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11/9, 11 anni dopo: i retroscena dietro le menzogne dell’Impero

di Enrica Perucchietti - 12/09/2012

Fonte: ildemocratico


Come ogni anno, da 11 anni, l’11 settembre l’America si ferma per ricordare le vittime del WTC. A New York si ritrovano migliaia di persone per pregare, mentre tutto il mondo si stringe con un abbraccio virtuale attorno ai parenti delle vittime.

Ma in questi 11 anni, molte cose sono cambiate.

Il mondo è cambiato e con esso gli equilibri geopolitici. Il Medio Oriente ancora oggi risente dei successivi avvenimenti che hanno trascinato Afghanistan e Iraq nella polvere come conseguenza degli attacchi terrostici.

Le motivazioni dietro la guerra in Iraq

«Se l’Iraq avesse raggiunto con Washington un accordo simile a quello dei sauditi, Saddam avrebbe potuto dettare le proprie condizioni per il governo del paese e magari espandere la sua influenza in tutta quella parte del mondo1» raccontava nel 2004 John Perkins, ex sicario dell’economia.

I “sicari dell’economia” sono un’élite di economisti ben retribuiti che hanno il compito di trasformare la modernizzazione dei Paesi in via di sviluppo in un progressivo e continuo processo di indebitamento e asservimento agli interessi delle multinazionali, delle lobby e dei governi più potenti al mondo, USA su tutti: sono i principali artefici dell’Impero di cui sono chiamati a disegnare la vera struttura politica e sociale. Il lavoro di questi professionisti avviene ovviamente dietro le quinte, falsando bilanci e proiezioni per portare i Paesi in via di sviluppo all’indebitamento cronico e dunque all’asservimento.

John Perkins era uno di essi. Reclutato giovanissimo dall’NSA decise di entrare a far parte della MAIN come consulente, o meglio come “sicario dell’economia”, arrivando ai vertici dell’azienda.

Prima di affrontare una graduale presa di coscienza, Perkins ha lavorato per dieci anni all’interno di questo sistema. Da insider ha successivamente rivelato i meccanismi della globalizzazione. Egli ha infatti toccato con mano il lato più oscuro della globalizzazione in Indonesia, Iraq, Arabia Saudita, Panama, rendendosi protagonista delle macchinazioni e delle conseguenze che hanno avuto luogo in questi Paesi. Si è dunque reso conto, sul campo e in prima persona, di come la vecchia repubblica americana stava assumendo quei contorni del “nuovo impero globale” di cui i vari Kissinger, Rockefeller, Brzezinski, Bush, e gli alleati europei fanno un gran parlare, auspicando la creazione di un Nuovo Ordine Mondiale:

A Washington, non importava che Saddam Hussein fosse un despota sanguinario, interessavano semmai i vantaggi che sarebbero potuti provenire da un accordo con il ra‘īs, così com’era avvenuto con la famiglia reale saudita. Allo stesso modo il regime talebano venne tollerato da Washington finchè il Mullah Omar non rifiutò l’offerta dell’UNOCAL per la costruzione dell’Oleodotto, preferenzo (a causa degli evidenti conflitti d’interesse della junta Bush-Cheney) l’argentina Bridas. Solo allora l’Afghanistan divenne un Nemico, un Paese da rimettere in riga per gli interessi dell’Impero.

Racconta Perkins: «L’Iraq era estremamente importante per noi, molto più importante di quanto potesse sembrare. Al contrario di ciò che comunemente si pensa, il valore dell’Iraq non sta soltanto nel petrolio. Sta anche nell’acqua e nella geopolitica. […] Oggi è risaputo che chi controlla l’Iraq possiede la chiave per il controllo del Medio Oriente».2

Tuttavia, alla fine degli anni Ottanta era ormai evidente il fallimento delle trattative con il dittatore iraqueno: Saddam non aveva intenzione di farsi “abbindolare” da Washington, né di sottoscrivere alcuna forma di contratto. Ciò non poteva che suscitare imbarazzo alla Casa Bianca, contribuendo a diffondere un’immagine di debolezza dell’allora presidente G. H. Bush, alla luce delle ripercussioni mediatiche catastrofiche successive all’invasione violenta di Panama e all’arresto di Manuel Noriega.

