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La crisi siriana le primavere arabe e la disintegrazione del mediterraneo

di Giacomo Guarini - 14/09/2012

Sabato 1 Settembre Giacomo Guarini, ricercatore associato dell’IsAG e redattore di “Geopolitica”, ha animato la conferenza “La crisi siriana. I fattori strategici: la destabilizzazione e il ruolo dei media” tenutasi a Ville di Fano, a cura dell’Associazione delle Colline in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e l’associazione culturale Identità Europea.

Il relatore ha cominciato il suo intervento trattando dell’atteggiamento dei media nella rappresentazione della crisi siriana. Dopo alcuni cenni sulla situazione civile e politica del paese e sugli sconvolgimenti subentrati a seguito della crisi, si è inquadrato il ruolo della Siria nello scenario internazionale e le finalità strategiche degli attori stranieri coinvolti nell’affaire siriano. La crisi siriana è stata poi inserita nella vasta cornice delle rivolte arabe, cercando di evidenziare una linea di continuità nell’azione di attori esterni alle stesse, a partire dall’egemone USA. Si è posto l’accento sugli effetti di destrutturazione di processi di autonoma integrazione mediterranea cui simili fenomeni di destabilizzazione hanno condotto, grazie anche all’ingerenza della potenza globale USA – seguita dagli altri paesi del blocco occidentale – e di quella di attori regionali quali Arabia Saudita e Qatar. In conclusione, si è trattata la questione dell’“intervento umanitario” e di plausibilità, difficoltà ed incognite legate ad un simile scenario bellico.

L’incontro è stato seguito da un pubblico di circa quaranta persone, il quale ha animato un interessante dibattito in cui, fra i vari temi toccati, si è approfondito con il relatore il ruolo nella crisi siriana di attori quali Turchia e Israele, la reazione di Russia e Cina nell’intero panorama delle rivolte arabe ed anche la presenza italiana nell’attuale contesto mediterraneo. A moderare l’incontro Michele Antonelli dell’Associazione delle Colline; Antonelli, con la sua esperienza pluriennale di lavoro all’estero per conto delle Nazioni Unite, ha potuto contribuire al dibattito segnalando in particolare le analogie nella manipolazione mediatica che caratterizza la descrizione di scenari di crisi al centro di forti interessi internazionali.

Di seguito il testo della relazione pronunciata da Giacomo Guarini.

 
In quest’incontro dedicato alla crisi siriana faremo in primo luogo alcune considerazioni sparse sulla rappresentazione che i media hanno fatto degli eventi, per poi provare ad evidenziare quei fattori di ordine strategico che giocano un ruolo fondamentale nella definizione di questa crisi, anche in relazione ai processi di destabilizzazione che hanno toccato in diversa misura l’area mediterraneo-vicinorientale.

I media occidentali e la crisi siriana

Volendo semplicisticamente ripercorrere la rappresentazione mediatica della crisi, possiamo dire che la stampa occidentale per mesi ha letto le vicende siriane come una brutale ed unilaterale repressione governativa a danno di pacifici manifestanti che chiedevano democrazia e riforme. Con il proseguire della crisi, ha fatto capolino sui media, inizialmente in maniera timida, poi sempre più evidente, l’esistenza di un’opposizione armata. La stessa era dipinta in principio quasi esclusivamente come formata da eroici disertori dell’esercito regolare divenuti insofferenti verso le violenze perpetrate dallo stesso e costituitisi in una forza denominatasi Esercito Siriano Libero. Adesso si noterà che non è più così strano apprendere dai media, pur se in maniera contenuta ed ambigua, della presenza di forze anti-governative amorfe, generiche bande armate non immuni dal compimento di crimini, e del sostegno ai ribelli da parte di potenze straniere nonché da parte di formazioni militanti dal sapore jihadista, quasi sempre ricondotte frettolosamente alla denominazione di al-Qaeda. In tutto ciò, tuttavia, l’attenzione è sempre primariamente riposta ad arbitrarie violenze governative, vere o presunte.

