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Sulla politica estera degli Stati Uniti

di Gianfranco La Grassa - 11/09/2012

 

1. Mi sembra ovvio partire dalla considerazione che qualsiasi gruppo (“ambiente”) statunitense dell’establishment (dei “dominanti”) attua una politica tesa alla predominanza mondiale del paese. E questo già dagli ultimi decenni dell’800 (almeno dalla guerra di secessione). Penso ci siano sempre stati ambienti isolazionisti, ma da molto tempo non sono prevalenti e comunque credo che anch’essi pensino a quel tipo di politica come la più confacente per mantenere la preminenza del paese. Ciononostante, si verificano spesso tra questi gruppi contraddizioni non indifferenti, con soluzioni talvolta traumatiche. Difficile non pensare che l’assassinio di Kennedy sia maturato per tali contrasti strategici. Probabilmente già allora ebbe qualche influenza la questione vietnamita. Dal 1961 il presidente Usa (la cui Amministrazione ebbe inizio nel gennaio) aveva mirato a destabilizzare Diem nel Vietnam del sud; e il 2 novembre del ’63 la CIA, con avallo presidenziale, organizzò il colpo di Stato militare, in cui il suddetto fu trucidato, ecc. Non certo per consegnare il Vietnam meridionale ai Vietcong (e dunque ai nordvietnamiti), ma per mutare strategia e renderla più duttile.

Venti giorni dopo (22 novembre ’63) Kennedy venne assassinato a Dallas e la posizione del successore Johnson verso i “comunisti” vietnamiti si indurì. Nell’agosto del ’64 si verificò l’incidente del Tonchino (poco chiaro ma con tutta probabilità organizzato come casus belli dagli Usa). Da lì iniziò il periodo più aspro e violento dell’intervento americano nell’area, con bombardamenti sullo stesso Vietnam del nord. Nel 1969 le truppe statunitensi arrivarono alla loro punta massima di 550.000 unità. Nel gennaio di quell’anno entrò in carica Nixon, che inizialmente proseguì la politica precedente. Tuttavia, nel ’72 (21-28 febbraio) si ebbe la sua visita ufficiale in Cina, seguendo i consigli strategici di Kissinger (che aveva preparato l’evento con incontri segreti nel luglio del 1971, dopo viaggi in Pakistan). La mossa si dimostrerà intelligente e foriera di importanti sviluppi in merito alle divisioni e indebolimento del “campo socialista” ben più tardi.

E’ del tutto probabile che vi fosse l’intenzione di mutare pure la politica verso il Vietnam del nord, iniziando trattative; a ottobre, infatti, Kissinger annunciò che la pace era vicina. Tuttavia, nel periodo di Natale (18-29 dicembre ’72) si verificarono i più pesanti (ma ultimi) bombardamenti americani, soprattutto su Hanoi e Haiphong, come tentativo di giungere a trattative più favorevoli agli Stati Uniti. Il 27 gennaio del ’73 vennero, infatti, firmati a Parigi gli accordi di pace e iniziò il rientro delle truppe statunitensi; restarono solo consiglieri di supporto ai sudvietnamiti (migliaia comunque).

Nel giugno del ’72 prese avvio lo scandalo Watergate; ed oggi si sa che ciò non fu dovuto alla “libera stampa” americana (uno dei miti meglio propagandati anche dai servi italiani ed europei), bensì alle soffiate di “gola profonda”, che solo dopo trent’anni (2005, alla sua morte) si seppe essere Mark Felt dell’Fbi (spesso in contrasto con la Cia). Nel ’73 lo scandalo, evidentemente dovuto a motivi assimilabili a quelli dell’assassinio di Kennedy (lotte intestine all’establishment per diversa visione strategica), si aggravò sempre più e ciò mise ostacoli sul cammino degli accordi di pace sul Vietnam stilati a Parigi. La politica statunitense divenne via via più ondivaga con la rottura, in pratica, di quegli accordi, la ripresa piena dell’attività vietcong e nordvietnamita mentre il sud Vietnam non ebbe più il pieno e decisivo supporto americano, senza il quale non aveva alcuna chance. Il 9 agosto ’74 Nixon fu costretto alle dimissioni, per evitare l’impeachment, e il 30 aprile ’75, dopo la vittoria a Xuan Loc, i nordvietnamiti con i vietcong entrarono a Saigon. Oggi sappiamo bene che quella vittoria, apparsa strepitosa, è stata vanificata e il Vietnam riunito, in conflitto con la Cina (con cui guerreggiò pure, per circa un mese, nel ’79), è più vicino agli Usa (i cui investimenti abbondano in quel paese) che ai vecchi “compagni” di quella ormai lontanissima guerra.

