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La cara vecchia comunità

di Andrea Ansaloni - 05/09/2012

Fonte: revolvere


Su queste pagine da qualche tempo ci chiediamo cosa può venire dopo questa cosa che ormai prevedibilmente e stancamente siamo soliti chiamare “crisi”, ma in vero è uno spartiacque tra due diverse stagioni del nostro tempo. Nei ragionamenti sul “Dopo” ritornano con insistenza temi come l’Ethos, la Responsabilità, l‘Appartenenza, la Comunità che erano già stati oggetto di un articolato ed avvincente dibattito negli Stati Uniti e i cui echi si sono timidamente riverberati anche da noi (principalmente grazie al lavoro di Salvatore Veca che ha tradotto per Feltrinelli le opere dei principali protagonisti). Ci sembra utile riproporre ai lettori di Revolvere un intervento pubblicato qualche anno fa dalla rivista di GeoFilosfia Tellus che, per quanto datato, può fornire qualche spunto per ragionamenti futuri.

Nel 1943, poco prima di morire, Simone Weil scrisse: “Il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana. Difficile definirlo. L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva  e naturale all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire”.[1]

Dopo quasi cinquant’anni in cui qualsiasi riferimento al tema delle identità collettive era stato progressivamente estromesso dal dibattito delle idee, nel 1990, un gruppo di una quindicina di docenti e studiosi nel campo dell’ etica,  della filosofia e delle scienze sociali, si ritrovarono nella capitale  degli States su invito di Amitai Etzioni[2], docente di sociologia presso la locale George Washington University e del suo collega William Galston. All’ordine del giorno i problemi cronici degli Stati Uniti e di tutte le moderne società occidentali:  disgregazione sociale, individualismo radicale, anomia, erosione del concetto di responsabilità sociale, egoismo, pericoli di teledemocrazia, scomparsa di una qualsiasi nozione di bene comune capace di bilanciare la pluralità degli interessi particolari, declino della famiglia, violenza e si potrebbe continuare all’infinito.

A  monte,  quello che il gruppo di intellettuali di cui parliamo ritiene il pericolo maggiore: la progressiva scomparsa della comunità dalla vita sociale del paese.

Decisero allora di darsi il nome Communitarians, ed enfatizzare così il fatto che era giunto il tempo di tenere fede alle responsabilità nei confronti dei principi e delle persone con cui tutti noi, sostengono, abbiamo qualcosa a che spartire: la comunità.

Ma cosa intendono questi intellettuali quando parlano di ricostruire la comunità?

Innanzitutto, occorre fare una precisazione: il termine negli States assume una sfumatura leggermente diversa rispetto a quanto intendiamo noi: oltreoceano infatti esso evoca tanto la comunità politica intesa in senso globale, quanto le «subcomunità» etniche, culturali, religiose o semplicemente di quartiere che la prima può inglobare.

Nella sua accezione più semplice la comunità è quindi un insieme di persone interdipendenti, legate da costumi, usanze e situazioni esistenziali comuni che, conseguentemente, sono spinti a discutere e prendere decisioni comuni. Il termine richiama quindi in primo luogo l’atto di partecipare attivamente ad un qualcosa di cui ci si sente parte integrante.

Senza però collocarsi automaticamente in uno degli schieramenti politici esistenti, il Communitarian Network di Amitai Etzioni, la componente più celebre di quello che è diventato in poco più di un lustro il Communitarian Movement, si definisce «non sectarian» e «non partisan».

La prima preoccupazione che Etzioni e soci si sono posti, è il fondatore del movimento a ricordarlo nel suo «The Spirit of Community»[3], è stata proprio quella di non venire risucchiati dalla polarizzazione che avvelena il dibattito delle idee negli Usa come altrove e che porta necessariamente ad essere collocati in uno degli schieramenti politici in cui il paese è diviso.  Una visione del tipo «o con noi, o contro di noi», come quella che avvelena l’attuale dibattito politico, afferma Etzioni, crea inutili divisioni ed è in radicale contrasto con qualsiasi prospettiva comunitaria. Forse è proprio per questo che le teorie comunitarie hanno fatto breccia in entrambe le ali del congresso, sebbene solo Clinton e il suo entourage ne abbiano talvolta parlato espressamente il linguaggio.