Cosa possiamo dire di una simile lettura dei fatti? Sicuramente in principio (siamo ai primi mesi del 2011), accanto a disordini ‘ambigui’, abbiamo assistito alla presenza di una società civile desiderosa di riforme nel paese e molti manifestanti, pur non chiedendo l’immediata caduta dell’establishment, pretendevano riforme incisive. Vi è da dire che la risposta iniziale del governo è stata caratterizzata sì dall’uso della forza (sulla cui arbitrarietà, soprattutto in alcuni precisi contesti non v’è da far mistero), ma questo è stato affiancato da una serie di riforme istituzionali e civili di non indifferente portata: dalla liberalizzazione dell’accesso ai social network a modifiche costituzionali tese all’affermazione di un’effettiva partecipazione politica pluralista, al riconoscimento della cittadinanza alla minoranza curda e alla cessazione dello stato di emergenza, per citarne alcune. E tuttavia scarso peso sembra essersi dato a simili spazi di apertura; anzi, nel momento in cui diverse delle istanze dei manifestanti venivano riconosciute, la “posta in gioco” veniva alzata da questi ultimi (o almeno dalla loro voce riportata nei media) con la richiesta di immediato regime change e di rinuncia del presidente Assad alla sua carica.

I disordini cominciavano a crescere e a ricevere ulteriore spazio mediatico e, mentre si parlava sui media di repressione unilaterale, emergevano versioni dei fatti quasi opposte da parte del governo siriano. La versione ufficiale di Damasco è stata sin da allora quella della denuncia dell’azione di bande armate di terroristi in azione nel paese per destabilizzare lo stesso, finanziate da potenze straniere in soldi, armi, supporto logistico, etc. Una simile posizione poteva considerarsi una trovata propagandistica, e sicuramente presentava una visione manichea, tipica delle verità di Stato. Tuttavia una serie di elementi tendevano anche in principio a riconoscerle una certa fondatezza, che metteva in luce il problema di elementi antigovernativi spregiudicati ed in armi in azione nel paese. Per quanto si potesse tacciare di propaganda baathista l’idea di simile “complotto”, ad un certo punto, accanto ai video e testimonianze prodotte dai ribelli, sulla cui autenticità si è spesso potuto dubitare, si è avuto una mole non indifferente di materiale che mostra soldati feriti o uccisi, testimonianze di civili che accusavano di crimini bande di ribelli antigovernativi etc. Questa mole di dati si è infine insinuata almeno in parte nel panorama informativo e direi che – anche nel nostro paese – certa stampa di matrice cattolica può sicuramente aver contribuito in tal senso. E i motivi sono evidenti; i cattolici ed in generale i cristiani di Siria in larga parte temono che la pace sociale possa venir meno con l’avvento dei disordini e di ribelli antigovernativi così marcatamente caratterizzati in senso jihadista. Hanno infine infranto il muro del silenzio anche notizie relative al supporto in armi, denaro e logistica da parte di realtà straniere, fra le quali gli USA, Stati europei, Qatar, Arabia Saudita, Israele, a dimostrare che questi soggetti non si sono limitati a forme di pressione politico-diplomatica.

E possiamo inoltre parlare di quei casi di gravi crimini, attribuiti con non poca leggerezza alla responsabilità governativa, quali il massacro di Houla e di Deraya, ma sulle quali diversi elementi dovrebbero portare a maturare quantomeno un forte beneficio di dubbio, senza contare fra l’altro la testimonianza di autorevoli testate e giornalisti occidentali che tenderebbero a riconoscere in tali crimini la responsabilità di milizie antigovernative.
D’altronde, anche nei casi di gravi attentati terroristici, con esplosioni che hanno ucciso civili, militari e funzionari governativi, o che hanno danneggiato seriamente edifici e strutture di vario tipo, non si è avuto parimenti grossa esitazione nel nostro circuito politico-mediatico a dichiarare la responsabilità di Assad e del suo governo, in grossi attentati terroristici interpretati come false flag finalizzati a spostare la simpatia della popolazione sul governo invece che sui ribelli. Simili asserzioni, oltre che assolutamente indimostrate, risultano a mio parere prive di solide basi razionali, dal momento che ipotetici ‘autoattentati’ architettati dal governo di Assad non portano ad alcun vantaggio sul piano internazionale (abbiamo visto anzi come nei riguardi del governo vi sia sempre una presunzione di colpevolezza), ma inoltre ritengo che non possano portare nemmeno a benefici sul piano interno, tutt’altro. Credo piuttosto che interesse primario del governo sia quello di mostrare al popolo ed alla comunità internazionale di essere in grado di garantire stabilità e controllo del territorio, mentre una situazione di destabilizzazione di lungo termine – anche mediante escalation di attentati terroristici – alienerebbe piuttosto che aumentare il sostegno del popolo verso il governo. Tuttavia su simili argomenti molto altro vi sarebbe da dire; in ogni caso l’interpretazione quasi esclusivamente a senso unico che di simili crimini viene compiuta dalla nostra stampa, fa capire il verso e gli interessi entro cui questa si muove.

