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Ognuno di noi si affaccia da un colle dell'Infinito

di Marcello Veneziani - 26/08/2012


La religiosità laica della poesia leopardiana simboleggia la solitudine dell'individuo di fronte al mistero


Ora che il Meeting di Rimini chiude i battenti lasciamo cadere come una buccia la consueta sfilata di politici e tecnici e soffermiamoci sul vero tema dell'incontro promosso da Comunione e Liberazione: «La natura dell'uomo è rapporto con l'infinito».

Quel titolo sottende una certezza: nella finitudine umana c'è una congenita, radicata tensione verso l'infinito. L'uomo ha coscienza e desiderio d'infinito. Forse sarebbe stato più pertinente evocare l'eterno perché richiama il tema agostiniano dell'immortalità dell'anima in rapporto al tempo mentre l'infinito indica lo spazio, l'universo, la fisica.

Ma a ben vedere il tema è leopardiano: affronta gli interminati spazi e i sovrumani silenzi che quel ventenne cantò in una grandiosa poesia, religiosa quanto atea. Del resto, non è stata un'eccentrica impertinenza il riferimento ferragostano di Papa Ratzinger alla Madonna assunta in Cielo ma non su una galassia o nel vuoto spaziale del cosmo. Il più formidabile argomento contro la religione è proprio lo scompenso assoluto tra gli spazi e i mondi infiniti e l'avvento del Figlio di Dio su un frammento del cosmo e in un'infima scheggia di storia dell'universo. Stridente, assoluto contrasto. La religione cristiana ci appare da una parte in tutta la sua maestosa grandezza rispetto ai singoli uomini e ai nostri giorni, ma dall'altra parte ci appare la sua infima esiguità al cospetto delle sfere celesti e degli anni luce. Dico maestosa grandezza se penso a me individuo, credente e pensante, davanti alla gigantesca processione di secoli, di martiri, di chiese e dottrine, di popoli e di tradizioni nel segno del cristianesimo. Io animella sperduta, mente inquieta, e lei possente certezza nei secoli; come potrei credere ai dubbi della mia coscienza di singolo di fronte a un magistero corale di così millenaria tradizione?

Ma poi il rapporto s'inverte se commisuro quella fede, quella Chiesa ai milioni d'anni d'umanità o al cosmo infinito, tra miliardi di stelle, senza una traccia d'umano in altro luogo all'infuori di qui. E allora viene da chiedersi: ma l'Eternità di quel messaggio non è in realtà solo lunga durata rispetto alla vita umana? E l'universalità di quel messaggio non si riduce solo a un puntino disperso nell'universo siderale e infinito? Può dirsi onnipotente quel Dio che manda Suo Figlio in terra, cioè in questa mollica sperduta nell'universo, di recente abitata da umani e solo negli ultimi spiccioli di tempo, appena due millenni, percorsa dalla fede cristiana? Un regno così piccino nello spazio e nel tempo può assurgere a verità eterna e infinita? Tutto diventa minuscolo davanti all'immensità dell'universo. Ma di quello scompenso tra grandezza e minuzia, tra infinito e finitudine, si nutre il sentire religioso, la sua fede e i suoi dubbi. Lo scompenso sembra ricomporsi tornando alla dimensione puerile del credere, a una fede devota e bambina che pensa di essere al centro del mondo ma ne è solo un infimo, labile brufolo. Ma il bambino non sa distinguere le distanze, giudica grande sia la Chiesa che allunga la sua ombra sulla piazza che il Sole affacciato tra i palazzi. E scambia la lunga durata per l'eternità, l'imponenza con l'infinito, l'immensità con la vastità. Ma basta quest'illusione ottica per fondare una fede?

Allora torno al leopardiano cielo infinito. Vedo una stella cadente ed esprimo il desiderio di vedere una stella cadente. Vedo quello che desidero, desidero quel che vedo. Così vivo la pienezza dell'attimo presente e insieme protraggo all'infinito il desiderio. Dopo una stella desidero vedere un'altra stella eclissarsi, e ancora una stella... L'importante non è l'oggetto del desiderio né il suo possesso, ma il desiderare in sé, puro e assoluto. Non è la saggezza umile di chi dice che è bene desiderare ciò che si ha, piuttosto che avere ciò che si desidera. Vedere una stella cadente non è avere qualcosa; è solo vedere, assistere a una parabola compiuta nei cieli, e dunque partecipare da una postazione remota a un moto di stelle. Il desiderio espresso è puro contemplare, non è ottenere quel che si brama; è far combaciare il proprio sguardo con il proprio desiderio e con l'evento celeste. La pienezza del desiderio è nell'atto del desiderare, nel contemplare senza possedere, nel partecipare con gli occhi a un moto celeste anziché appropriarsi di una cosa terrestre; è nel desiderare di restare a mani vuote, come accade con la preghiera, con la purezza del desiderio che ci rende vivi e protesi alla visione dell'essere, che è poi la vita essenziale.

Se fosse questo il segreto della vita e della fede? Se l'immortalità fosse tutta nel desiderio di immortalità, se la beatitudine fosse nel desiderio di beatitudine, se la pienezza dell'essere fosse nel desiderio di pienezza dell'essere, se perfino la verità fosse nel desiderio vero e assoluto di verità? Non desiderare di avere ma desiderare di essere, perché essere è desiderare. Desiderio vero e assoluto d'infinito. Del resto l'origine della parola desiderio è riposta nelle stelle. De sideribus: i soldati romani affidavano alle stelle l'auspicio che i loro commilitoni tornassero dalla battaglia. Perché affidarsi alle stelle? Perché sovrastano le vicende umane e terrene, sono impassibili e inviolabili, remote e supreme. E poi le stelle erano l'unica cosa che visivamente abbracciava coloro che vegliavano l'attesa del ritorno e coloro che combattevano; nella distanza li accomunava solo le stelle, testimoni di entrambi, filo conduttore celeste che tesse la trama del cosmo. Se l'origine del desiderio è nelle stelle, è giusto riconsegnare il desiderio all'origine da cui scaturisce.

A questo pensavo nella solitudine siderale della notte e trovavo conforto a pensare che quelle stesse stelle erano state testimoni di coloro che vissero un tempo lontano; quelle stelle avevano visto e vegliato la vita e i sonni di coloro che amavo, della loro vita e della loro passione di vivere. Come una scatola nera ma splendente, raccolgono il tesoro dell'esistenza umana di fronte all'infinito, il ricordo sperduto nel cosmo di quel briciolo d'affanni che chiamiamo umanità. Così forse si anima il vuoto siderale e un cordone ombelicale invisibile, che rivela il conato o desiderio d'infinito, collega la finitudine di quel frammento chiamato uomo all'infinita maestà dell'universo. All'infinito, immenso ed eterno, il credente darà il nome di Dio. Al desiderio d'infinito, immenso ed eterno, il credente darà il nome di fede.