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Alle soglie dell’infinito

di Francesco Lamendola - 13/09/2012


pioppo tremulo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLA LETTRICE MARIA GRAZIA A.

 

È una giornata caldissima d’estate, di questa estate torrida e interminabile che sembra aver avvicinato l’Africa e averla sovrapposta al nostro continente, in una successione di ondate anticicloniche dai nomi epici e sulfurei: dopo Scipione è arrivato Caronte; dopo Caronte, Lucifero, portando un’atmosfera sempre più greve di umidità e temperature sempre più roventi.

Il caldo si fa sentire fin dal primo mattino; pure, se ci si alza all’alba e si sfruttano le prime due ore di luce, scegliendo i luoghi adatti, è ancora possibile fare delle belle passeggiate in campagna, godendo del silenzio e della solitudine e inebriandosi della sensazione di muoversi in un mondo intatto, fresco e primigenio, come fosse uscito or ora dalle mani del Creatore.

C’è un viale di pioppi, in fondo al paese, che va a perdersi verso i campi nella vasta pianura dai contorni sfuocati per la canicola; di pioppi tremuli: alti, diritti, imponenti, simili a signori feudali di un’epoca trascorsa, che spingono le loro cime a non meno di venticinque metri dal suolo e che protendono i loro rami robusti con forza tranquilla e sovrumana, offrendo rifugio a decine e decine di nidi che si risvegliano al levare del sole con un formidabile concerto di pigolii e poi, mano a mano che l’astro luminoso sale nel cielo, ammutoliscono velocemente, come storditi e sopraffatti dalla calura.

È bello camminare nella loro ombra, avvolti nel loro fresco abbraccio che pare quello di una madre amorevole; è bello levare gli occhi dalla strada e perdersi nella contemplazione di quelle vaste chiome, che, osservate dal basso, luccicano di un verde chiaro quasi metallico e si scrollano incessantemente, per l’agitarsi di milioni e milioni di foglie lucenti sul loro lungo picciolo, come milioni di mani che si agitano e applaudono festose per accogliere il ritorno di un vecchio amico, che mancava da tempo.

E più lo sguardo s’inoltra nei recessi di quelle fronde spesse e folte, mentre l’udito è dolcemente cullato dal suono frusciante delle foglie mosse dal vento, che pare il lontano mugghiare del mare su una spiaggia deserta, creando una suggestione fortissima, più l’anima si sente rapita da sensazioni arcane e introdotta fin sulla soglia dell’infinito, dove si sprofonda e si perde in una dimensione lontana, fuori dal tempo e dallo spazio.

Il fissare a lungo, intensamente, quelle chiome, quelle fronde, quelle foglie tremolanti, più chiare verso le cime, più scure verso il basso, provoca un fenomeno simile a quello che si verifica fissando un punto preciso dell’acqua in movimento, ad esempio lo scorrere di un fiume stando fermi sulla riva o affacciandosi al parapetto di un ponte: qualche cosa di molto simile all’estasi, passando attraverso una forma progressiva di auto-ipnosi.

Ciò accade perché, quando si fissa la chioma di un pioppo che tremola e stormisce nel vento, ciascuna foglia vuole attirare la nostra attenzione; e lo sguardo, cercando di abbracciare migliaia di foglie  contemporaneamente, a un certo punto non vede più le singole foglie, e nemmeno la chioma come un tutto, ma si perde letteralmente e VA OLTRE, si smarrisce in una dimensione ulteriore di cui il pioppo, con i suoi rami, le sue fronde e le sue foglie, è solo la porta, l’occasione per andare oltre le apparenze sensibili e per entrare subitamente nella dimensione nascosta, la dimensione dell’essenziale.

A quel punto non si vedono più né le singole parti, né l’intero, perché il pensiero strumentale e calcolante è stato neutralizzato con le sue stesse armi e quel che resta non è più un vedere nel senso fisico e ordinario del termine, ma un aprirsi al disvelamento delle cose, che si offrono a noi - liberi finalmente dall’ossessione di comprendere in maniera puramente razionale - nella loro palpitante e commovente realtà intima, ridotte a pura luce e pura essenza.

È una grande lezione di libertà e al tempo stesso di umiltà, quella che ci viene offerta allora: non siamo più noi che vediamo, che giudichiamo, che calcoliamo, che approviamo o che rifiutiamo, che speriamo o che temiamo, ma sono le cose che si lasciano vedere, non per quello che noi crediamo di sapere, ma per quello che sono in se stesse; anzi non più le cose - le cose sono solo un mezzo, un tramite - ma l’essenza luminosa che si manifesta attraverso le cose e che si sottrae tanto ai nostri sensi ordinari quanto alla nostra ragione, perché non si rivela se non quando la mente è pacificata e quando l’anima si fa umile e pura.