 

2. Dopo il crollo del “socialismo” europeo e dell’Urss, per brevissimo tempo alcuni pensarono all’avvento di un mondo tripolare: Usa, Germania e Giappone, pur se con gli Usa ancora in vantaggio. Un certo numero di pseudomarxisti – di quelli di stampo “operaista”, convinti che la teoria marxiana fosse basata sull’analisi del processo di lavoro – sostennero che il secolo XXI sarebbe stato quello del trasferimento della predominanza mondiale al Giappone. Essi interpretavano il secolo XX come caratterizzato soprattutto dal fordismo, mentre il successivo, stante l’informatizzazione dei processi lavorativi (ma con l’industria metalmeccanica dell’auto pensata pur sempre come settore decisivo), sarebbe stato “postfordista”; era questo il periodo del trionfo del “post” presso tutti gli ormai fatui intellettuali, soprattutto “post”-sessantottini. Fiorì la moda del toyotismo (dai metodi produttivi in uso alla giapponese Toyota) od “ohnismo” (da Ohno, l’ingegnere capo alla Toyota); ci fu l’orgia della “qualità totale”, del just in time e del magazzino zero, ecc. Una marea di sciocchezze, in cui primeggiavano appunto i pseudomarxisti di cui sopra.

Il Giappone entrò quasi subito in stagnazione, dalla quale non si è ancora rimesso, pur rimanendo una potenza industriale di tutto rispetto, ma ormai secondaria proprio in quanto potenza. Non si era capito che il problema decisivo non concerneva l’organizzazione lavorativa, bensì i nuovi settori strategici e l’insieme della forza economica, tuttavia soltanto strumento di più complessi caratteri strategici delle potenze dominanti o in procinto di divenire tali. Gli Usa rimasero di fatto, dopo la fine dell’Urss, il paese centrale del globo e attuarono una strategia che risentiva di questa loro situazione; si diffuse per qualche tempo la convinzione che essi sarebbero rimasti a lungo in posizione di totale predominanza mondiale.

Solo alcuni altri, influenzati dal solito marxismo scolastico d’origine secondinternazionalista – in particolare dalle tesi di Hilferding sul capitale finanziario, già parzialmente corrette da Lenin circa un secolo prima con la sua tesi relativa alla simbiosi tra banca e industria – si misero a discettare sulle fasi che attraverserebbe nella storia ogni potenza capitalistica predominante, passando dalla prevalenza dell’industria (fase ascendente) a quella della finanza (fase discendente, identificando di fatto la finanza con il capitale monetario), senza nulla capire della strumentalità di quest’ultima rispetto alle strategie di potenza, di tipologia ben diversa e non caratterizzate in senso soltanto, prevalentemente, economico. In base a questi autentici qui pro quo, essi si misero a discettare sulla vicina presa di predominanza centrale da parte della Cina rispetto ai “vecchi” Stati Uniti ormai incamminati lungo la china discendente dello stadio finanziario. Del resto, ancora oggi sia pure in forme modificate, tale errore permane nell’enfasi posta da quasi tutti gli autori sull’attuale crisi considerata soprattutto d’ordine finanziario, nel senso di bancario e monetario.

Fino al 2001, il predominio centrale statunitense sembrò indiscutibile, dopo iniziarono alcuni dubbi e perplessità. Non mi lancio in alcuna supposizione sull’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre di quell’anno; noto solo che servì al tentativo di rilanciare la leadership americana sulla base della lotta al (sedicente) terrorismo. Per poco tempo anche Russia e Cina seguirono, ma non credo con grande convinzione; pur se, senza dubbio, la Russia continua a mantenere aperti canali di trasporto di materiale bellico e altro verso l’Afghanistan. Tuttavia, quel tipo di lotta – pur se viene ancora saltuariamente propagandata con qualche attribuzione di attentati e infiltrazioni in movimenti islamici da parte di Al Qaeda – è a mio avviso in netto ribasso. D’altronde, abbiamo saputo che il “temibile” capo del “terrorismo” viveva del tutto tranquillo in una villa non lontana da Islamabad, protetto in tutta evidenza dai Servizi pakistani; e nessuno mi convincerà che l’Intelligence statunitense non ne fosse a conoscenza.