Il Pentagono inoltre non poteva permettersi di invadere un altro Paese senza un motivo valido: non poteva permettersi un’altra Panama. Mentre i falchi americani cercavano una via d’uscita, fu lo stesso ra‘īs a farsi autogol, invadendo il 2 agosto 1990 il Kuwait: il 17 luglio precedente, in diretta televisiva, aveva accusato Emirati Arabi e Kuwait di superare deliberatamente i tetti di estrazione del greggio al fine di danneggiare economicamente l’Iraq.

Bush ne approfittò accusando pubblicamente Saddam di violazione del diritto internazionale.

Pochi si resero conto dell’ipocrisia di quell’atto d’accusa: meno di un anno prima il Pentagono aveva fatto lo stesso invadendo illegalmente e in modo unilaterale Panama e trascinando negli USA Noriega.

Eppure quando Bush ordinò di attaccare l’Iraq e inviò cinquecentomila soldati statunitensi come parte della forza internazionale per liberare il Kuwait, l’indice di gradimento di Bush schizzò al 90%, segno che gli americani avevano la memoria breve ed erano facilmente manipolabili. Era iniziata la Prima Guerra del Golfo3, la più potente azione militare alleata dal 1945 in poi.

Le perdite tra le milizie irachene furono incalcolabili, tra i 20 mila e le 100 mila unità. Per timore che la situazione sul suolo iraqueno degenerasse, Bush si mantenne al mandato ONU, senza rovesciare il regime di Saddam.

Per questo lo stratega polacco, poi mentore di Obama, Zbigniew Brzezinski nel suo saggio L’ultima Chanche, in cui stila le pagelle dei tre Presidenti americani Bush I, Clinton e Bush II, per quanto promuova a pieni voti solo Bush padre, sottolinea l’errore strategico nel non aver fatto capitolare subito Saddam nel 1991 quando ve n’era l’occasione: in tal modo la Casa Bianca avrebbe potuto sfruttare al meglio a suo favore l’intervento in Iraq. Brzezinski osserva infatti che: «La decisione di andare in guerra all’inizio del 1991, di annoverare perdite tra le proprie truppe, di ottenere con la forza un risultato alla fine rappresentò un test cruciale sul personaggio Bush e sulla sua leadership. Ma le conseguenze geostrategiche di questo personale trionfo si rivelarono più problematiche. Saddam fu sconfitto e umiliato, ma non privato del proprio potere. Il malessere della regione continuò a crescere»4.

Per questo Desert Storm viene considerata dallo stratega polacco il “peccato originale” e il pesante fardello che Bush padre tramandò al figlio passando per l’amministrazione Clinton. Come spiega Brezezinski, la più grande vittoria “militare” di Bush si è rivelata anche anche «il più inconcludente dei suoi esiti politici5». Bush costrinse infatti l’Iraq a rinunciare alle armi di distruzione di massa ed ai missili a medio-lungo raggio, evitò di abolire le sanzioni economiche imposte nell’agosto 1990, per rendere impopolare il regime e per ostacolarne il riarmo. Infine, come da volere del Pentagono, i paesi della regione acconsentirono ad ospitare le basi statunitensi, che servirono alle aviazioni di USA ed UK per imporre all’Iraq due no fly zones (una nel nord ed una nel sud del Paese). Ma non riscì ad annientare Saddam.

Saddam era stato sconfitto ed umiliato ma non era stato detronizzato né tantomeno ucciso. Anzi, «Lo stesso Bush ricorda di essersi sorpreso quando apprese che Saddam aveva ancora più di venti divisioni a sua disposizione, compresa al Guardia Repubblicana (le unità d’élite). Ammise anche di essere rimasto “contrariato” dal fatto che Saddam fosse ancora al potere, ma questo non ci dice molto riguardo a quale sforzo – se ce ne fu uno – sia stato impiegato per ottenere un esito differente. In ogni caso, la questione di Saddam ancora al potere infastidiva gli americani, ed esiste un tragico legame tra ciò che non accadde nell’inverno del 1991 e ciò che accadde nella primavera del 2003. Se l’esito della prima Guerra del Golfo fosse stato differente, non sarebbe stato necessario che un altro presidente americano andasse in guerra in Iraq»6.

