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Undicesimo comandamento: non rimestare la merda

di Francesco Lamendola - 27/07/2012

 

Tutti noi, nel corso della vita, accumuliamo delle ferite nell’anima: più o meno dolorose, più o meno profonde.

Però, sebbene tutti siano d’accordo nel fatto, non esiste di esso una interpretazione univoca; in particolare, ci si domanda quanto sia dovuto alle reali circostanze oggettive e quando, invece, si debba a una condizione spirituale soggettiva.

Le persone più sensibili sono particolarmente esposte alle ferite: ciò significa che soffrono in maniera acutissima, anche là dove altri neppure si accorgono di nulla, o a mala pena patiscono un graffio superficiale; ma fino a che punto si tratta di ferite prodotte da cause effettive e fino a che punto da un predisposizione patologica e masochista?

Impossibile sciogliere il dubbio, almeno in teoria; in pratica, l’occhio un po’ esercitato si rende conto abbastanza facilmente della differenza fra le due situazioni e sa riconoscere chi soffre a causa di qualcosa e chi soffre perché ha una predisposizione a vivere con sofferenza anche le circostanze relativamente ordinarie della vita.

Un quesito ulteriore è, a questo punto, se la sensibilità sia davvero una virtù o, comunque, un qualcosa “in più” rispetto a chi ne è poco provvisto; al quale si può rispondere che essa è una virtù, e dunque un valore aggiunto, a patto che si accompagni ad altre qualità dell’anima, prima fra tutte il senso dell’equilibrio. Se così non è, vi sono pochi dubbi sul fatto che la persona troppo sensibile finisce per diventare lo zimbello degli altri e l’eterna vittima della vita, una vita che finisce per diventare l’equivalente di una perenne maledizione.

Sia come sia - la questione è troppo complessa per poterla sbrigare in poche righe - tutti, nel corso della loro vita, si imbattono nella sofferenza e tutti, pertanto, accumulano un certo numero di ferite dell’anima; nessuno può sfuggire a un tale destino, né la persona insensibile, né quella ipersensibile, passando per tutte le sfumature intermedie.

Ora, il fatto è che, nella vita, bisogna procedere: non siamo stati chiamati alla vita per rimanere fermi, ma per andare avanti; avanti sulla strada della conoscenza, della comprensione, della saggezza, dell’apertura spirituale; avanti fino a diventare delle persone consapevoli, che quotidianamente si interrogano e si rimettono in discussione e quotidianamente cercano di comprendersi, migliorarsi, perfezionarsi, senza fermarsi mai.

Ma come la mettiamo con le nostre ferite?

Le ferite non medicate, bene e subito, producono pus: sostanza marcescente che continuamente fuoriesce e che segnala un pericolo, il pericolo dell’infezione, il pericolo che il male si propaghi a tutto l’organismo, lo intossichi e lo uccida. Il pus è paragonabile alla merda: materia in putrefazione, maleodorante, di aspetto disgustoso, che per nessuna ragione dobbiamo cercare di trattenere, se vogliamo evitare che ristagni e che fermenti, provocando dei danni gravissimi e, forse, irreparabili.

Ebbene: anche se ciò può sembrare pazzesco, il mondo è pieno di gente che vive rimestando il calderone del proprio pus, della propria merda; che vive rimestando senza pace il pus prodotto dalle proprie ferite: gira rigira il coltello nei ricordi dolorosi, si aggrappa con furore alla propria sofferenza, respinge con ira qualunque tentativo degli altri di offrire un sollievo, una distrazione, una occasione per ripulire il pus e per ricominciare a vivere; gente che si è affezionata, senza rendersene conto, alla propria malattia.

Ripetiamo: si tratta di una situazione molto più frequente di quel che non si creda: riguarda, in una certa misura, un po’ tutti; e forse a che tu, caro lettore, magari senza rendertene conto sino in fondo, stai facendo proprio questo, ogni giorno, ogni mese, ogni anno della tua vita: rimesti senza pace nel calderone delle tue ferite, in modo che il pus non smette mai di fuoriuscire e le ferite dell’anima restano sempre aperte e sanguinanti.

Ma come è possibile che gli esseri umani facciano una cosa così palesemente stupida, così palesemente autolesionista? Come è possibile che non vedano l’assurdità, la macabra ferocia di questo rimestare nelle piaghe, di questo eterno accanirsi contro se stessi? Come è possibile che preferiscano la star male al tentativo di star meglio, di guarire?

