta sarebbe per tanti versi
tornata a guardare ai modelli “classici”, vale a dire greci e latini, che del resto erano già stati
fondamentali nell’età bonapartista ma che s’ispiravano – eccoci a un altro snodo importante
– al rinnovamento estetico, archeologico e filologico della cultura ellenica proposto anzitutto
da artisti, intellettuali e studiosi tedeschi del Settecento per quanto presto e rapidamente
diffuso in tutta Europa. Esisteva dunque un classicismo “negativo”, quello veicolato dalla
cultura accademica e conservatrice sentita nell’Italia della Restaurazione come il linguaggio
della tirannide straniera, e un classicismo “positivo” ereditato dalla tradizione “popolare”
italiana, che evidentemente risaliva all’età italico-romana e che avrebbe magari potuto essere
risvegliato dalla lettura in traduzione delle ballate tedesche come quella del Bürger relativa
al tema folklorico del wilde Jäger?
Naturalmente, il complesso confronto-opposizione grecità-latinità-romanitàbarbarità-
germanesimo, è più antico e ricco di variabili che non si prestano a una
semplificazione. Nessun dubbio che esso affondi le sue origini/radici (dopo tutto quel che
abbiamo detto, i due termini non possono certo venir usati come sinonimi) nell’antica
distinzione nella contrapposizione latina tra Romania (nel senso del dominio di Roma e
dell’insieme dei popoli ad essa soggetti: concetto presente nella Vita Augustini die Possidio,
30,1, e in Orosio, 3,20,11) e Romanitas (usi e tradizioni romani in Tertulliano, De pallio,
4,1), cui si annettevano anche il carattere di humanitas, e barbaria/barbaries (che in italiano
si dovrebbe tradurre con “barbarità” piuttosto che con “barbarie”, dato il carattere
peggiorativo che tale termine ha assunto in generale e che al campo semantico che andiamo
delineando non è comunque estraneo), che nel latino medievale assunse anche la forma
barbaritas, che certo in origine qualificava la differenza linguistica e in quanto tale etnica,
ma non senza un elemento comunque di condanna, che l’associava alla immanitas, termine
corrispondente al complesso ferocia/brutalità/grandezza smisurata quindi mostruosità: il che
immediatamente poneva il problema della non-appartenenza dei barbari all’humanum genus
e quindi il loro non-diritto di godere di quelle leggi divine che tutelano il rapporto tra gli
umani, quelle che Ulisse invoca al cospetto di Polifemo. Vero è d’altronde che già gli
egiziani, secondo Erodoto 2, 158, indicavano come appartenenti a una categoria
dubbiamente umana i parlanti una lingua diversa dalla loro e che l’idea dell’avversione nei
confronti degli allofoni si formò in Grecia evidentemente soprattutto nei confronti dei popoli
orientali, dal momento che ad occidente v’era, al riguardo, ben poco cui contrapporsi: ma,
appena sorse il problema dei romani (e/o dei celti), non si esitò ad applicare ad essi stessi la
qualifica di barbaroi.
Una qualifica non reciprocamente assunta, con ogni evidenza. Allorché Graecia
capta ferum victorem cepit, i romani si associarono immediatamente agli elleni nel definire
barbari gli altri popoli, escluso i loro due, e ad appropriarsi, attribuendolo a loro stessi, del
diritto degli elleni di dominare su tutti i barbari, come Euripide aveva affermato
nell’Iphigenia in Aulide, 1379, e Aristotile in Politica, 1, 2. Impoprtantissimo in questo
senso il giudizio di Aristotele che attribuiva ai barbari d’Europa il coraggio (thumos) ma non
l’ingegno (diànaoia), mentre a quelli d’Asia negava il coraggio ma concedeva l’astuzia:
laddove nei greci trovava presenti thumos e diànoia al tempo stesso. Caratteri che sarebbero
pervenuti al medioevo cristiano, dove nelle Chansons de geste il perfetto cavaliere deve
possedere insieme prouesse e sagesse.