Il 2 maggio 2011 i “giannizzeri” dell’Amministrazione Obama assassinarono Bin Laden; e per me questo è l’atto “simbolico” (ben concreto certamente) di chiusura della “lotta al terrorismo”. Permangono, come appena rilevato, alcune stanche accuse di attentati e infiltrazioni, ma ormai il terrorismo è “passato di moda”. Il che non esclude possibili “ritorni di fiamma”, ma solo se l’attuale Amministrazione dovesse fare i conti con un nuovo rafforzamento della vecchia strategia, quella seguita di fatto fino al 2006. Nel novembre di quell’anno Rumsfeld lasciò a Gates il posto di Segretario alla Difesa; e ciò fu già il segnale di un mutamento di strategia rispetto al periodo d’oro della “lotta al terrorismo”. Nel febbraio 2007, il gen. Petraeus fu nominato comandante delle truppe in Irak e vi applicò, con successo a quanto sembra, la strategia del divide et impera (tra sunniti e sciiti) con tendenza al caos e mantenimento di enclaves decisive per una sorta di “controllo a zona”. Nel giugno 2010 detto generale sostituì McChrystal (critico della politica di Obama) in Afghanistan, indice di un attrito tra fautori della vecchia e della nuova strategia americana; chiara mi sembra l’intenzione di espandere quest’ultima al contesto globale (con propositi di ritiro delle truppe pure dall’Afghanistan dopo l’Irak), intenzione che sembra incontrare resistenze, non credo sopite, in dati ambienti politici e militari statunitensi. Petraeus è poi divenuto capo (attuale) della Cia, probabilmente la più vicina ai gruppi obamiani, mentre forse l’Fbi subisce pure altre influenze.

Le divisioni, come ricordato all’inizio, non mettono in discussione la necessità che gli Usa mantengano la supremazia mondiale; per cui tali divisioni sono come quelle che si manifestarono ad es. all’epoca dello scandalo Watergate (dopo l’apertura Nixon-Kissinger alla Cina e al Vietnam del Nord), con molti arzigogoli e compromessi e un sostanziale zigzagare. Magari poi si usano metodi di lotta traumatici, ma ciò non cancella le giravolte; per cui gli Usa devono acconciarsi ad alcune ritirate, a sconfitte, che però alla lunga appaiono magari in luce diversa (ad es. la “sconfitta” subita in Vietnam). Il mutamento strategico di cui stiamo parlando, pur con aspetti che potrebbero apparire in futuro più involuti, segnala comunque che gli Stati Uniti hanno dovuto prendere atto di un loro predominio non incontrastato così come avevano pensato, dopo il crollo dell’Urss, per un periodo di tempo tutto sommato breve.

E’ in tal senso che parliamo oggi di declino relativo del paese ancora predominante. Semplicemente si è compreso che esso non è in grado di fare e disfare il mondo a suo piacimento, così com’era sembrato a cavallo dei due secoli (grosso modo, tra il crollo dell’Urss e l’attacco alle Torri gemelle), e andrà invece incontro a notevoli difficoltà; tuttora, però, non gravissime. In ogni caso, gli Stati Uniti dovranno rigiocarsi la centralità globale in un periodo che dovrebbe essere piuttosto lungo, di alcuni decenni almeno, e il cui esito non è scontato in partenza; non è affatto escluso che riacquistino la preminenza, ma nemmeno è indiscutibile un simile risultato. Si tratterà di una fase storica turbolenta – con svariati mutamenti di prospettive e di previsioni – di cui l’attuale crisi economica è soltanto il segnale premonitore, come lo fu quella assai lunga di fine XIX secolo (1873-96 all’incirca) in merito al declino della prevalenza inglese, non scontato nei suoi sbocchi fin dall’inizio; soltanto la prima guerra mondiale e, più definitivamente, la seconda decisero inequivocabilmente il tramonto della Gran Bretagna.

