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La modernità è trascendere senza trascendenza, soteriologia senza escatologia

di Francesco Lamendola - 03/09/2012


 

Il cristianesimo ha portato l’idea di un significato complessivo della storia, laddove, per gli antichi, che pure della storiografia sono stati i padri (Erodoto, Tucidide), non v’era che un succedersi di eventi continuamente destinati a ripetersi: come acutamente ha osservato Berdjaev, il cristianesimo non ha solo creato una particolare filosofia della storia, ma ha creato la filosofia della storia in quanto tale.

La filosofia cristiana della storia è fondata sul concetto di destino: l’uomo è chiamato al suo destino soprannaturale e a tale chiamata egli può rispondere affermativamente o negativamente, così come fece il primo Adamo nel Paradiso terrestre; sarà collaboratore, in tal modo, della Città di Dio o della Città terrena.

La concezione lineare della storia, in contrapposizione a quella ciclica degli antichi, è sì un tratto che essa trasmette alle filosofie della storia laiche, a cominciare da quella illuminista e da quella marxista, ma questa linearità è meno importante, a ben guardare, dall’introduzione dell’idea di destino in contrapposizione all’idea di caso (e anche a quella di Fato: quel Fato inesorabile cui devono piegarsi perfino gli dèi, come Zeus che non può salvare suo figlio Sarpedonte dalla spada di Patroclo). Ed è un’idea che apparirebbe incongrua, addirittura inconcepibile, senza il presupposto della libertà.

Solo perché l’uomo è libero, può operare una scelta davanti al proprio destino; altrimenti egli sarebbe in balia di forze capricciose e incomprensibili -  il caso, appunto - o, peggio, di forze oscure e rigidamente predeterminate - il fato. Ma l’esercizio della libertà, per poter essere effettivo, esige la possibilità del diniego; ed è precisamente quello che ha fatto l’uomo moderno. Dicendo no a Dio, al suo piano di salvezza, alla sua chiamata alla trascendenza e alla grazia che gratuitamente gli viene donata, l’uomo si è insignorito del senso della storia e l’ha trasformata in una soteriologia senza escatologia, in un trascendere senza trascendenza.

La filosofia della storia della modernità si caratterizza, dunque, come una scelta che nega le premesse della scelta, perché, negando Dio e il senso trascendente della storia, nega anche il significato del diniego (non ha senso negare qualcosa che non esiste) e afferma qualcosa che è auto-contraddittorio (non si può assolutizzare il relativo, né proiettarlo al di sopra di se stesso) e introduce una lacerazione, una schizofrenia, che rende compulsivo l’agire dell’uomo e disperata la libertà da questi rivendicata. Inevitabile la caduta verso un esistenzialismo privo di sbocchi e di prospettive e verso il più cupo nichilismo.

Il dramma della storia chiusa in se stessa parte da qui e si conclude qui: nel dramma dell’uomo che non solo trasforma la propria autonomia in libertà assoluta, ma che pretende di fondare sul proprio orizzonte empirico e immanente una evoluzione sensata e razionale, che a sé e a sé solo faccia riferimento e della quale egli è l’artefice esclusivo, quando non ne diventa la vittima designata o lo spettatore rassegnato e passivo.

È il dramma di Nietzsche, dell’uomo che vuol realizzare in se stesso la trasformazione in superuomo, calpestando remore e scrupoli e salendo sopra le spalle di se stesso, nel titanico e impossibile tentativo di creare l’assoluto dal relativo, emancipandosi, con le sue sole forze, da se stesso e dalla propria condizione creaturale: punto d’arrivo di una “hybris” che, a loro  modo, tanto l’illuminismo che il romanticismo hanno scientemente perseguito, pur nelle opposte direzioni scaturenti dalle rispettive concezioni antropologiche.

Non vi può essere, infatti, soteriologia senza escatologia, né un trascendere privo di trascendenza: in entrambi  casi si crea un circolo vizioso in cui le forze liberate e messe in gioco finiscono per ritorcersi contro l’uomo, avvelenando ed esasperando le sue stesse contraddizioni che, se trovassero una apertura verso la totalità, di cui l’uomo è solo una parte, potrebbero favorire un circuito virtuoso e benefico per la vita dell’anima.