La cosa è meno strana di quel che può sembrare, a patto di sbarazzarsi di due pregiudizi tipicamente illuministi: che gli uomini siano buoni per natura e che spontaneamente, istintivamente, cerchino il bene. O  meglio, è vero che cercano il bene: ma quello che riescono a vedere, non il bene in sé; quello che la loro vista, sovente assai debole, consente loro di riconoscere. Per il drogato, il bene è continuare a drogarsi; per colui che ha un prurito sulla pelle, il bene è grattarsela fino ad arrossarla e quasi a farla sanguinare.

Vi è una sorta di piacere nel grattarsi, anche se si sa benissimo che non serve a nulla, anche se si sa benissimo che non solo non risolve il problema, ma lo aggrava e ritarda la guarigione; è una debolezza della volontà, certo, ma è anche qualche cosa d’altro: una perversione del normale senso del giudizio, un capovolgimento del vero, del buono e del bello. Quando ci si gratta, da principio si cerca solamente il sollievo dal prurito; poi, a mano a mano che si insiste, e che nuove sensazioni subentrano, nasce qualcosa di nuovo: nasce il piacere del grattarsi per se stesso, un piacere che si vorrebbe prolungare e rispetto al quale il prurito è ormai solo un pretesto.

La stessa cosa accade con il pus, con la merda delle nostre ferite: all’inizio si rimesta nella piaga cercando istintivamente un po’ di sollievo; per esempio, si rievoca il volto della persona cara che non c’è più, perché il vederla con gli occhi del ricordo offre un surrogato alla sua presenza reale, che ormai ci è negata. Poi, però, le cose cambiano: a furia di rievocare quel volto tanto amato, si finisce per trovare in esso una sorta di piacere, il piacere di un bene reale, per quanto evanescente: certo, è anche un piacere doloroso; ma non offre, per ciò stesso, una straordinaria occasione di voluttà?

Il masochista, in fondo, non è altro che un sadico il quale rivolga la propria malvagità contro se stesso, allo scopo di trarne un godimento; e in ognuno di noi si annida un sadico mascherato, che, non osando o non volendo infierire sul prossimo, si accanisce contro se stesso, scoprendo, non senza sorpresa, che soffrire è bello, specialmente quando siamo noi stessi a dirigere il gioco e a deciderne i tempi e i modi.

Rimestare nel calderone della propria sofferenza, dunque, finisce per diventare una operazione a suo modo piacevole. Il piacere dei disperati, certo; ma quante persone vivono in un perenne stato di tranquilla disperazione? Quante persone non finiscono per attaccarsi alla loro ansia, alla loro insonnia, al loro rancore, alla loro depressione, perché senza di queste cose non saprebbero da dove cominciare per ricostruire la loro vita devastata e inaridita?

Smettere di rimestare nel calderone della propria merda, dunque, è una decisione che scaturisce da una presa di coscienza, da una assunzione di responsabilità: la presa di coscienza che ci si stava pericolosamente attaccando alla sofferenza e l’assunzione della responsabilità della propria vita, della voglia di ricominciare a vivere, con tutti i rischi che ciò comporta. Non si può smettere di rimestare se non si sanno riconoscere i sottili meccanismi dell’auto-inganno, del sadismo e del masochismo latenti, nonché dell’inconfessabile sete di vendetta.

Noi vorremmo vendicarci, o, almeno, molti di noi vorrebbero farlo. Recentemente, un ragazzo si è suicidato per amore, in un paese a pochi chilometri da qui. La sua ragazza lo aveva lasciato e lui non poteva più continuare a vivere. Solo che, per suicidarsi, ha scelto la vendetta: si è impiccato a un albero nel giardino della casa di lei. Ha voluto morire gettandole addosso il peso eterno del rimorso. In realtà, quel ragazzo non si è suicidato per amore, ma per odio: un odio così grande da imporre allo sguardo di lei lo spettacolo atroce del suo cadavere penzolante da un ramo.

Questo, naturalmente, è un caso estremo; ma rende l’idea di fino a dove possiamo arrivare, quando incominciamo ad affezionarci alla nostra merda.