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Vero è d’altronde che il campo di applicazione etnogeografico del concetto di
barbaria era suscettibile di mutare con il cambiamento delle condizioni socioistituzionali, a
loro volta connesse con le vicende dell’ampliamento dell’impero romano. La dicotomia
romanitas/latinitas era già stata miticamente superata fino dai tempi di Romolo, per quanto
Vrirgilio la rievochi commosso nell’Eneide, e i latini avevano linguisticamente parlendo
“vinto” i “barbari” troiani donando loro la lingua; eppure il peso delle mitiche origini troiane
si era mantenuto in termini di residuo disprezzo-difficenza per i greci, destinato a
serpeggiare per tutta la tradizione romana e a sopravvivere nello stesso medioevo latino fino
ad alimentare l’altro mito, quello del graeculus vile ed astuto, con il quale i franci
medievali bollavano i greci bizantini; e l’altro ancora, ad esso correlato, della comune
origine di romani, di germani e addirittura di turchi dagli antichi troiani, assunto come
pretesto eziologico per un antibizantinismo che lo scisma d’Oriente del 1054, le campagne
normanne contro l’impero di Costantinopoli e le crociate (specie la prima e la quarta; ma
anche al seconda, soprattutto a causa della propaganda del normanno Ruggero II).
D’altronde, nel mondo romano che aveva profondamente collegato civiltà romana e civiltà
greca fino dal II secolo a.C. (non dimentichiamo tuttavia che la Graecia capta non era più,
propriamente, quella della civiltà di Pericle, bensì quella già metabolizzata nell’ellenismo
alessandrino) anche i galli e perfino gli iberici occidentali, gli hispani, vennero
gradualmente liberati dalla denominazione di barbari, che rimase per i popoli germani e per
quelli orientali al di là dell’Eufrate. Tacito però, componendo la sua Germania, immetteva
nel mondo romano un elemento di considerazione, di rispetto e se si vuole di simpatìa (nel
senso etimologico del termine) nei confronti dei barbari germani, che andava del resto di
pari passo con la crescente stima che essi sapevano guadagnarsi, con il loro indomito
coraggio, come guardie del corpo di vari imperatori e come foederati. La Lex Antonina di
Caracalla, che concedeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, e il coevo
avanzare del cristianesimo, che rendeva tutti i popoli cittadini – a dirla con Dante – “di
quella Roma onde Cristo è romano”, fecero il resto. Paolo aveva già proclamato con
chiarezza che nel Cristo al distinzione tra romani e barbari non aveva più alcun significato.
E, come il principio della “comunione dei santi” eliminava la barriera tra i viventi e i morti,
quello agostiniano della Civitas Dei stabiliva ormai un differente e definitivo confine tra chi
di essa era civis e chi no. Nella decadenza dell’impero che apparteneva alle umane vicende,
e che appunto Agostino aveva richiamato chiedendosi in che cosa Roma avesse mai errato
meritando di subire la profanazione di Alarico nel 410, il “Passiamo ai barbari!” di Salviano
di Marsiglia acquistava un innovatore significato soteriologico.
I germani accettarono dal canto nostro tale dinamica, proclamandosi a loro volta figli
di Roma: e i loro re sollecitarono il praenomen di Flavius e titoli come praefectus o
addirittura Caesar al fine di legittimare, nel nome di Roma e del suo diritto la loro posizione
di “re” dei loro popoli. E’ vero che Ataulfo, cognato e successore di Alarico nel 410, aveva
per un istante sognato di contrapporre una Gothia alla Romania/Romanitas: ma non è meno
vero che nel 414 sposò Galla Placidia, sorella dell’Augusto d’Occidente Onorio.
