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Per capire le crisi geopolitiche di oggi prendete una mappa

di Robert D. Kaplan - 14/09/2012


Quelli che seguono sono ampi stralci – pubblicati dal Wall Street Journal nella sua edizione dello scorso fine settimana – tratti dal libro di Robert D. Kaplan “The Revenge of Geography: What the Map Tells Us About Coming Conflicts and the Battle Against Fate”, edito da Random House e da ieri nelle librerie americane.

Se volete conoscere la prossima mossa di Russia, Cina o Iran, non leggete i loro giornali né domandate cosa hanno scoperto le nostre spie: piuttosto consultate una mappa. La geografia può rivelare gli obiettivi di un governo tanto quanto le sue riunioni segrete. Più dell’ideologia o della politica interna, ciò che di base definisce uno stato è il punto che occupa sul pianeta. Le mappe colgono gli eventi fondamentali della storia, della cultura e delle risorse naturali. Con il medio oriente in tumulto e una transizione politica turbolenta in Cina, date un’occhiata alla geografia per capirci qualcosa.

In teoria, la geografia, come mezzo per spiegare la politica mondiale, è stata messa in ombra da economia, globalizzazione e comunicazioni elettroniche. Ha un che di alquanto antiquato, come quelle scuole composte da una sola aula. Infatti coloro che pensano alla politica estera come a un’opportunità di trasformare il mondo per il meglio tendono a identificare qualsiasi tipo di valutazione su base geografica con il fatalismo, con la mancanza di immaginazione. Tutte sciocchezze. Gli elitari cesellatori dell’opinione pubblica possono pure essere in grado di attraversare oceani e continenti nel giro di poche ore, cosa che permette loro di parlare a briglia sciolta del mondo “piatto” sotto di loro. Ma se il cyberspazio e i mercati finanziari non conoscono confini, i Carpazi continuano a separare l’Europa centrale dai Balcani, creando così due modelli di sviluppo assai diversi, e l’Himalaya si trova ancora tra India e Cina, torreggiante memento di due civiltà incredibilmente diverse. La tecnologia ha ridotto le distanze, ma è ben lungi dal non riconoscere la geografia. Anzi, ha aumentato il valore di territori contesi. Come osserva Paul Bracken, studioso a Yale, la “dimensione finita della terra” è ora di per sé una forza dell’instabilità. Il continente eurasiatico è diventato una sfilza di gittate missilistiche che si sovrappongono, con folle che vivono in mega-città e che i mass media caricano a dovere riguardo pezzetti di terra in Palestina e nel Kashmir. Per quanto possa sembrare controintuitivo, la maniera giusta per cogliere ciò che sta accadendo in questo mondo di notizie istantanee consiste nel riscoprire un elemento basico: la rappresentazione spaziale delle divisioni, delle possibilità e, ancora più importante, dei vincoli dell’umanità. La mappa ci conduce alle domande corrette.

Perché, per esempio, i titoloni strillati sulle isole del Mar cinese meridionale? In quanto anticamera del Pacifico verso l’oceano Indiano, questo mare collega il medio oriente, con le sue ricchezze energetiche, alle lussuose vite del ceto medio emergente in Asia orientale. Si ritiene anche che questo mare contenga riserve significative di idrocarburi. La Cina lo considera un po’ nello stesso modo in cui gli Stati Uniti vedono i Caraibi: una propaggine di acqua azzurra della terraferma. Anche il Vietnam e le Filippine sono a ridosso di queste acque preziose, il che spiega perché assistiamo, a opera di tutte le parti coinvolte, alla politica del rischio calcolato in salsa marittima. Non si tratta di una battaglia di idee ma per lo spazio fisico. Lo stesso può dirsi per la disputa infinita tra Giappone e Russia rispetto alle isole Curili del sud. Ancora: perché il presidente Vladimir Putin desidera zone cuscinetto in Europa Orientale e nel Caucaso, proprio come gli zar e i commissari del popolo avevano fatto prima di lui? Perché la Russia costituisce ancora un enorme spazio continentale privo di protezioni quali catene montuose e fiumi. Il neo imperialismo di Putin è l’espressione di una profonda insicurezza geografica. O ancora, considerate il decennio trascorso dall’11 settembre, che non può essere compreso se si ignorano le montagne e i deserti di Afghanistan e Iraq. Le montagne dell’Hindu Kush separano l’Afghanistan settentrionale, popolato da tagichi e uzbechi, dall’Afghanistan meridionale e orientale, abitato da pashtun. I talebani sono estremisti sunniti come al Qaida, ai cui appartenenti offrirono rifugio nei giorni che precedettero l’attacco alle Torri gemelle, ma più che questo, sono un movimento nazionale pashtun, un prodotto dell’aspra divisione geografica dell’Afghanistan. Se ci spostiamo verso est, scendiamo dall’alto plateau dell’Afghanistan alla pianura dell’Indo, coperta da un velo di vapore. Il cambiamento di terreno però è talmente graduale che, invece di essere effettivamente separati da un confine internazionale, Afghanistan e Pakistan costituiscono lo stesso mondo indo-islamico. Da un punto di vista geografico è alquanto ingenuo pensare che la diplomazia americana o l’attività militare da sole possano dividere queste terre che per moltissimo tempo sono state interconnesse e farle diventare due stati che funzionano bene.