Proprio in quella riunione del 1990 verranno poste le basi del futuro Communitarian Network  e che saranno  sistematicamente esposte da Etzioni  nel citato «The Spirit of Community» e nel manifesto del movimento (The Responsive Communitarian Platform: Rights and Responisbilities) ad esso allegato. I Communitarians sostengono con forza che una rinascita morale  è possibile senza cadere negli eccessi del puritanesimo, che la sicurezza personale si può raggiungere senza trasformare il paese in uno stato di polizia, che la famiglia, senza cui nessuna società è possibile,  può essere salvata dal disfacimento senza violare i diritti delle donne, che la scuola può fornire un’educazione civica e morale senza indottrinare i giovani, che è possibile vivere in comunità senza trasformare nessuno in vigilante ed essere ostili verso alcunché. Allo stesso modo affermano che il richiamo alle resposabilità di ognuno nei confronti della comunità non vuole essere un invito a retrocedere sul terreno dei diritti, ma che, anzi, «grandi diritti presuppongono grandi responsabilità». Analogamente il bilanciamento degli interessi personali con le responsabilità sociali non richiede l’annichilimento di sé o il sacrificio di ogni realizzazione personale, un «Io sociale» è un «Io»  più completo e realizzato di uno rinchiuso nel proprio orticello ed il partecipare alla vita di una comunità politica non elimina anzi, presuppone una attenzione critica nei confronti di chi governa. Su queste basi i communitarians si fanno promotori di una “democrazia forte” e partecipata.

“Ma il loro principio socio-politico più alto dovrebbe essere quello della sussidiarietà. Per non indebolire i legami sociali di quelle comunità che al livello familiare, di vicinato o municipale possono assovere certi compiti sociali e politici al pari o addirittura meglio di quanto si possa fare a livello regionale o statale, l’assistenza ai malati e agli anziani, agli emarginati e ai senzatetto e agli emigranti dovrebbe avvenire ad esempio sotto la regia dello Stato soltanto qualora avessero fallito i suddetti sottosistemi”.[4]

Seguendo questa linea di pensiero, David Hollembach definisce il ruolo del governo in una società democratica: “il governo non regola ma, piuttosto, serve il «corpo» sociale animato dall’attività di queste comunità intermedie”.[5]

Queste preoccupazioni sembrano condivise, pur con accenti spesso molto differenti tra loro, da una serie di altri autori che possono essere riconducibili al movimento comunitarista anche se non sono direttamente legati al Communitarian Netwok di Etzioni e, talvolta, siano anche stati apertamente crtitici nei confronti di esso.

Stiamo parlando, tra gli altri,  di Alasdair MacIntyre[6], CharlesTaylor[7], Michael Sandel[8], Robert N. Bellah[9], Michael Walzer[10],  Roberto Mangabeira Unger[11] le cui considerazioni filosofiche e sociologiche hanno come bersaglio polemico la teoria liberale dei diritti e la società (individualista) che si è costruita attorno al suo nucleo teorico. Un discorso a parte meriterebbe il tentativo di Philip Selznick[12]  dare vita a un  “comunitarismo liberale”.

Pur con diverse sfumature, questi autori sono pressoché concordi nell’inividuare i tratti più evidenti del “disagio della modernità” che possono essere riassunti nella transitorietà, impersonalità e frammentazione dei rapporti sociali, nella perdita dei sentimenti di appartenenza, nell’assenza di significato e unità nelle vite dei singoli, nella separazione tra vita pubblica e privata, nell’isolamento e alienazione degli individui, nell’incapacità di giungere ad una qualsiasi formulazione della nozione di bene comune.

GIUSTIZIA VS BENE COMUNE

É soprattutto contro una visione neutra e procedurale della società e dell’etica fondata su presupposti ritenuti astratti ed impersonata soprattutto dalle tesi di John Rawls, autore del celebre “ Una teoria della giustizia”,[13] la cui edizione americana, che ha visto la luce negli anni ’70, ha ridato vita al dibattito sulla questione dell’etica, del suo ruolo nella vita delle società ed all’interno della filosofia politica, che i Communitarians indirizzano la loro critica.

Con la sua riflessione Rawls si prefigge di portare ad un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale che ci è giunta attraverso autori come Locke, Rousseau e Kant.