La dottrina della guerra “preventiva”

Gli eventi sarebbero precipitati proprio all’indomani dell’11/9: George W. Bush avrebbe deciso di inviare una seconda coalizione nel 2003 in Iraq per rovesciare il regime di Saddam, ufficialmente per la presenza di armi di distruzione di massa che, come la storia ha confermato, non esistevano affatto.

Anche in questo caso, come accaduto successivamente con il Colonnello Muhammar Gheddafi, le motivazioni che hanno spinto gli USA a invadere l’Iraq erano ben diverse da quelle sbandierate dal Pentagono.

Inoltre, come dimostrato in seguito da numerosi ricercatori, i piani di invasione di Afghanistan e Iraq erano già pronti dal 2000 e l’attacco al World Trade Center venne semplicemente inteso e sfruttato come “un’occasione” come ammisero senza giri di parole Bush-Cheney-Rice-Rumsfeld.

Un’occasione per espandere l’impero americano, un’occasione personale per la junta Bush-Cheney per arricchirsi. Un ulteriore tassello nella costituzione del famigerato Nuovo Ordine che Bush padre aveva invocato a partire dall’11 settembre 1990.

L’11/9 tutto cambia.

La tragedia viene manipolata per condizionare e terrorizzare la popolazione americana (e non solo), per introdurre un sistema draconiano di limitazioni alla privacy (il Patriot Act, poi confermato anche dal “pacifista” premio nobel Obama), per espandere i confini dell’impero USA, per ridisegnare gli equilibri in Medio Oriente. Per giustificare due guerre poi divenute decennali e disastrose. Per instillare nella popolazione il concetto di “guerra preventiva”, divenuta poi nota come “dottrina Bush”.

Bush avrebbe così alluso alla nuova teoria della guerra preventiva nel giugno 2002 quando, a margine della consegna dei diplomi a West Point affermò che «La sicurezza dell’America, ha bisogno che tutti gli americani […] siano pronti ad agire preventivamente7».

Eppure quella che sarebbe poi diventata una vera e propria “dottrina” della forza, era già stata anticipata nel Programma per la sicurezza nazionalepubblicato poi nel settembre 20028 che si tramutò in breve nella politica estera ufficiale adottata dagli USA.

Tale programma, noto come NSS 2002 sosteneva, infatti, la necessità di «agire contro […] le minacce emergenti prima che prendano piena forma9» e, per la precisione, spiegava la necessità del ricorso all’azione in quanto «I nostri nemici hanno dichiarato apertamente di star cercando di procacciarsi armi per la distruzione di massa, e abbiamo prove per ritenere che lo stiano facendo con determinazione. Gli Stati Uniti non permetteranno che questi loro tentativi riescano. Costruiremo difese antibalistiche ed altri mezzi difensivi.
Coopereremo con altre nazioni per bloccare, contenere e vanificare i tentativi da parte dei nostri nemici di acquisire tecnologie pericolose.
E, come dicono i principi del senso comune, oltre a quelli dell’autodifesa, l’America agirà concretamente contro tali minacce emergenti prima che esse abbiano preso pienamente forma.
Non possiamo difendere l’America e i suoi amici semplicemente sperando che vada tutto bene. Dobbiamo quindi essere preparati a sgominare i piani dei nostri nemici, utilizzando i migliori servizi di intelligence e procedendo con fermezza.
La storia giudicherà duramente quanti avranno visto questo pericolo imminente, ma non avranno agito.
Nel nuovo mondo su cui ci siamo affacciati, l’unica strada per la salvezza è la strada dell’azione»10.

Alla luce degli intenti espressi dal documento, non ci si deve meravigliare se nel NSS 2002 troviamo sottolineato che «Gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno cambiato sostanzialmente il contesto delle relazioni tra gli Stati Uniti e gli altri centri principali del potere globale, aprendo nuove e vasteopportunità11».

Un evidente conflitto di interessi: Philip Zelikow

Un altro celebre sostenitore della guerra preventiva è il sionista Philip Zelikow che si è occupato nientemeno che della direzione esecutiva della Commissione d’indagini sull’11 settembre.