Da ultimo sulla questione dei media, possiamo pensare alle fonti di cui la stampa si è servita per diffondere notizie, spesso provenienti a senso unico da siriani antigovernativi oltretutto residenti all’estero, che dichiaravano di attingere da fonti locali, ma le cui asserzioni si sono spesso potute dubitare o smentire fermamente. Aggiungiamo in estrema conclusione che spesso gli stessi rapporti delle Nazioni Unite hanno peccato non poco in ambiguità, ed hanno accusato il governo (anche – ad esempio – riguardo ai crimini di massa di Houla e Deraya sopra ricordati) con non poche contraddizioni oppure attingendo esclusivamente a fonti di una sola parte, quella ribelle, anche laddove questa non poteva portare prove che non fossero testimonianze, in quanto tali manipolabili, e senza che si desse peso alle numerose testimonianze esistenti in senso contrario.

Una simile panoramica sulla rappresentazione mediatica non può che esser stata incompleta e disorganica, ma può essere utile nella misura in cui proviamo ad analizzare i fattori strategici e gli interessi fondamentali sottesi alla crisi siriana.

Siria: un rapido sguardo al suo interno

Partiamo dunque da cenni spurii sull’assetto politico-istituzionale e civile del paese, per poi collocare la Siria nello scenario internazionale.

Senza dilungarci in narrazioni di carattere storico, possiamo dire che la Siria è guidata dalla medesima forza politica da decenni ormai. E’ infatti nel 1970 che Hafez al Assad, padre di Bashar, prende il potere con un colpo di stato. Il suo ruolo politico cesserà con la morte, nel 2000, successivamente alla quale la presidenza verrà assunto dal figlio Bashar. Il partito di riferimento degli Assad è il Baath, del quale possiamo eseplificativamente indicare certi fondamenti ideologici per capire anche alcune fondamentali direttive di tipo politico, economico e sociale che hanno caratterizzato la vita del paese in questi decenni. Il Baath si presenta come una forza politica tesa a valorizzare tanto l’elemento nazionale quanto l’identità araba ed improntata su un modello di sviluppo economico-sociale di forte impronta socialista (ancora oggi, nonostante diverse riforme di stampo liberale perseguite negli ultimi anni, nella vita economica l’elemento pubblico è predominante) e da una impostazione ‘laica’ dell’assetto civile e politico istituzionale. E’ questo un elemento importante per capire certi fondamentali elementi di dialettica politica che hanno un ruolo molto importante anche nell’attuale scenario di crisi.

In effetti, l’establishment politico siriano non è caratterizzato da esclusivismo etnico-confessionale: il presidente deve essere musulmano ma lo Stato non ha caratterizzazione religiosa e in ogni caso anche diverse minoranze, pur con problemi mai sopiti (vedi la questione curda), hanno trovato inserimento e un assetto basato sulla stabilità e convivenza civile in un regime che, almeno in linea di principio, avrebbe cercato di superare le divisioni etnico-religiose. Elemento da non sottovalutare è inoltre l’appartenenza confessionale del presidente, legato alla minoritaria componente alawita del paese, così come buona parte dell’élite politico-militare che è andata affermandosi. Simile elemento costituisce infatti un fattore di conflittualità non indifferente, che nella crisi attuale fa presa in particolare su oppositori governativi afferenti alla galassia del sunnismo radicale, presso i quali l’alawismo è tacciato di eresia ed il governo in carica risulterebbe illegittimo.