Il suo primo passo è quello di sottolineare, in polemica con l’utilitarismo classico, il primato del giusto sull’utile: « Ogni persona – scrive -possiede una inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che le perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri».

Come la verità è la prima virtù dei sistemi di pensiero, così  la giustizia lo è delle istituzioni sociali.

Nella società, sostiene, convivono spinte cooperative, perché la cooperazione sociale rende possibile una vita migliore per tutti, e conflitti che riguardano la distribuzione delle risorse e dei benefici perché ognuno nel perseguire i propri obbiettivi ne preferisce una quota maggiore.

Come individuare allora i criteri di giustizia comuni a tutti che rendono possibile una società ordinata?

Rawls sostiene che i principi di giustizia sono quelli che tutti gli individui liberi razionali e uguali sceglierebbero indipendentemente dai loro interessi e dalle conseguenze delle loro scelte.

Per arrivare a questo ricorre ad una situazione astratta, una nuova edizione dello stato di natura, che chiama «posizione originaria» in cui gli individui, sono costretti ad accordarsi sui principi di giustizia sotto «un velo di ignoranza», ignorando, cioè, quale sarà la loro posizione biografica sia naturale (sesso, razza ecc) che sociale (classe, ceto ecc.) nella società a venire. In questa situazione ipotetica, Rawls ipotizza che gli individui si accorderebbero su due principi: l’eguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri (primo principio di giustizia) e sulla eguale distribuzione delle risorse sociali ed economiche (secondo principio di giustizia).

Le strutture fondamentali delle società reali ed i loro principi devono essere confrontate con i principi che scaturiscono dall’ «accordo originario» e se divergenti abbandonate o riformate come nella scienza avviene per quelle teorie che non rispondono ai requisiti di verità.

In sintesi la teoria della giustizia rawlsiana, che lui stesso definisce deontologica, mette a fuoco il primato del giusto sul bene, una visione del soggetto come antecedente ai suoi fini e una concezione della comunità non determinante nella formazione dell’identità degli individui coinvolti.

La centralità di quest’opera all’interno del dibattito delle idee contemporaneo, la rende la più discussa, e criticata, dai filosofi neocomunitaristi che non concordano sul primato del giusto sul bene, sulla visione neutra e procedurale della etica, sull’astrattezza di un «soggetto agente» anonimo e dato per scontato indipendentemente dal suo contesto socio-culturale, sulla visione sentimentale e non costitutiva della comunità.

L’aspetto più paradossale e più sottolineato da un punto di vista “comunitarista” è che siano proprio le teorie a base individualista a «perdere per strada» il soggetto nella sua interezza e a fornircene una versione in «scala ridotta».

L’UOMO É UN ANIMALE SOCIALE

I communitarians rivendicano a pieno titolo, come costitutiva dell’uomo la sua condizione di “animale sociale”, “naturalmente” legato ai suoi simili, immerso in una cultura ed in una tradizione e capace, pur nella pluralità delle posizioni, di riconoscersi in una nozione di ”bene comune”, come bene creato e fruito comunitariamente,  che orienti e dia senso all’agire umano.

MacIntyre, per esempio, denunzia il fallimento del progetto illuministico della modernità e parla dell’uomo moderno come «cittadino di nessun-luogo»,  auspicando un ritorno a forme locali di comunità ed alle virtù aristoteliche, Bellah stigmatizza la visione liberale di società come costituita da individui essenzialmente separati, Sandel parla di “unencumbered selves” e distingue tra una «moralità del giusto» (liberale)  che parla a “ciò che ci divide” ed una «del bene» (comunitaria) che si rivolge a “ciò che ci collega agli altri”, Taylor si scaglia contro il “sé atomista” la perdita di senso, il relativismo ed i pericoli di dispotismo morbido legati al disimpegno sociale dei singoli.

Al contrario dei teorici del liberalismo, quei pensatori che si collocano in una prospettiva comunitaria sostengono che la costruzione e la comprensione di sé e dell’identità di ognuno avvengano all’interno di una  relazione,  ritengono che  l’uomo sia possibile esclusivamente come essere-con-gli-altri. Non si tratta semplicemente di individuare criteri di convivenza, norme e valori cui attenersi, ma di riscoprire un «Noi» (la Philia politica aristotelica) che dia un senso a queste norme.