Le posizioni dottrinarie di Zelikow aiutano a comprendere meglio quella che da molti ricercatori è stata giudicata un opera di insabbiamento da parte della Commissione sulla verità riguardo agli attentati.

Fu proprio Zelikow, su esplicito mandato di Condoleeza Rice a riscrivere il testo del Programma per la sicurezza nazionale, in un primo tempo redatto dal responsabile della programmazione politica del dipartimento di stato, Richard Haas. Stando alla testimonianza di James Maan, la Rice si aspettava infatti «qualcosa di più audace12» e per questo affidò al “suo vecchio collega” Zelikow il compito di riscrivere completamente il documento.

Come ha dimostrato ancora David Ray Griffin, la «vicinanza personale e ideologica di Zelikow con la Casa Bianca di Bush-Cheney-Rice13» emerge, ancora prima che nelle indagini della Commissione sull’11/9, in un saggio sul “terrorismo catastrofico” di cui fu coautore nel 1998.

In questo saggio, pubblicato dunque tre anni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, Zelikow e i colleghi Ashton Carter e John Deutch scrivevano: «se il dispositivo che esplose nel 1993 sotto il World Trade Center fosse stato un ordigno nucleare, o avesse realmente diffuso un virus letale, l’orrore e il caos che ne sarebbero derivati avrebbero trasceso la nostra capacità di descrizione. Un tale atto di terrorismo catastrofico avrebbe rappresentato uno spartiacque nella storia americana. Avrebbe comportato perdite di vite umane e danni alle cose senza precedenti in tempo di pace e avrebbe minato il fondamentale senso di sicurezza degli Stati Uniti, come accadde con i test nucleari sovietici nel 1949. Come per Pearl Harbor, questo evento avrebbe diviso il passato e il futuro in un prima e un dopo. Gli Stati Uniti avrebbero potuto rispondere con misure draconiane, ridurre le libertà civili, inasprire le misure di sorveglianza nei confronti dei cittadini, ricorrere alla detenzione preventiva dei sospetti, e utilizzare la violenza fino in fondo»14.

Esattamente quello che è stato fatto da Washington con l’introduzione delPatriot Act, confermato come abbiamo visto, nel 2011 da Obama15.

In ogni caso le affermazioni di Zelikow avrebbero dovuto sollevare dei dubbi più che legittii sulla sua obiettività in quanto direttore della Commissione sull’11/9. Egli cita indirettamente La Grande Scacchiera di Brzezisnki prevedendo che uno scenario simile a Pearl Harbor avrebbe potuto consentire alla Casa Bianca di introdurre delle restrizioni sulla privacy e più in generale delle misure “draconiane” per inasprire la sorveglianza dei cittadini e di tutti coloro che si apprestino a entrare sul suolo americano.

Per questo evidente conflitto di interessi, Griffin si è spinto addirittura a sostenere che Zelikow «avrebbe potuto rientrare tra le fila dei responsabili16» dell’11/9, concludendo che: «Sia come sia, considerati i trascorsi di Zelikow, dovremmo avere ottime ragioni a priori per sospettare che, se l’amministrazione Bush fosse stata responsabile degli attacchi, questo fatto sarebbe stato coperto dal rapporto della Commissione sull’11 settembre. E se analizziamo nel dettaglio il rapporto in relazione ai fatti accertati in maniera indipendente, è evidente che tali sospetti siano abbondantemente confermati. La mia conclusione è che il rapporto della Commissione sull’11 settembre altro non è che una menzogna di 571 pagine»17.

Una nuova Pearl Harbor

Già nel 1997 Brzezinski aveva infatti capito che era necessario impossessarsi delle risorse di Afghanistan e Iraq nella lotta continua che gli USA hanno intrapreso contro l’Eurasia. Ciò avrebbe però richiesto una massiccia militarizzazione della politica estera e il bisogno di una massiccia opera di propaganda, ovvero la “creazione” del consenso e dell’appoggio nazionale a questa scellerata campagna di militarizzazione.