 

3. Dovremo in futuro rivedere molte delle considerazioni e previsioni che sintetizzeremo qui di seguito. Anche perché, come già detto, non credo che la neo-strategia, denominata obamiana per semplicità di linguaggio, sia priva di forti opposizioni in quanto ha aspetti in qualche modo azzardati e parzialmente avventuristici, o almeno così sembra. Inoltre, l’attuale strategia si serve ampiamente, almeno in date aree (fra cui l’europea e l’africo-mediorientale) di “sicari”, detti alleati. L’impressione è che attualmente il massimo impegno diretto statunitense si sposti nell’area del Pacifico, quasi sicuramente con l’intento di contenere ogni possibile espansione (non certo in tempi brevi come qualcuno pensa) della Cina. Quest’ultima dovrà probabilmente passare per periodi di risistemazione politica interna; difficile dire se turbolenti o meno.

Due processi mi sembrano probabili. Innanzitutto, l’equilibrio tra la centralizzazione e l’apparenza dello Stato “tuttofare” e “tutto controllare”, da una parte, e la forte spinta alla crescita ed espansione economica, dall’altra, non sarà mantenuto in eterno. In secondo luogo, nemmeno credo che la nuova formazione sociale, emergente dal periodo di consolidamento della Cina in quanto potenza, sarà simile al capitalismo di tipo “occidentale” (la formazione dei funzionari del capitale di matrice statunitense). Troppo facile, inoltre, pensare ad un ibrido in qualità di via di mezzo tra centralismo statale (quello confuso dagli ignoranti di Marx con il socialismo) e “libero mercato” secondo l’ingannevole e falsa ideologia liberista. Inutile fare previsioni troppo somiglianti a costruzioni di “ingegneria sociale”; la “storia” si dimostra poi sempre più libera e sorprendente nelle sue soluzioni. Certamente, la nuova potenza, se vorrà competere a fondo con gli Usa, dovrà possedere gruppi dominanti in grado di dirigere una serie di strategie – di cui la sfera economica (produttiva e finanziaria) sarà supporto e strumento – dotate della flessibilità necessaria ad affrontare le varie contingenze che sempre si presentano in un’epoca storica policentrica, quando la lotta per la supremazia porta al massimo la s-regolazione del sistema globale.

In questa fase, mi sembra che gli Usa intendano tuttavia stabilire un cordone, da est a sud, che limiti la possibile espansione cinese nell’area del Pacifico. Certo i limitati economicisti sottovalutano aspetti simili perché credono che tutto si giochi sul fatto della forza economica, intesa in modo restrittivo quale capacità di esportazione in mercati esteri, basandosi magari su bassi costi e prezzi dunque competitivi; ma spesso di merci (mettiamo abiti, giocattoli, o anche telefonini e computer, ecc.) tutt’altro che di tipo strategico. Mettere un cordone (“sanitario”) attorno ad una aspirante potenza significa renderle difficoltosa la penetrazione politica e gli accordi con i governi di certi paesi, ostacolare il flusso di mezzi usati per la possibile corruzione di funzionari (d’alto livello) di dati Stati, intralciare gli accordi per investimenti di capitale e per la creazione di eventuali joint ventures in altri paesi, per avviare verso questi ultimi flussi di finanziamento da parte di banche della potenza in crescita; e ancora per sventare l’eventuale creazione di organismi (a livello statale come di importanti imprese) formati da personale misto del paese in espansione e dei paesi soggetti a questa espansione, ecc.

Dal Giappone fino, di fatto, all’India – lungo l’arco di paesi che contornano la Cina da est a sud – è possibile si formi un cordone di questo tipo. Certamente l’India è considerata una delle potenze papabili per la lotta in vista della futura supremazia; in ogni caso, non segue pedissequamente le indicazioni statunitensi, così come non le seguirà nemmeno il Giappone. Tuttavia, India e Giappone hanno sufficienti motivi di rivalità con la Cina. Un conto è l’interesse a scambi economici e commerciali fra loro, un altro la rivalità sempre latente che renderà India e Giappone partecipi – in sostanza e per un lungo periodo – del suddetto cordone. Non scordiamoci, come esempio storico significativo, i collegamenti tra grandi imprese americane e tedesche, che continuarono a sussistere (magari in sottotono) anche durante lo scontro “all’ultimo sangue” tra Usa e Germania nella seconda guerra mondiale.