Così scrivono Paolo Tarchi e Carlo Mazza nel libro «La domenica e i giorni del’uomo» (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005, pp. 35-8):

 

«È difficile comprendere il senso complessivo della cultura moderna, con la sua domanda diffusa di emancipazione individuale e collettiva, senza riconoscerlo come la rivendicazione dell’autonomia “secolare” della storia rispetto alla grande strategia cristiana di trasformazione e di “consacrazione2  del tempo naturale come tempo salvifico. La modernità nasce appunto come rivendicazione di un’autonomia secolare del tempo profano, che in molti casi è letta come la legittimazione di una libertà indiscriminata del soggetto. Come ha scritto Berger, “la modernità è un gigantesco spostamento dal destino alla scelta nella condizione umana”; anche se non mancano posizioni di segno contrario, che abbandonano l’agire umano a un gigantesco  gioco di forze naturali e sociali, in cui l’individuo rischia di essere stritolato, e nonostante una serie di “umiliazioni” del soggetto. Ricoeur, per esempio, parla di una “umiliazione cosmologica”, che sarebbe stata inflitta dal sistema copernicano, di una “umiliazione biologica”, prodotta dal darwinismo, e persino di una “umiliazione psicologica”, inflitta dalla scoperta freudiana dell’inconscio.

In ogni caso, la linea che fonda l’autonomia del soggetto sulla sua padronanza del tempo profano, come unico tempo secolare della emancipazione umana, si trasforma progressivamente in una forma di dominio antropocentrico ella natura e della storia, legittimato in nome di una ragione illuministica “forte”.

 In tale contesto la distinzione fra tempo “sacro” e tempo “profano”tende a trasformarsi in vera e propria separazione, all’interno ella quale la radicalizzazione fideistica, introdotta alla Riforma protestante, cerca di riabilitare  l’idea di una autenticità cristiana nell’ordinarietà  del vivere comune, ponendo  le premesse per una progressiva privatizzazione del tempo della fede. Il filosofo canadese Taylor registra, a questo proposito,  una sorta di “spontanea alleanza” fra l’idea baconiana di scienza e la teologia puritana: in entrambi i casi si produrrebbero, per vie diverse, forme di ribellione a un’autorità tradizionale, che si accompagnano alla ricerca di fonti immediate di senso, da raggiungere senza lo schermo fuorviante di mediazioni speculative: la realtà sperimentale in un caso, la Scrittura nell’altro.[…]

La rivendicazione del’autonomia, al di fuori di questa fede,  diventa ben resto, però, pretesa di una unificazione del senso  in prospettiva storicistica: allora la secolarità diventa secolarismo e l’ismo indica precisamente  la pretesa di dare una compiuta risposta intramondana alle promesse scatologiche della religione. Nascono su queste basi le grandi filosofie moderne della storia, che  non riescono, però, a nascondere la loro origine, nonostante  i diversi tentativo di realizzare una compiuta “profanazione”  del sacro: “L’uomo post-cristiano - anche secondo Löwith - ha concepito una filosofia della storia che secolarizza il principio teologico della storia sacra  in un compimento terreno del suo senso”. Questa consapevolezza era già ben presente al giovane Hegel, che può darcene una testimonianza provocatoria e insieme problematica: “è stato riservato soprattutto ai nostri tempi di rivendicare in proprietà degli uomini, almeno in teoria, i tesori che sono dissipati in cielo. Ma quale età avrà la forza di far valere questo diritto e di entrarne in possesso?”.

Quando questa spinta secolaristica giunge alle sue estreme conseguenze, si trasforma sul piano politico in una sorta di ”soteriologia” senza “escatologia”. »è l’umanesimo marxista, in particolare, che eredita tale pretesa salvifica, arrivando a pensare la speranza , alla maniera di Bloch, come un “trascendere senza trascendenza”, che si affida a una “utopia concreta”, accingendosi a “lettura atea” de cristianesimo, che ne renda possibile il recupero di tutte le eredità sovversive di quella sua “speranza eretica che cammina con piedi umani”. Tale recupero trova però la sua unica possibilità di incarnazione  in un tessuto storico riconsiderato come grembo di possibilità illimitate, nella convinzione che, in definitiva, “è l’avanti che attira, perché lo si può formare, non il lassù”.»

 

Anche la recente scomparsa del riposo domenicale, decisa dai proprietari dei supermercati e dei centri commerciali e avallata dalle pubbliche autorità (mentre fino a qualche anno fa, il negoziante sorpreso a lavorare la domenica veniva multato), con l’approvazione dei sindaci e nel silenzio dei sindacati e della stessa Chiesa, rientra in questo quadro complessivo.