Se aveva compreso come l’America avrebbe dovuto muoversi sul fronte estero, Brzezinski aveva anche predetto in che modo armare la mano del Pentagono: creando una minaccia nemica enorme, in modo da sconvolgere l’opinione pubblica e piegarla alla propria sete di conquista, così come era successo proprio con l’attacco di Pearl Harbor: «In più, bisogna considerare che l’America sta diventando sempre più una società multiculturale e, in quanto tale, può essere più difficile creare il consenso su questioni di politica estera, tranne che in presenza di una minaccia nemica enorme, diretta, percepita a livello di massa».

Il popolo americano, prima restio a entrare in guerra, si era infatti dimostrato non solo favorevole ma addirittura ansioso di partecipare con secondo conflitto mondiale dopo l’attacco di Pearl Harbor, che aveva provocato un vero e proprio shock collettivo. Quattro anni prima dell’attentato al World Trade Center, Brzezinski invocava così la necessità di creare una nuova Pearl Harbor, in modo da raccogliere il consenso pubblico necessario per la mobilitazione imperialista.

Per legittimare una lunga guerra, infatti, bisognava “armare” la mano al nemico o creare una vera e propria falsa operazione (false flag) che generasse un tale shock collettivo a livello globale da legittimare qualsiasi scelta in campo bellico Washington avrebbe preso.

Seguendo le intuizioni di Brzezinski, per legittimare “la lunga guerra” che la Casa Bianca intendeva intraprendere contro Afghanistane Iraq, era necessario che avvenisse un altro “attacco” come Pearl Harbor. L’11 settembre – che sia stato organizzato dai massimi vertici governativi e militari degli USA, oppure semplicemente “lasciato accadere” – avrebbe offerto l’opportunità che la junta attendeva.

È ancora Brzezisnki infatti a osservare nel 2007 che: «Gli eventi dell’11 settembre rappresentarono un’epifania per Bush [figlio]. Il nuovo presidente riemerse trasformato dopo un solo giorno di isolamento. Da quel momento in poi sarebbe stato il leader risoluto di una nazione in guerra, che affrontava una minaccia al contempo immediata e mortale, il comandante in capo dell’unica superpotenza mondiale. L’America avrebbe agito per proprio conto, senza alcun rispetto per il punto di vista degli alleati. Scossa dal crimine e preoccupata per la propria insicurezza, l’opinione pubblica si strinse intorno al leader»18.

Fu proprio G. W. Bush a fare pressioni – dopo un identico intervento di Dick Cheney – affinché le indagini sull’11/9 venissero limitate il più possibile. A darne notizia fu la CNN che il 29 gennaio 2002 rese pubblico quanto segue: «Il presidente Bush in persona ha chiesto al leader della maggioranza in Senato, Tom Daschle, di limitare le indagini del Congresso sugli eventi dell’11 settembre, secondo quanto hanno riferito alla CNN fonti dello stesso Congresso e della Casa Bianca. La richiesta è stata avanzata nel corso di un incontro privato con i leader del Congresso. Le fonti dicono che è stato Bush a iniziare la conversazione […] chiedendo, al posto della più ampia inchiesta proposta da alcuni deputati e senatori, che solo i servizi d’indagine della Camera e Senato indagassero sulle possibili carenze delle agenzie federali che potrebbero aver giocato un ruolo nel permettere agli attentati terroristici di aver luogo»19.

La motivazione addotta da Bush e Cheney, secondo quanto dichiarato da Daschle, fu che «si sarebbero così sottratti fondi e personale» alla guerra al terrorismo. Nell’intento della Commissione d’indagine vi era infatti la mera constatazione che la passività dell’amministrazione fosse stata una conseguenza della «carenze delle agenzie federali», attribuendo così indirettamente la colpa delle evidenti falle nell’apparato di sicurezza in atto l’11/9 all’operato dell’FBI e dell’Aeronautica.

Questo tentativo di limitare e addirittura ostacolare le indagini, è anche uno dei motivi che hanno spinto negli ultimi undici anni, ricercatori, ex minsitri, addirittura ex capi di Stato, a diffidare della versione ufficiale sull’11/9 e a indagare le cause ma soprattutto le conseguenze che tale tragedia ha avuto sulla scacchiera degli equilibri geopolitici globali.