In definitiva, l’intenzione americana è di bloccare l’espansione cinese nella “zona-mare” per orientarla verso la parte continentale. A sud, la Cina conta su tradizionali buoni rapporti con il Pakistan. Mi sbaglierò, ma credo che il progetto obamiano (sempre un nome per una strategia di dati centri dominanti) di ritirarsi dall’Afghanistan – progetto che lascia più che perplessi i fautori della vecchia strategia – abbia come obiettivo di medio periodo di spingere la Cina verso la zona centro-asiatica dove si scontrerebbe con la Russia (evento che sussiste già in parte nel Kazakistan, almeno a livello economico). E’ indubbio che le dirigenze attuali cinese e russa comprendono il significato delle mosse statunitensi e hanno consapevolezza dell’interesse di non breve momento a collaborare per sventarle e non cadere nella “trappola”. Tuttavia, non si può sapere se, alla lunga, non prevalgano vere esigenze di espansione – indispensabile per qualsiasi potenza effettivamente decisa a lottare per la supremazia – con creazione di attriti russo-cinesi in quella determinata area. Questa almeno, io credo, la speranza degli Usa della neostrategia. La stessa speranza è nutrita per possibili ulteriori contrasti tra le due aspiranti potenze a nord, in area siberiana, dove è già in atto una certa penetrazione cinese (almeno a livello di popolazione). In definitiva, si vorrebbero frustrare le possibilità di espansione nell’est e sud-est marittimo affinché la Cina si concentri nell’ovest (da nord a sud) continentale. Che poi a tali manovre arrida il successo dipende da fattori che, nel lungo periodo, sono difficilmente prevedibili nel loro reale andamento. Però, intanto, contano le intenzioni.

 

4. A dir la verità, per quello che si sa, nella zona del Pacifico gli Usa avrebbero soprattutto spostato la parte principale della flotta, sintomo appunto degli obiettivi sopra brevemente indicati. Per il momento – stante anche il progetto di ritiro dall’Afghanistan, che renderebbe problematico pure il controllo (non so quanto effettivo o parziale) del Pakistan – non mi sembra sia previsto alcuno scontro militare con la Cina. Si tratta di strategia di condizionamento, di pressione, di creazione di forti ostruzioni a est e di liberazione di canali di scorrimento a ovest in merito al “fluire” futuro dell’energia cinese in cerca di rendersi potenza primaria; senza appunto mettere in preventivo per un bel po’ di tempo scontri diretti e di tipo bellico, anzi continuando in una serie di semplici punzecchiature sempre poi in ricomposizione con trattative nemmeno troppo difficoltose o lunghe.

Più complesso e difficile da interpretare mi sembra invece l’insieme delle mosse che gli Usa stanno compiendo nella zona “atlantica” (o “occidentale”), specialmente in Europa, con l’importante “appendice” (di fatto, ben più di questo) nord-africana, medio-orientale e fino all’Iran ecc. Qui si tende ad usare quelli che ho indicato quali “sicari”. L’impegno diretto è solo di sostegno; un sostegno comunque pesantissimo come quello apportato contro la Libia, dove solo apparentemente hanno agito Inghilterra e Francia, più l’Italia ed un minore corteggio di paesi collegati nella Nato. Senza l’aiuto militare statunitense, non sarebbe stato raggiunto alcun effettivo risultato. Tuttavia, si tratta di impegno meno diretto e sostanziale. Si chiacchiera pure di minore importanza attribuita al patto militare atlantico, in realtà si constata proprio il contrario, il suo rafforzamento; e probabilmente si stanno potenziando una serie di basi, non escluderei anche in Italia.

Si sono patrocinati, e di fatto orientati, i vari sommovimenti nei paesi arabi del nord Africa poiché vi era bisogno di “nuovi strumenti” (governi riverniciati almeno nella forma e nelle metodologie d’intervento al loro interno e all’estero) per affrontare una strategia comportante mutamenti rilevanti, ancora in larga misura coperti, “annebbiati”, per non lasciar capire dove in effetti ci si sta indirizzando. A dire il vero, nemmeno sembrano esistere disegni ben precisi e perseguiti senza mai deviare. Tutto il contrario; si tratta della strategia del “liquido”. Immaginate un’area pavimentata con lastre di marmo solcate da canalicoli che s’incrociano formando una rete. Il pavimento deve essere appena leggermente inclinato verso la parte dell’area che è l’obiettivo finale (mettiamo sia la Russia). Si comincia a versare il liquido – non acqua che scorre troppo velocemente e sfugge più facilmente ad ogni controllo, qualcosa di un po’ oleoso e vischioso come può essere appunto una strategia d’attacco implicante l’uso di “sicari” relativamente inetti che, lo si mette in conto, creeranno dati fastidi con la loro improntitudine – nella parte appena un po’ più alta della pavimentazione, in genere la più lontana da quella rappresentante l’“obiettivo”.