Nell’introduzione al saggio «Liberalism and it’s critics»[14] Sandel si addentra in profondità nella questione:«Dal punto di vista di un’etica basata sui diritti, è precisamente in quanto noi siamo soggetti separati e indipendenti che abbiamo bisogno di una struttura neutrale di diritti che non pregiudichi la scelta tra scopi e fini confliggenti. Se il sé è prioritario rispetto ai suoi fini, allora il giusto deve essere prioritario rispetto al bene.

I critici comunitaristi del liberalismo basato sui diritti sostengono che non possiamo concepire noi stessi come esseri indipendenti in questo modo, ovvero come soggetti totalmente separati dai nostri scopi o legami. Essi affermano che certi nostri ruoli sono parzialmente costitutivi del nostro essere quelle persone che siamo – cittadini di un paese, o membri di un movimento, o sostenitori di una causa. Ma se noi siamo parzialmente definiti dalle comunità nelle quali viviamo, allora dobbiamo anche essere coinvolti negli scopi e fini di quelle comunità… La mia biografia, per quanto essa sia aperta, è sempre inserita nella storia di quelle comunità dalle quali derivo la mia identità – siano esse la famiglia o la città, la tribù o la nazione, un partito o una causa. (…) I critici comunitaristi del liberalismo moderno, ispirandosi agli argomenti di Hegel contro Kant, mettono in dubbio l’asserita priorità del giusto sul bene e la concezione dell’individuo che sceglie liberamente ad essa sottesa. Rifacendosi ad Aristotele, essi sostengono che non possiamo giustificare gli assetti politici senza far riferimento a scopi e fini comuni e non possiamo concepire la nostra identità senza far riferimento al nostro ruolo di cittadini e di partecipanti a una vita comune»

CHI SONO IO?

La domanda  che sta a monte della riflessione di autori come Sandel e MacIntyre non è quindi “quale condotta devo o posso scegliere?” La vera domanda è“chi sono io?”. Occorre però procedere con cautela, perché sbaglieremmo a relegare questo quesito all’ambito metafisico o psicologico,  si tratta invece di una domanda dalle profonde implicazioni politiche che focalizza l’attenzione sulla questione dell’identità collettiva come elemento determinante ai fini della vita sociale.

Nella sua introduzione al volume collettaneo «New Communitarian Thinking»[15], Amitai Etzioni afferma: “I liberal si preoccupano spesso di proteggere le libertà individuali dalla minaccia dello stato. Spesso ignorano o danno poca importanza alla relazione comunitaria: le precondizioni sociali che permettono agli individui di mantenere la loro integrità psicologica, civiltà e capacità di giudizio. Quando la comunità (reti sociali che veicolano valori condivisi) si sfalda l’integrità psicologica degli individui viene messa in pericolo, e si genera un vuoto che invita lo stato ad espandere il proprio ruolo e potere. Gli individui e le comunità sono costitutivi gli uni delle altre, e la loro relazione è, al tempo stesso, di  sostegno e tensione reciproci.  Sociologi e psicologi  indicano che gli individui privi di legami sociali (gli isolati, prototipi di attori nel mondo liberale dei diritti) si rivelano incapaci di agire liberamente, trovano invece che gli individui che sono legati da una ampia e stabile relazione, in gruppi coesi e in comunità, si dimostrano maggiormente capaci di compiere scelte ragionate, di dare giudizi morali, e di essere liberi”.

Oltre mezzo secolo fa, Reinhold Niebur sosteneva: “ La dipendenza dell’individuo dalla comunità in quanto fondamento su cui si erge l’edificio della sua unicità e stoffa di cui sono fatte le diverse e peculiari forme del suo dinamismo vitale va in parallelo con il suo bisogno della comunità in quanto fine parziale, giustificazione  e compimento della sua esistenza. (…) Grazie alle responsabilità che gli uomini hanno verso la loro famiglia, la loro comunità e le imprese che insieme intraprendono, essi sono sospinti al di fuori di sé per diventare veramente sé stessi”.[16]

COMUNITÀ STRUMENTALE, SENTIMENTALE O COSTITUTIVA

Contro la visione “strumentale” della comunità, figlia del pensiero utilitarista e “libertarian”, in cui la cooperazione tra individui è considerata una necessità imposta per il perseguimento di scopi privati, e quella  “sentimentale”, di derivazione neokantiana di cui il citato Rawls è l’esponente di punta, in cui gli individui condividono certi scopi e considerano la cooperazione come un bene in sé, ma la loro identità è data antecedentemente ad ogni legame, i communitarians  propongono pertanto una visione della comunità come “costitutiva” dell’identità degli individui che la compongono, determinante nella definizione dei loro fini e della loro concezione del bene individuale e comune.