Come quando lo sguardo si fissa in un punto dell’acqua che scorre, così quando si fissa sulla chioma rigogliosa di un grande albero e cerca di abbracciarne ogni singola foglia, a un certo punto si confonde e si annulla, subentrando ad esso una sorta di seconda vista, la vista interiore, che riesce a penetrare di colpo, sena sforzo, anzi con perfetta naturalezza, proprio là dove mai sarebbe arrivata la facoltà visiva materiale: oltre la superficie del reale.

Quello che noi vediamo, udiamo e percepiamo tutti i giorni, nella nostra vita ordinaria, diamo per scontato che sia la realtà; in effetti, per il fatto stesso di vedere con gli occhi e di udire con gli orecchi, noi istituiamo un dualismo che scinde la realtà in due sfere separate e contrapposte: il soggetto e l’oggetto, il dentro e il fuori, da cui scaturiscono tutta una serie di giudizi sul vero e sul falso, sul presente e sul passato, sul qui e sull’altrove, che sono irrimediabilmente parziali e viziati dal nostro solipsismo.

Per noi, sono vere quelle cose che giudichiamo vere, reali quelle cose che giudichiamo reali; e tendiamo a dimenticare che non possiamo essere noi stessi i garanti della veridicità,  e tanto meno della realtà, di ciò che cade sotto i nostri sensi e su cui formuliamo dei giudizi, perché le cose non sono poste da noi, ma noi e le cose siamo posti da qualcos’altro e dunque noi non siamo in grado di ergerci a legislatori e giudici della realtà, perché ne facciamo parte in maniera organica, al punto che né saremmo presenti a noi stessi, né potremmo formulare giudizi sulle cose, se non fossimo, al pari di esse, la manifestazione di una realtà ulteriore, che fonda e garantisce la realtà e la verità con la quale formiamo un tutt’uno.

Comprendere questo, anzi arrivare a sentirlo, a sentirlo con quel grado di certezza con cui sentiamo di esserci, significa incominciare ad oltrepassare l’ingenua pretesa di essere al centro della realtà e di poterla giudicare dall’esterno, come se tutto fosse transeunte, mutevole e aleatorio, noi soli fossimo necessari e permanenti; e intuire che noi siamo in quanto tutto il resto è, noi sentiamo in quanto tutto il resto sente, noi viviamo in quanto tutto il resto vive.

Pertanto non vi è un albero da osservare, non vi sono delle fronde e delle foglie che noi possiamo guardare e giudicare, ma vi è una realtà totale, della quale noi, l’albero, le fronde e le singole foglie siamo parte, nella quale nessuno si pone come soggetto davanti a un oggetto, ma ogni cosa è nello stesso tempo soggetto e oggetto, ogni cosa è collegata ad ogni altra e ogni cosa possiede in se stessa il proprio centro, la propria bellezza, la propria ragione ultima.

Invece di osservare e giudicare le cose dall’esterno, noi dovremmo accostarci ad esse lasciando cadere i nostri schemi mentali, la nostra arroganza intellettuale, la nostra erronea convinzione di essere agenti su qualcosa che non agisce, ma può solamente partire la nostra azione (del vedere, del misurare, del giudicare); e aprirci alla contemplazione spassionata, non oggettiva e non giudicante, nella quale ogni cosa, dalla singola foglia tra milioni di altre, fino alla più smisurata e remota delle galassie, è unica e irripetibile, preziosa e piena di bellezza, ha in se stessa il proprio significato, non lo riceve da noi, non comincia ad esistere allorché noi la prendiamo in considerazione, ma è parte di una esistenza radicale che comprende anche noi e che si rivela a noi quando siamo capaci di vederla non per quello che noi vogliamo, ma per quello che è in sé e per sé.

Quando la mente inquieta, egocentrica, presuntuosa, finalmente si placa e smette di volgesi qua e là, d’indagare e di giudicare; quando la mente che soppesa, che valuta, che discrimina, si arrende e si abbandona al flusso dell’essere, dove cade la distinzione di soggetto e oggetto, allora e solo allora il reale ci mostra la sua parte invisibile, che, come lo è la parte immersa dei ghiacci galleggianti, rappresenta qualcosa di molto più vasto della realtà visibile, sebbene “vasto” sia un termine inadeguato, perché riflette ancora una visione quantitativa, propria del mondo sensibile.