Il liquido scorre e, per conto suo e malgrado la vischiosità, prenderebbe vie traverse e canali svariati che potrebbero mettere in difficoltà l’agente strategico, rendendo del tutto inutili i suoi desideri e sforzi di imprimergli una data direzione. Detto agente colloca – soprattutto nei punti di snodo dei canalicoli intersecantisi in rete, e decidendo volta per volta – dei sassolini che cercano (perché non si è mai sicuri al 100%) di ostruire uno o più d’essi in modo da dirigere il liquido verso altri, preferiti perché sembrano più confacenti ai bisogni e alla capacità d’intervento dello stratega, pur se magari ritardano l’avvicinamento del liquido alla zona/obiettivo. Ci si può eventualmente aiutare con degli stecchetti rigidi per raschiare e rigare certi canalicoli (magari nel loro fondo si è accumulata un po’ di sabbia che rischia di far impantanare il liquido o di spingerlo in altro alveo) in modo da meglio instradare il liquido (strategia) lungo la via ritenuta più appropriata – per modalità e/o tempi, ecc. a seconda dei casi – al raggiungimento del “punto finale” mirato fin dall’inizio. Quel punto finale è infatti l’unica scelta decisa in anticipo, mentre i canalicoli utilizzati per raggiungerlo dipendono dalla contingenza del verificarsi di vari eventi nel percorso (tempo storico) di avvicinamento. E’ abbastanza chiaro?

E’ appunto nella zona a ovest della Russia che si sta soprattutto sviluppando questa strategia “liquida” da parte degli Usa di Obama. La Russia deve essere considerata il “punto finale” che il “liquido” dovrà raggiungere. Evidentemente si ritiene fallita – non so se completamente o parzialmente – l’operazione strategica iniziata già negli anni di Breznev, cui contribuì in qualche misura (non decisiva, è ovvio) il sedicente “eurocomunismo” (“tradimento” del Pci berlingueriano, viaggio di Napolitano negli Usa, eliminazione di Moro, ecc., tutti argomenti già da me trattati), e conclusasi con l’avvento di Gorbaciov e la “devastazione” compiuta da Eltsin. Si sta oggi ricorrendo a manovre più complesse e ben più lunghe, che hanno intanto richiesto la risistemazione di alcuni regimi arabi detti “moderati”, cercando pure di stabilire alleanze, per il momento in modo molto coperto (e incerto per i rischi cui si va incontro), con parti dell’islamismo; il che implica un assai elastico, ancora più mascherato e prudente (e del tutto parziale, forse anche ingannevole), sganciamento dall’appoggio ad Israele, che nella vecchia strategia era totale, scoperto e senza tentennamenti.

Faccio un esempio. Non penso che gli Usa abbiano programmato la vittoria del candidato musulmano in Egitto; nemmeno si sono però fermamente opposti ad essa. Useranno “sassolini” ed eventuali “stecchetti” per ben indirizzare le mosse egiziane – in appoggio a quelle turche, dove la strategia del “liquido” è apparsa in tutto il suo fulgore con un cambio rapidissimo della posizione assunta dal paese in politica estera, posizione che in precedenza aveva indotto a credere in un suo schieramento anti-atlantico – lungo il “canalicolo”, ostruito di “sabbia” (contrarietà cinese ma soprattutto russa, la cui dirigenza non può non capire qual è il “punto finale” della “pavimentazione”), diretto verso la Siria. E così per tutte le altre mosse: verso l’Iran, e via dicendo.

 

5. Centrale è però in quest’area “occidentale” l’Europa e il suo controllo per ben orientarla; sia con riguardo ai paesi euro-occidentali (decisivi perché più sviluppati e forti, o meno deboli) sia nei confronti di quelli euro-orientali. Tuttavia, anche in tal caso, anzi soprattutto in tal caso, penso si debba attendere l’elezione del presidente americano affinché si evidenzino con maggiore chiarezza le eventuali mosse della strategia Usa; sempre dando per scontato, credo, che vi saranno contraddizioni tra “vecchi” e “nuovi” centri di elaborazione di quest’ultima (anzi, di varie prospettive strategiche o quanto meno di versioni decisamente differenziate della strategia generale atta a mantenere la supremazia pur in presenza dell’innesco di una fase multipolare).