In quest’ottica la comunità fornisce a tutti un vocabolario comune di pratiche e discorsi ma non solo, Michael Walzer[17] sostiene infatti che nell’ordine dei beni, l’appartenenza alla comunità è il più importante, dal momento che permette di determinare il significato sociale dei beni da distribuire e le connesse diverse concezioni di giustizia.

La giustizia distributiva dipende infatti dal significato che i beni hanno per i membri di una comunità, questo è legato a sua volta dalle credenze e dalle pratiche sociali condivise dai membri della comunità stessa.

E’ una società formata da tante “responsive communities” tanto da diventare una “comunità reattiva” essa stessa, quella che i communitarians  inseguono. “La società civile è la realtà più avvolgente, composta di numerose comunità di piccolo e medio formato, come le famiglie, le comunità di vicinato, le chiese, le unioni di lavoro, le corporazioni, le associazioni professionali, le unioni di credito, le cooperative, le università e molte altre associazioni. (…) La base della democrazia non è un’atomistica autonomia individuale. La partecipazione alla vita democratica e l’adempimento della libertà reale nella società dipendono dalla forza delle relazioni comunitarie che offrono alle persone una misura di potere reale per dar forma ai loro ambienti, compreso quello politico”.[18]

Come ha ampiamente argomentato, già nel secolo scorso, Alexis de Tocqueville,  una società coesa e pluralista la cui ossatura è costituita da associazioni volontarie e comunità è certamente una migliore difesa contro il totalitarismo di una società individualista ed altamente frammentata.


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NOTE

[1] Simone Weil, La prima radice, Comunità (1980)

[2]Amitai Etzioni. Professore presso la George Washington University, fondatore e direttore del Journal of Socio-Economics e della rivista The Responsive Community, co-fondatore della Society for the Advancement of Socio-Economics, fondatore e chairman del Communitarian Network, è stato consigliere della Casa Bianca.

Autore, tra l’altro, di An Immodest Agenda Rebuilding America Before the 21th Century (I983), Capital Corruption. The New Attack on American Democracy (1984), The Moral Dimension. Toward a New Economics (1988), A Responsive Society (1991),The Spirit of Community. Rights, Responsabilities and the Communitarian Agenda (1993),   (a.c.) The new communitarian thinking  (1995) [ed. italiana: Nuovi Comunitari. Persone, virtù, bene comune, Arianna Editrice 1998], (a.c.) – Rights & the common goods (1995)New Golden Rule (1996), The Limits of Privacy, (1999). In Italia è noto soprattutto  per suoi saggi sul pensiero organizzativo, tra cui Organizzazioni e società, in collaborazione con E. Gross, Il Mulino (nuova ed. 1996).

[3] A. Etzioni, The Spirit of Community Rights, Responsabilities and the Communitarian Agenda.

[4] Lothar Waas, MacIntyre, il comunitarismo e l’odierna crisi morale, in AA.VV, Studi Perugini n°3 (Monografia su A. MacIntyre), Gennaio/Giugno 1997.

[5] David Hollembach, Virtù, bene comune e democrazia, in A. Etzioni (a.c.), Nuovi Comunitari, Arianna (1998).

[6] Di gran lunga il “communitarian” più conosciuto in Europa ( sebbene prenda le distanze dal movimento di Etzioni), il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre ha insegnato in diverse università del Regno Unito prima di emigrare negli States nel 1970. Da allora ha insegnato alla Brandeis University, alla Boston University, al Wellesley College, alla Vanderbilt University ed alla University of Notre Dame.

Autore di diversi saggi tra cui ricordiamo Dopo la virtù, Feltrinelli 1981, Enciclopedia, Genealogia e Tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale, Massimo 1993, Giustizia e razionalità, Vol I e II, Anabasi 1995 -1996.