La testimonianza più forte e lucida del fatto che nel mondo antico e medievale – a
parte l’”eclisse”, nell’Occidente dei secoli VI-XIV circa, di quella che oggi si definirebbe la
“cultura della Grecia classica” – il legame tra le diverse civiltà veniva esaltato senza che
affiorassero elementi di pregiudizio, sta nel tema della translatio imperii, che da presupposti
biblici e latini (il mundus senescens, l’avvicendarsi di età sempre più corrotte nella
prospettiva però di una rigenerazione finale) si affermò con Gerolamo e con Orosio come
tesi della storia dell’umanità quale successione progressiva di imperi universali: babilonese,
persiano, greco (cioè alessandrino), romano. A partire il caso molto particolare dell’impero
carolingio, che sembra quasi nato sulla base di una sperimentazione papale mai del tutto
accettata da Carlo (era ben chiaro, nei secoli VIII-IX, che l’impero romano c’era ancora, ed
era quello d’Oriente), fu semmai Ottone III, colto e geniale figlio di un sovrano sassone e di
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una principessa greca, cioè “romana” nella sensibilità corrente (quel che noi chiamiamo
“impero bizantino” si definiva con molta chiarezza basilèia tòn romàion) a elaborare e
proporre la tesi della legittima – nella sua persona – translatio imperii dai romani ai
germani. L’idea che l’impero “romano” rifondato in Occidente (dopo il V secolo) grazie alla
dinastia sassone (alla quale si ricollegò poi, a posteriori, l’esperimento carolingio) fosse la
legittima prosecuzione di quello romano, trasmesso al populus teutonum, si affermò con
chiarezza nelk corso dell’XI secolo con autori quali Tietmaro di Merseburgo e Adamo da
Brema, finché con Frutolfo di Michelsberg, scomparso all’inizio del XII secolo, si giunse
alla formulazione “canonica” della translatio: l’impero romano, trasferito tra i greci da
Costantino, sarebbe tornato tra i germani con Carlomagno e con Ottone I. Ma la Santa sede,
utilizzando a sua volta l’apocrifa Donatio Constantini dell’VIII secolo, poterono affermare
con una tesi che trovò pieno accoglimento del Decretum del canonista Graziano verso il
1140, che una translatio per quel che riguardava l’impero d’Occidente era già avvenuta nel
IV secolo quando Costantino aveva lasciato in eredità la papa la città di Roma con le
insegne imperiali. Innocenzo III, affermando in una sua lettera che era il papa ad aver
trasferito l’impero in germanos affidandolo la notte di natale dell’800 a Carlomagno,
sottintendeva che essa poteva disporre ancora di quella corona, sulla quale aveva un potere
eminente. Al contrario, i dotti al servizio di Federico I Barbarossa, appoggiandosi alla nuova
diffusione in Occidente del diritto giustinianeo, potevano affermare la tesi (diciamo così
“neo-ottoniana”) di una translatio in germanos senza bisogno della mediazione pontificia,
nel nome della quale l’imperatore romano-germanico era legittimamente il successore degli
imperatori romani e i sovrani euro-occidentali, il potere dei quali si era sviluppato entro i
confini dell’impero romano dal V secolo in poi, erano solo “prefetti”, reguli provinciarum.
Nel mondo medievale, mentre si evidenzia sempre più l’animosità nei confronti dei
greci e naturalmente s’identifica un nemico si può dire di tipo “georeligioso” nel potere
musulmano, nascono altresì senza dubbio elementi di emulazione, contrato, satira o
pregiudizio tra i vari popoli occidentali: e in essi si è potuto scorgere il proimo seme della
coscienza delle differenze “nazionali”. Tuttavia, nella satira ad esempio di un Peire de la
Cavarana contro i tedeschi e il loro modo “barbarico” di parlare, non vi sono ancora
elementi per parlare di un contrasto tra popoli o fra nazioni. Può essere differente il caso del
Petrarca e, sulla sua scia, di qualche umanista italiano del Quattrocento, che – in coincidenza
con la “riscoperta” della Grecia che noi chiameremmo classica – tesero a stringere il legame
tra greci e romani antichi e a contrapporlo ai germani avvertiti ora con chiarezza “stranieri”,
“barbari” (si pensi al tema petrarchesco delle “Peregrine spade”).
Questa sfida “latina” venne raccolta all’inizio del Cinquecento, non a caso, proprio
da un monaco agostiniano ch’era anche un umanista, Martin Lutero, il quale con il suo Loss
von Rom – da intendersi tecnicamente come separazione dalla corrotta corte pontificia –
inaugurò un atteggiamento che avrebbe portato lontano: e lo mostrarono proprio gli
intellettuali umanisti passati alla Riforma, come il melantone o l’Ecolampadio, i quali si
allontanarono tutti sensibilmente dalla tradizione latina per privilegiare semmai quella greca
e istituire così una sorta di translatio studiorum (ch’era, per il tramite neotestamentario,
anche translatio Christianitatis) dai greci ai germani, “bypassando” la tradizione latina.
Si andavano così costituendo due contrapposte linee entrambe storicamente riduttive
e mistificatrici: dimenticando la vera complessa natura della cultura ellenistica e i suoi
rapporti con quelle orientali, si andava costituendo un “modello” ellenico –poi definito
“classico” – che si poneva alla base di quel che più tardi (venuta meno con il processo di
secolarizzazione la coscienza di comunitaria appartenenza alla Christianitas) si sarebbe
chiamato “Europa” (attribuendo arbitrariamente e a posteriori un’antica autocoscienza
identitaria ai vari popoli che avevano abitato quello ch’era soltanto un “continente”, una
parte del mondo, un’espressione geografica) e addirittura “Occidente”, riprendendo e
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distorcendo un’espressione che alla fine del IV secolo Teodosio, proponendo la sua riforma
territoriale e amministrativa dell’impero, aveva usato in semplici termini geografici.