Per quel che riguarda l’Iraq, fin dall’antichità il nord montagnoso e il sud e il centro fluviali sono sempre stati in lotta, fino all’ultimo sangue. Cominciò nel mondo antico, con un conflitto tra sumeri, accadi e assiri. Oggi gli antagonisti sono sciiti, sunniti e curdi. I nomi dei gruppi sono cambiati ma non la cartografia della guerra.
Anche gli Stati Uniti non fanno eccezione a questo tipo di analisi. Perché siamo la principale potenza al mondo? Gli americani tendono a pensare che dipenda da chi siamo. Io aggiungerei che ha a che vedere anche con il luogo in cui ci troviamo: ovvero nell’ultima parte ricca di risorse della zona temperata, dove si insediarono gli europei all’epoca dell’Illuminismo, dotata della rete di vie di navigazione interna più estesa al mondo e protetti da oceani e dall’Artide canadese. Persino una crisi così apparentemente moderna come quella che spiega gli attuali affanni finanziari europei è un’espressione di immutabile geografia. Non è un caso se le capitali dell’odierna Unione europea (Bruxelles, Maastricht, Strasburgo, l’Aja) aiutarono a costituire il cuore dell’impero di Carlo Magno nel IX secolo. Con la fine del mondo classico della Grecia e di Roma, la storia si spostò a nord. Qui, nei fertili terreni delle protette radure disboscate e lungo una costa frastagliata aperta sull’Atlantico, l’Europa medievale sviluppò i rapporti di potere informali del feudalesimo e imparò a sfruttare le tecnologie, come per esempio i caratteri mobili per la stampa. Certamente di Europa ce ne sono molte, ciascuna con i propri diversi modelli di sviluppo economico, i quali sono stati influenzati dalla geografia. Oltre al regno di Carlo Magno, esiste anche la Mitteleuropa, ora dominata dalla Germania unita, che può vantare poche barriere fisiche all’ex est comunista. I lasciti economici degli imperi prussiano, asburgico e ottomano influenzano ancora questa Europa, e anche loro, a propria volta, furono forgiati da un terreno caratteristico.

Né è un caso che la Grecia, nell’angolo sud-orientale dell’Europa, sia il componente più in difficoltà dell’Ue. La Grecia è il luogo dove si sovrappongono i Balcani e il mondo del Mediterraneo. E’ stata la figliastra diseredata del dispotismo bizantino prima e turco poi, e le conseguenze di questa sfortunata sorte geografica riecheggiano fino a oggi sotto forma di una dilagante evasione fiscale, una fondamentale mancanza di competitività e una politica paternalistica da bar.
Per quel che riguarda la sfida strategica che la Cina rappresenta per l’occidente, faremmo bene a non concentrarci troppo solo su economia e politica. La geografia fornisce una lente ben più ampia. La Cina è grande in un senso: la popolazione, le aziende commerciali ed energetiche e l’economia nella sua totalità stanno creando zone di influenza in parti attigue dell’estremo oriente russo, dell’Asia centrale e del sud-est asiatico. Gli stessi leader cinesi però vedono spesso il loro paese come relativamente piccolo e fragile: all’interno dei suoi confini vi sono consistenti minoranze di tibetani nel sud-ovest, turchi uiguri nell’ovest e popolazioni di etnia mongola a nord. Sono queste le aree dove risiedono le minoranze (elevati altipiani che di fatto circondano il nucleo etnico dei cinesi Han) e dove si trovano gran parte delle riserve di acqua dolce, di idrocarburi e altre risorse naturali della Cina. L’occidente serenamente dice alla leadership cinese di liberalizzare il sistema politico. I leader cinesi però conoscono la loro geografia e sanno che la democratizzazione, anche nelle forme più lievi, minaccia di scatenare la furia etnica. Poiché le minoranze etniche in Cina vivono in regioni specifiche, l’eventualità che il paese perda alcune aree non è del tutto fuori questione. Questo è il motivo per cui Pechino riversa immigrati Han nelle grandi città del Tibet e nella provincia occidentale dello Xinjiang, sebbene conceda piccole dosi di autonomia alla periferia e continui a stimolare artificialmente le economie in quelle zone. Tali politiche possono anche essere non sostenibili, ma provengono, in definitiva, da una geografia continentale ampia e varia, che si estende al Pacifico occidentale, dove la Cina si ritrova bloccata da una catena di alleati navali degli Stati Uniti – dal Giappone all’Australia. E’ per ragioni di Realpolitik geografica che la Cina è decisa a portare Taiwan sotto la propria sovranità.
In nessun altro luogo al mondo come in medio oriente, dove i nostri vari riflessi ideologici hanno avuto la meglio su di noi negli ultimi anni, è più urgente che la geografia permei la politica statunitense.