Il suo interesse si è concentrato sulla storia dell’etica, e specialmente sulle filosofie morali aristotelica e tomista. La sua critica dell’etica moderna muove dalla constatazione del fallimento del progetto illuminista e del suo arido normativismo in campo etico. L’etica contemporanea infatti, secondo il filosofo scozzese, è costituita da norme e principi astrattamente impersonali che prescrivono a tutti , indipendentemente dall’identità di ognuno, cosa fare, cosa è la virtù. La filosofia moderna si è distaccata dai principi aristotelici di telos della vita umana e di virtù arenandosi nelle secche dell’emotivismo, del relativismo, non riuscendo più a fornire i criteri per orientare la condotta morale e nemmeno un contesto in cui situare e valutare le azioni degli individui. Occorre pertanto tornare ad una concezione teleologica della natura umana in cui la condotta umana non è determinata dall’adesione ad un insieme di regole, ma da un’intensa riflessione morale, dall’esercizio e dallo sviluppo costante delle virtù in vista del raggiungimento del bene, visto come unità narrativa di una vita vissuta alla ricerca del bene stesso a partire dalla tradizione morale della comunità di appartenenza.

[7] Docente di Scienze Politiche e Filosofia presso la  McGill University di Montreal, Charles Taylor è noto in Italia per la sua ricerca sul tema dell’identità individuale e collettiva, tra le sue opere: Hegel e la società moderna , Il Mulino (1984), Radici dell’Io , Feltrinelli (1993), Multiculturalismo, Anabasi (1993), Il disagio della modernità , Laterza (1994) ed il recente dialogo con Jurgen Habermas Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli(1998).

[8] Michael J. Sandel, professore di scienza politica all’Università di Harvard, è autore di Liberalismo e limiti della giustizia, Feltrinelli (1994) e ha curato l’edizione del volume collettaneo Liberalism and It’s Critics (1984).

[9] Robert N. Bellah è Full Professor alla University of California di Berkeley. Autore di numerose riflessioni sulla società e sulla cultura americane e di  saggi su “religione civile”e individualismo. Tra i suoi saggi ricordiamo The Good Society (1991) Le abitudini del cuore. Individualismo e impegno nella società complessa, Armando (1996).

[10] Michael Walzer insegna Social Science presso l’institute for Advanced Study dell’Università di Princeton, N.J. Tra le sue opere tradotte in Italia: Sfere di Giustizia, Feltrinelli (1987), Interpretazione e critica sociale, Edizioni Lavoro (1990), Guerre giuste e ingiuste, Liguori (1990) , Cosa significa essere americani?, Marsilio (1993) e il recente Geografia della morale, Dedalo (1999).

[11] Roberto Mangabeira Unger è autore, tra l’altro, di Conoscenza e politica, Il Mulino (1982), Politics: a Work in Constructive Social Theory  (1987) e Passion. An Essays on Personality (1984).

[12] Philip Selznick è professore emerito di Diritto e Sociologia all’Università di California a Berkeley. Fa parte del comitato scientifico di Tha Responsive Community. Tra le sue pubblicazioni: The Moral Commonwealth (1992) e La comunità democratica, Lavoro (1999).

Selznick si propone di coniugare le istanze del comunitarismo con quelle della componente sociale del liberalismo come lo stato di diritto e la protezione giuridica dell’individuo.

Sotiene che che la dottrina liberale non neghi necessariamente che i sé siano socialmente costituiti o che le convinzioni alle quali si crede profondamente derivino da legami e coinvolgimenti comunitari. La sua critica è rivolta soprattutto ai libertarians  per il loro individualismo astratto. Secondo Selznick i libertarians sottovalutano il ruolo della comunità e parlando solo il linguaggio dei diritti tacciono il valore delle responsabilità individuali e collettive. La giustizia sociale, sostiene si raggiunge attraverso un riequilibrio di diritti e doveri e un rafforzamento delle istituzioni della società civile.

[13] John Rawls  Una teoria della giustizia Feltrinelli (1982).

[14] Michael Sandel, Liberalism and it’s critics (1984)

[15] Op. cit.

[16] Reinhold Niebur, The Children of Light and the Children of Darkness (1944) [ in Reinhold Niebur, Il destino e la storia, Bur (1999).

[17] Michael Walzer, Sfere di giustizia, Feltrinelli (1987).

[18] David Hollembach, Op. cit.