Si profilò in altri termini lunos contro fra due concezioni che, utilizzando un termine
a sua volta posteriore, potremmo definire “inascimentali”: quella latina e cattolica, che
postulando lo stretto legame tra Grecia classica e cultura romana contrapponeva la civiltà
che ne era scaturita al mondo germanico; e quella germanica e riformata, che su una linea
originariamente umanistico-neotestamentaria privilegiava il rapporto fra tradizione greca e
cultura dei popoli appunto germanici, trattando il mondo romano (cioè, almeno in origine,
chiericale e pontificio) da corrotto. Il banco di prova di questo scontro (e, per noi, la cartina
di tornasole) fu la comune svalutazione/incomprensione dei secoli che in Europa si erano
collocati tra la fine dell’impero romano d’Occidente e il nascere del tempo delle humanae
litterae: tra la perfezione dell’antichità classica e quella dei tempi nuovi, dell’età moderna, si
situava non un tempo, bensì un non tempus immeritevole perfino di un nome: lunga epoca di
barbarie, di letargo, di superstizione. Appunto il medium aevum, la media tempestas. Si
polemiozzava quindi sulle responsabilità della fine del mondo antico e della barbarie che le
era tenuta dietro: degli invasori germanici, sostenevano i latini cattolici; della corruzione
romana, ribattevano i germani protestanti. Tale duello si verifica puntualmente esaminando
la lunga, durissima, complessa vicenda dello scontro fra le due équipes chiamate in pieno
Cinquecento a riformulare il corso della storia universale: i “Centuriatori di Magdeburgo” da
parte riformata, gli eruditi facenti capo al cardinal Baronio da parte cattolica.
Quando, superata la sottovalutazione barocca dell’antichità in genere e la querelle
des anciens et des modernes, l’Europa tornò a guardare al mondo ormai definibile
definitivamente come “classico”, erano all’avanguardia sia i philosophes francesi, in
genere interessati a una visione teista o materialista e comunque anticristiana del mondo, sia
gli accademici tedeschi: laicismo anticattolico francese e accademismo formato sulle basi
luterano-calviniste della cultura germanica, soprattutto berlinese (con le sue radici olandesi)
dall’altra, finirono con il convergere in una rinnovata visione “ellenica” dell’antichità, dalla
quale il mondo romano pagano era in qualche misura emarginato (ma si sarebbe preso poi la
rivincita con il giacobinismo e con Napoleone) e quello romano cattolico del tutto eliminato.
La componente massonica di tale cultura avrebbe reimmesso al suo interno alcuni elementi
biblico-ebraici e più tardi a sua volta (tramite giacobinismo e bonapartismo) romani specie
repubblicani e protoimperiali: ma il cattolicesimo sarebbe comunque stato bandito dalla
visione d’insieme che ne risultava, e nella quale semmai – sulla scorta del teismo o
dell’ateismo della cultura settecentesca, cui stava affiancandosi anche l’archeologismo
völkisch con il recupero delle tradizioni “nazionali e popolari” (e siamo alla radice non solo
del romanticismo, ma dello stesso razzismo) – andavano affiorando istanze e tendenze
“neopagane” di vario segno. Tale il background dell’estetica neoclassica, quella di Johann
Joachim Winckelmann, ma anche dei “classici” di Weimar, che alimentano di antipatìa per il
mondo romano la loro ellenofilìa, la quale si orienta secondo i casi e le tendenze politiche
ora verso il mondo ateniese, ora verso quello spartano; nasce così la neomitologia di
Arminio e della vittoria contro i romani nella selva di Teutoburgo, una ellenofilìa e una
neomitologia, entrambe antiromane, che alimentano anche la grande filologia di Theodor
Mommsen, che peraltro dal punto di vista storico seppe cogliere l’elemento di novità e di
grande apertura universalistica della “dittatura democratica” cesariana. Su questa linea, per
uno scivolamento di piani inclinati verso forme sempre più demagogiche e volgari, si arriva
dritti all’ellenofilìa antiromana e anticattolica di Hitler e del nazionalsocialismo, ben più
qualificante e pronunziata di quel “medievalismo” che (ipertrofizzando arbitrariamente