Non c’è più giorno del Signore, perché non c’è più un tempo sacro distinto dal tempo profano; il tempo è tutto profano; e così come è profano il tempo della settimana, lo è anche quello della storia; logico approdo, dal momento che il senso della storia è stato sottratto alla trascendenza e, anzi, il mondo in se stesso pretende di auto-comprendersi e di auto-realizzarsi.

La svolta della modernità consiste in questo: nell’autoaffermazione del mondo, che incomincia con Copernico, Bacone e Galilei e prosegue con Newton, Kant, Hegel, Marx, Darwin, Nietzsche, Freud, Heidegger.

È significativo che, talvolta, i maestri della modernità affermino di richiamarsi ai maestri della trascendenza: è il caso di Heidegger, che si richiama a Kierkegaard; ma il Kierkegaard di Heidegger è spogliato dell’angoscia, quell’angoscia che sola lo può condurre verso la salvezza, mentre quel che gli resta è la disperazione del suo essere per la morte.

Anche Montale può essere visto, in parte, come un continuatore di Dante, il Dante della donna angelicata che viene in soccorso dell’umano soffrire; ma Clizia, codesta donna angelicata, non ha niente a che fare con Beatrice, perché non ha alcuna salvezza a cui condurre l’anima, è solo una sbiadita immagine, una nostalgia impotente che svanisce nella nebbia.

Analogo discorso per il “dantismo” di Eliot: la sua Terra Desolata risuona, sì, di accenti danteschi, ma la sua visione non è propedeutica alla conversione dell’anima e a un cammino di redenzione; non vi è alcun Paradiso da raggiungere e neppure un Purgatorio nel quale espiare, purificarsi, riconquistare la propria parte migliore.

Così pure, da qualche tempo, è venuto abbastanza di moda, fra gli scienziati e specialmente fra gli astronomi, parlare con disinvoltura della “mente di Dio”, della “particella di Dio”, e così via; ma il Dio di tutti costoro, a cominciare da Stephen Hawking, è, hegelianamente, un Dio che diviene tale attraverso il pensiero: un Dio in divenire, un distillato della Ragione universale - tanto che, in ultima analisi, ciascuno di codesti scienziati si sente un po’ Dio egli stesso.

È una negazione radicale della trascendenza, un rifiuto sdegnoso della “philosophia perennis” e di tutto ciò che è Tradizione, in nome di un progresso che è strumento e fine nel medesimo tempo: strumento di se stesso e fine di se stesso; e l’uomo, che costruisce orgogliosamente la sua nuova Torre di Babele, ne è divenuto lo schiavo, senza neanche rendersene conto.

In nome di questa immanenza radicale, senza residui, si vuole realizzare il Paradiso qui, sulla terra, oggi stesso, e si taccia di alienazione qualunque richiamo all’Assoluto; ma ad ogni nuovo tentativo di costruire tale supposto Paradiso, corrisponde un gradino nella discesa verso forme sempre più regressive di convivenza, di umanità, di responsabilità.

Se l’uomo adamitico doveva rendere conto a Dio della creazione che gli era stata affidata, l’uomo moderno non deve rendere conto a nessuno ed impone con tale violenza il suo dominio sui viventi e sulla Terra medesima, da mettere seriamente in pericolo l’equilibrio naturale. La tecnica di cui dispone gli consente di spegnere la vita stessa sul nostro pianeta, ma nessun senso del limite si erge a frenare la sua arroganza e lo stesso istinto di conservazione appare insufficiente a rallentare la sua marcia auto-distruttiva. Come l’apprendista stregone della leggenda, egli si illude di avere ancora tempo a disposizione, di essere sempre lui il padrone del gioco e fantastica di disegni sempre più prometeici, mentre il suo agire gli è sfuggito di mano in maniera forse irreparabile.

È amaro dover confessare un accecamento totale e un fallimento di così enormi proporzioni, tanto più che gli apparenti trionfi della tecnica rafforzano il senso di onnipotenza dell’uomo: eppure questa sarebbe la sola strada per scongiurare la catastrofe. Reso adulto dai suoi stessi errori, l’uomo dovrebbe rientrare in se stesso, prima che sia troppo tardi: riconoscendosi creatura e non creatore.