Nei paesi mediterranei – Grecia, Spagna, ma soprattutto Italia, il più importante d’essi, in specie come base militare e ancor più politica e di conduzione di manovre varie verso le zone mediorientali e orientali – siamo già nel pieno dello sviluppo di neostrategie “liquide”, basate sul caos e pantano come già detto in molti altri articoli. Comunque, trattandosi del paese in cui viviamo e “agiamo” – purtroppo solo in direzione della teoria e dell’analisi di fase – dovremo dedicare al nostro paese una particolare attenzione. Per il momento, diciamo solo che, con il nuovo governo, si vorrebbe realizzare l’obiettivo del disfacimento totale del quadro politico, dimostratosi del tutto inefficiente dopo circa vent’anni di tentativi di renderlo adeguato al predominio statunitense. La volontà di mantenere quest’ultimo ha attualmente bisogno di un mutato atteggiamento degli Usa nei confronti dell’Unione Europea. Inizialmente, essa è stata vista quale prolungamento dell’Alleanza Atlantica; e, in fondo, ha agito abbastanza bene in tal senso. Gli organismi UE sono serviti assai poco all’unità europea (anche la trovata dell’euro non è stata “mirabile” al proposito); la loro efficacia si è invece manifestata nel rendere quest’area, pienamente dissestata in termini politici, una parte importante della sfera d’influenza del paese d’oltreatlantico.

Oggi, non si molla certo la presa – la nomina dell’“agente americano” Draghi alla BCE, favorita pure dall’ormai piatto complice Berlusconi, è estremamente indicativa – ma si intende sviluppare meglio la strategia. E’ indispensabile creare maggiore zizzania tra i vari paesi europei oltre a indebolire il loro quadro politico interno; soprattutto impedendo ogni e qualsiasi velleità tedesca – che mi sembra francamente ben lontana da una sua concreta manifestazione – di mettere a frutto la sua buona potenza economica, mentre quella politica permane in situazione di notevole deficit. Il caos in Europa è il riflesso di quello esistente all’interno dei vari paesi dell’area; e l’Italia è appunto fra i più presi di mira. Il governo Monti serve precisamente a creare questo caos (e pantano), non a risolvere crisi di alcun genere; e sta rispondendo in pieno ai progetti statunitensi obamiani con l’appoggio del “nuovo duo Savoia-Badoglio”. Le speculazioni di Borsa, l’altalena dell’enfatizzato (al limite del ridicolo) spread, s’inseriscono nel quadro di un’azione governativa che sta attuando i piani caotici degli Usa; appoggiati, per motivi chiariti più volte, dai parassiti industrial-finanziari italiani, quelli riunitisi pochi giorni fa a Cernobbio (e altri lì assenti), i quali accarezzano perfino l’idea della sospensione delle elezioni a meno che non venga garantita la prosecuzione della “devastazione” attuata dal governo in carica. In ogni caso, continueremo l’analisi interna, ma anche quella delle varie fasi attraversate, di volta in volta, dalla situazione internazionale, dove per il momento sembrano avere l’iniziativa gli Stati Uniti; tuttavia, nulla esclude difficoltà future e mutamenti al momento di difficile previsione. L’unica cosa sicura è il crescente caos un po’ dappertutto; ma specialmente a ovest della Russia (Europa e parte dell’area africana, medio-orientale, ecc.). Per quanto riguarda il Pakistan, il centro-Asia, ecc. – dove gli Usa sperano nel futuro conflitto fra Russia e Cina se funziona il cordone a est e sud di quest’ultima – i tempi sono comunque più lunghi e i risultati più incerti. In ogni caso, sembra abbastanza chiaro che la neostrategia Usa considera, almeno nei tempi meno lunghi, la Russia quale avversario principale, il primo da “contenere” e mettere in isolamento e difficoltà. A tal fine, la strategia in questione spinge sull’acceleratore soprattutto nella nostra area; e l’Italia – data la sua posizione geografica, e ancor più la sua debolezza “strutturale” di “nazione incompiuta”, attraversata da spinte centrifughe, da ostilità interregionali, ecc. – sta così diventando un “caso di scuola” per la creazione del caos e del pantano.