alcuni elementi nibelungico-wagneriani) all’uno e all’altro di solito si rimprovera, forse
perché l’idea di medioevo si associa meglio a quella di barbarie, che nei confronti del
nazismo si vuol ribadire, che non quella di antica Grecia. Verrebbe da pensare che certa
gente non abbia mai visitato la Berlino dell’ “Isola dei Musei”, non si sia mai fermata a
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guardar un istante con attenzione la Porta di Brandeburgo (nella quale tuttavia c’è senza
dubbio un recupero della grandezza romana) e non abbia nemmeno un’idea di
quell’immenso, mirabile, folle monumento al malinteso elleno-germanico che è il Walhalla,
il complesso ispirato all’acropoli di Atene voluto da Ludovico I di Baviera e progettato da
Leo von Klenze per essere eretto presso Ratisbona tra 1830 e 1842. Tra parentesi, questo
pretestuoso asse ellenico-germanico, frutto dell’incontro tra neoclassicismo e romanticismo,
sta anche alla base di tutte le fantasie imbecilli relative all’indebita proiezione delle guerre
greco-persiane del V secolo a.C. con Maratona, le Termopili e via dicendo in una sorta di
scontro strutturale “di civiltà” fra Occidente e Oriente, fra Europa e Asia. Il successo di
infamie come il film Trecento, disgraziatamente divenuto presso alcuni una specie di cult,
nasce da qui.
E queste le basi dell’attuale, pietosa polemica sulla grecità versus germanicità,
germogliata in margine alle strigliate della signora Merkel ai governanti greci e alle
differenti posizioni nate in reazione ad essa. Una tempesta in un bicchier d’acqua costruita
attorno a un a priori semiculturale e pseudoculturale forte ohimè soprattutto in Italia.
Perché è proprio nel nostro paese, tempio di ogni sorta di provincialismo, che il
Risorgimento riuscì a propagandare il modello di un germanesimo che, in quanto
“antiromano”, era anche ipso facto antitaliano nella misura in cui l’Italia era erede di Roma:
ridicola idea mazziniana (si pensi a Mameli, all’elmo di Scipio e alla Vittoria che deve
porgerle la chioma in quanto schiava di Roma, il tutto adattato all’Italietta…). Nella
primavera del 1877, neoletto deputato nel collegio di Lugo, Giosuè Carducci scrisse l’”ode
barbara” Nell’annuale della fondazione di Roma dopo aver visitato per la prima volta in vita
sua la Città Eterna: in quella poesia se la prendeva con il “reo cuore” nel quale “germoglia
torpida la selva di barbarie” di Theodor Mommsen, il quale, nella sua monumentale Storia
di Roma, dopo aver da buon tedesco fatto di tutto per sminuire la civiltà romana nei
confronti di quella greca – salvo, da buon cittadino del Secondo Reich, l’aver difeso
l’esperienza di Cesaare prendendosela tra l’altro magistralmente con Cicerone – aveva
dichiarato che tra gli antichi romani e gli italiani v’era la stessa parentela che correva tra un
pur nobile cavallo, però defunto (Roma), dalla carogna del quale erano nati dei mosconi (gli
italiani). Il che era paragone per nulla sostenibile, detto tra parentesi, perché accettando
comunque l’idea di una discendenza diretta, sia pour degradante, sottovalutava il mixing
etnoculturale della penisola italica dal I millennio a.C. in poi.
Ma quella difesa carducciana, così mazziniana e neoclassico-romantica “all’italiana”
(rieccola, la Lettera di Grisostomo del Berchet…), avrebbe drammaticamente fatto scuola
nei decenni a venire, fino a trasformarsi negli Anni Venti-Trenta in una sorta di teoria
ufficiosa della storia e dello stato a causa di un maestro elementare di cultura appunto, a sua
volta, mazziniana e carducciana. Le idee, entrambe superficiali e grossolane, di una
profonda e unilaterale omogeneità tra mondo greco e mondo romano antichi e di
un’opposizione di entrambi rispetto al germanesimo nasce da volgari semplicizzazioni e
mistificazioni come queste. E il fatto che se ne occupino tanto i mass media, contribuendo a
divulgare e a radicar ancora di più confusione e disinformazione, è il segno – che sarebbe
ridicolo, se non fosse tragico – del punto al quale è, qui da noi, ancora la notte. Quando
sento parlare di cultura…