Mentre alcuni continuano a premere per un intervento in Siria, è utile ricordare che lo stato moderno che porta quel nome è un fantasma geografico di ciò che fu dopo la caduta dell’impero ottomano, che includeva quelli che sono oggi Libano, Giordania e Israele. Persino quella vasta entità era più una vaga espressione geografica che un luogo ben definito. Nonostante ciò, il moderno stato siriano, per quanto tronco, contiene tutte le divisioni interne della vecchia regione ottomana. Fin dall’indipendenza, nel 1944, la sua composizione etnico-religiosa, con alawiti nel nord-ovest, sunniti nel corridoio centrale e drusi nel sud, lo rende una Yugoslavia araba in gestazione. Questi frazionamenti sono ciò che per lungo tempo ha reso la Siria il cuore pulsante del panarabismo e lo stato più estremo nel respingere Israele. La Siria potrebbe placare le forze che da sempre minacciano di smembrare il paese, solo facendo appello a un’identità araba radicale, andando oltre il richiamo della setta. Questo non significa però che la Siria debba ora sprofondare nell’anarchia, perché la geografia ha molte storie da raccontare. Sia la Siria sia l’Iraq hanno radici profonde in specifici terreni agricoli che risalgono a millenni fa, rendendoli meno artificiali di quanto non si possa supporre. La Siria potrebbe comunque sopravvivere come una sorta di equivalente del XXI secolo di una Beirut, Alessandria e Smirne degli inizi del XX secolo: un mondo levantino di identità multiple, unito dal commercio e ancorato al Mediterraneo. Le divisioni etniche basate sulla geografia possono essere superate, ma solo se prima ne riconosciamo l’eccezionalità.

Per finire, c’è il problema dell’Iran, una seccatura per i politici americani sin dalla Rivoluzione islamica del 1979. Gli Stati Uniti tendono a vedere il potere iraniano in termini ideologici, ma si può imparare molto dagli impressionanti vantaggi geografici del paese. Lo stato dell’Iran corrisponde all’altopiano iraniano, una fortezza naturale inespugnabile che si allarga fino a entrambe le regioni petrolifere del medio oriente: il Golfo Persico e il mar Caspio. Inoltre, dal lato occidentale dell’altopiano iraniano, tutte le strade sono aperte verso l’Iraq giù di sotto. E dai versanti orientali e nord-orientali, le strade si aprono verso l’Asia centrale, dove l’Iran sta costruendo strade, gasdotti e oleodotti verso molte ex repubbliche sovietiche. La geografia pone l’Iran in una posizione privilegiata per dominare sia l’Iraq sia l’Afghanistan occidentale, che al momento esercita con scrupolo. La costa iraniana nello Stretto di Hormuz nel Golfo Persico si estende per 1.356 miglia nautiche (oltre 2.500 chilometri), con insenature perfette per nascondere nugoli di piccole barche per incursioni suicide. Se non fosse per la presenza della marina statunitense, questo permetterebbe all’Iran di dettar legge nel Golfo Persico. L’Iran ha anche quasi 500 chilometri di affaccio sul mar Arabico, rendendolo essenziale per il futuro accesso dell’Asia centrale alle acque internazionali. L’India sta aiutando l’Iran a sviluppare il porto di Chah Bahar nel Belucistan iraniano, che un giorno sarà collegato ai giacimenti petroliferi e di gas del bacino caspico. Geograficamente, l’Iran è lo stato perno del Grande medio oriente ed è essenziale che Washington raggiunga un accordo con questo paese. Il regime degli ayatollah discende da medi, parti, achemenidi e sasanidi del passato, tutti popoli iraniani, la cui sfera di influenza dal deserto siriano al subcontinente indiano era costruita su una geografia chiaramente definita. Vi è una differenza cruciale però: l’attuale semi impero iraniano si tiene in piedi sulla paura e su un soffocante dominio imposto dal clero, entrambi però ne limitano grandemente il fascino e lasciano intravederne la futura rovina. Sotto questo regime, il technicolor è sparito dal panorama iraniano, sostituito da un bianco e nero sgranato. L’occidente dovrebbe preoccuparsi meno di arrestare il programma nucleare dell’Iran quanto di sviluppare una strategia complessiva per la trasformazione del regime.

Non vorrei essere frainteso con questo breve studio del mondo, visto nell’ottica della geografia: la geografia è buon senso, ma non è fato. La scelta individuale opera nell’ambito di un dato contesto geografico e storico, che ha un impatto sulle decisioni, ma lascia aperte molte possibilità. Il filosofo francese Raymond Aron ha colto questo spirito con la sua nozione di “determinismo probabilistico”, il quale lascia ampio spazio all’intervento umano. Prima però che la geografia possa essere superata, deve essere rispettata. Le nostre élite che si occupano di politica estera sono abbacinate da belle idee e prendono in scarsa considerazione i fatti fisici sul campo e le differenze culturali che ne derivano. Farsi strada con successo nel mondo di oggi richiede che ci concentriamo prima sui vincoli e ciò significa prestare attenzione alle mappe. Solo allora nasceranno delle soluzioni nobili. L’arte del governare consiste nel lavorare sul limite di ciò che è possibile, senza mai mettere un piede in fallo.


Copyright Wall Street Journal, per gentile
concessione di MF/Milano Finanza.
Traduzione Studio Brindani