Tutto questo ci può far comprendere un pioppo dall’ampia chioma che stormisce nel venticello del mattino, all’inizio di una calda giornata d’estate che pare uguale a tante altre e che può dischiuderci, invece, la visione ineffabile, sia pure fugace, della dimensione ulteriore, rivelandoci, in tutta la sua sconvolgente bellezza, l’intensità che pervade il nostro autentico legame con le cose, che pervade quel tutto di cui noi siamo parte con le cose, nelle cose, per le cose.

La riflessione ha luogo in un secondo momento e conferma ciò che l’anima, nel rapimento estatico, ha intravisto da se stessa: la riflessione che ci dice che noi non possiamo, né potremmo sapere nulla, vedere nulla, udire nulla, se fossimo altro dalle cose, se fossimo degli enti distinti che esistono per se stessi, perché allora non saremmo che dei frammenti impazziti, ciechi e ignoranti, che invano si dibattono nella prigione delle apparenze e nel labirinto delle illusioni.

Se così non è; se ci è dato aprirci alla verità delle cose, percepirne la realtà - la realtà intima, sostanziale, non la realtà esteriore ed effimera, buona per il sapere formale e descrittivo che pomposamente abbiamo denominato “scienza” - ciò si deve al fatto che noi, insieme alle cose, le più grandi come le più piccole, le più vicine come le più lontane, quelle visibili come quelle invisibili, siamo parte dell’essere, siamo un flusso che solo per comodità pratica distinguiamo in passato, presente e futuro, in dentro e fuori, in alto e in basso, in qui e là, in questo e quello, introducendo una serie di dualismi che non esistono nelle cose, nel reale, ma soltanto nella nostra mappa concettuale e nel nostro linguaggio.

In pratica, noi siano come la formichina che, arrampicandosi in cima a un sasso, pretende di aver conquistato la sommità del mondo; siamo come i prigionieri della caverna di cui parlava Platone, i quali, vedendo riflesse le ombre alla luce del fuoco, scambiano tali ombre per delle creature reali e credono che la buia caverna sia il mondo intero.

È vero: noi percepiamo le cose solo attraverso i sensi e le forme della nostra mente; ma questo avviene nella vita ordinaria, e corrisponde a un genere di conoscenza delle cose che non ci avvicina all’essenza del reale, ma ce ne allontana, perché parte dal presupposto di uno sdoppiamento della realtà. Nella dimensione profonda dell’essere, al contrario, noi conosciamo le cose a dispetto di quel che i sensi ingannevolmente ci presentano come separato e a dispetto di quel che la mente si illude di aver compreso, soltanto perché è in grado di descriverne la superficie e di riconoscerne le dinamiche esteriori.

L’errore è quello di pensare che la conoscenza che noi chiamiamo scientifica (e che è, spesso, una deformazione della vera scienza) ci offra la sola interpretazione esatta e veritiera del mondo e che ci mostri, inoltre, tutto quello che esiste ed è reale, o che possa, comunque, arrivare a mostrarcelo un giorno, almeno in via teorica; mentre tale conoscenza è esatta e veritiera, entro certi limiti e a determinate condizioni, solo e unicamente nell’ambito della dimensione materiale e quantitativa, che non è la dimensione ultima dell’essere, ma solo quella più esterna e superficiale.

La realtà dell’essere si articola in una serie di piani o di livelli: quello materiale è il più facile da cogliere con i sensi fisici, ma anche il più effimero e contingente; per avere percezione e conoscenza dei livelli superiori, bisogna mettersi in sintonia con l’essere, farsi docili strumenti dell’essere, riconoscersi parte dell’essere: in breve, riconoscere di essere creature e non creatori, aventi il proprio centro e la propria ragione ultima non in se stesse, ma in altro da sé; di essere derivati e non artefici dell’essere.

Il più grande abbaglio, la più grande ubriacatura dell’intelligenza è stata quella dell’idealismo, che ha preteso di ipostatizzare il soggetto, di deificare il contingente, di assolutizzare il relativo; che ha operato una auto-affermazione del pensiero, come se il pensiero degli enti non fosse, sempre e comunque, un atto derivato, limitato e riflesso e come se non vi fosse una assoluta impossibilità, anche sul piano puramente logico, di concepire un pensiero che non provenga dall’Essere in quanto tale, ma che sia, da sé medesimo, creatore dell’essere. Qui c’è un’autentica inversione del giusto modo di porsi del soggetto verso il reale e perfino quella che si potrebbe definire una “contro-iniziazione”, cioè, alla lettera, un capovolgimento deliberato e consapevole della verità dell’essere.

Maestoso, splendente, il pioppo agita le sue innumerevoli foglie come lame di luce  nel chiarore dell’alba, simili alle dita di un suonatore divino che dispieghi per noi le sue musiche ineffabili…