La merda, come il pus, non è una cosa cattiva: è, anzi, una cosa buona, perché ci libera dalle sostanze nocive; diventa una cosa cattiva solo se noi ci affezioniamo ad essa, se non vogliamo più separarcene, se prendiamo un gusto perverso nel rimestarla all’infinito.

D’altra parte, smettere di rimestare nel calderone non vuol dire far finta che la merda non ci sia. Rende un pessimo servizio a se stesso colui il quale la ignora e si limita a ricoprirla con un coperchio di ferro: no, essa non va conservata sotto sigillo, ma restituita all’ambiente, biodegradata: solo così potremo ritrovare il nostro equilibrio ed evitare di accumularla in un luogo in cui si accumuli, finendo per appestare tutta la casa.

La ferita, per guarire, deve espellere il pus; dunque, bisogna che il pus venga fuori: gravissimo errore sarebbe quello di sbarrargli la via d’uscita; se non trova il modo di fuoriuscire, inevitabilmente intossicherà l’intero organismo. Bisogna, invece, pulirlo ogni volta, mano a mano che esso si riforma; e bisogna che venga fuori tutto, ma proprio tutto, prima che noi possiamo bendare o incerottare la ferita. Se così non facessimo, somiglieremmo a colui che accumula la merda sotto un coperchio di ferro, dove i gas miasmatici finiranno per creare una vera e propria bomba chimica, pronta ad esplodere.

Ecco, allora, che noi dobbiamo prenderci cura delle ferite della nostra anima: non dobbiamo negarle, non dobbiamo rimuoverle; dobbiamo lasciare che secernano tutto il pus che contengono, fino all’ultima goccia; e poi medicarle, senza aspettare un minuto di più, per sottrarci alla tremenda tentazione affezionarci allo stato di malattia che esse testimoniavano.

Tutto questo non è facile, perché richiede consapevolezza: richiede il coraggio di guardarsi dentro senza ipocrisie, senza finzioni, senza viltà. Se siamo stati feriti, dobbiamo riconoscerlo; se la colpa è nostra, dobbiamo ammetterlo, se non è nostra, dobbiamo ugualmente farci una ragione di quanto è accaduto, metabolizzarlo, trasformarlo in una accresciuta comprensione, in un nuovo gradino verso l’espansione spirituale.

Riuscire a perdonare è una tappa necessaria di questo cammino: perdonare gli altri, ma anche perdonare noi stessi; perdonare noi e loro per quello che hanno o che abbiamo fatto, ma anche per quello che non hanno o non abbiamo fatto e che ora grida con rabbia il suo rammarico e, forse, anche il suo rimorso.

Dobbiamo imparare a perdonarci per la nostra pochezza, per la nostra insufficienza: cosa che possiamo fare solo se non partiamo, come fanno gli illuministi, dal mito di una nostra supposta perfezione originaria. Siamo dei pover’uomini e delle povere donne, questa è la realtà; e, con le nostre sole forze, possiamo fare ben poco, anzi, riusciamo spesso a trasformare in male perfino le nostre buone intenzioni - e non ci accade spesso di averne.

In compenso, siamo aperti verso l’assoluto; siamo costituzionalmente incamminati verso l’Essere, viandanti con la bisaccia in spalla, pellegrini sulle strade della vita. Negare questa disposizione originaria, significa negare la nostra stessa umanità; significa consegnarci alla disperazione che, inevitabilmente, si impadronirà di noi ogni volta che cadremo a terra, ogni volta che ci sarà dato di misurare l’abisso smisurato che separa il desiderio del bene che vorremmo fare e che vorremmo avere, dalla realtà del male che facciamo e che subiamo continuamente.

“Homo viator”, questa è la nostra dimensione più autentica e profonda; questa è la nostra vocazione, il senso della nostra chiamata. Siamo eternamente in cammino: in cammino verso la verità, verso la bontà, verso la bellezza. Siamo come la donna incinta che grida nelle doglie del parto e che solo mettendo al mondo il suo bambino troverà la gioia, troverà la pienezza del proprio esistere, nonché la consolazione al proprio dolore.

Quando il bambino sarà nato, solo allora le sofferenze della donna cesseranno, saranno medicate, saranno dimenticate; solo allora tutto acquisterà un significato nuovo, ogni cosa sarà trasfigurata nella luce.

Il grande mistero è che, perché tutto questo accada, noi dobbiamo passare per la porta della morte: la porta del nostro compimento.  Fino a quel momento, non siamo che viandanti in cammino…