Il coinvolgimento internazionale sulla Siria

Non possiamo dubitare che quella siriana sia una crisi dai risvolti internazionali, anzitutto per la grande mobilitazione politico-diplomatica che ha coinvolto numerosi paesi al riguardo (anche in importanti sedi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite). Volendo dare collocazione alla Siria nello scenario internazionale possiamo dire che il paese ha un lungo e consolidato legame con la potenza iraniana, che costituisce elemento fondamentale di raccordo e sostegno anche alla formazione politica sciita libanese di Hezbollah, nonché alla lotta di liberazione palestinese. Il paese, nonostante reciproci avvicinamenti con il blocco occidentale nel periodo ‘pre-rivolte’, è dunque strategicamente in opposizione ad esso sul piano geopolitico (nemico di Israele, alleato dell’Iran, vicino a potenze non legate al blocco euro-atlantico quali la Russia), nonché nel modello di sviluppo socio-economico, caratterizzato da una struttura ancora sostanzialmente socialista.

Chi sono dunque oggi i principali attori dello scacchiere internazionale ad animare la contesa sulla crisi siriana? Soggetto primario nell’opposizione al regime di Assad sono gli USA, la potenza alla guida del blocco occidentale, con i paesi afferenti a quest’ultimo, che si dimostrano in sintonia fondamentale con l’egemone, pur manifestando differenti ‘gradi’ di ostilità nei confronti dell’establishment siriano. Molto vi sarebbe da dire su due attori particolari nella crisi siriana: Turchia ed Israele. Ci limitiamo a rilevare come il primo di questi due paesi sia passato repentinamente da una fase di positiva intesa con la Siria, a seguito della ricucitura di vulnera nelle relazioni bilaterali, fino invece a giungere ad improvvisa ed aperta ostilità poco dopo l’inizio della crisi. Tanti gli sforzi degli analisti nella lettura del comportamento turco, che con le ‘primavere’ arabe ha ripensato la propria strategia assecondandola in buona parte agli interessi occidentali.

Su Israele invece ci limitiamo per ora a rilevare come il paese abbia mantenuto un ruolo estremamente prudente e defilato, soprattutto durante i primi mesi di rivolta, e come tutto sommato un simile atteggiamento continui a caratterizzare l’establishment israeliano, nonostante abbia in maniera inequivoca preso posizione contro l’attuale governo siriano. Anche su Israele, e sul suo rapportarsi alla crisi siriana come all’intero scenario delle rivolte arabe, vi sarebbe molto da dire, ma basta ora constatare che l’establishment israeliano si trova in una posizione nella quale ogni suo aperto sostegno ad una delle parti in causa subirebbe un effetto opposto a quello desiderato. Sostenere i ribelli, nella stessa esplicita e rumorosa maniera con la quale si muove l’Occidente, significherebbe regalare al governo di Assad importanti motivi di legittimazione politica, tanto all’interno del paese, quanto nell’intera compagine araba e musulmana.

Continuando nella presentazione delle parti coinvolte nella crisi, in linea di ferma opposizione al governo, non possiamo affatto soprassedere sul ruolo fondamentale assunto dalle cosiddette petromonarchie – Arabia Saudita e Qatar in particolare – nella promozione delle cosiddette “primavere”, tanto nello scenario siriano, quanto in quello dell’intera area mediterranea. Indiscusso e massiccio è stato infatti al riguardo il loro attivismo finanziario, mediatico, militare, politico, diplomatico, di intelligence, etc. Facendo leva su tale molteplicità di risorse, questi attori sono intervenuti in diversa misura ed intensità negli scenari di rivolta. Sulla questione siriana, numerosi esempi potremmo fare di elementi dai quali emergerebbe il sostegno materiale agli oppositori armati (in armi, denaro, combattenti, etc.), affiancato all’attività politico-diplomatica di aperta ostilità verso il regime di Assad. La fortissima connotazione confessionale di questi Stati, come roccaforti del sunnismo wahabita, fa leva anche sul fattore religioso ed oggi non è mistero il loro sostegno ai militanti islamisti in terra siriana, così come avvenuto con simili formazioni politico-militanti in diverse realtà del globo.

E’ invece dal versante opposto che emergono potenze quali l’Iran, con il quale – abbiamo ricordato – c’è una solida alleanza, ma anche la Russia, con la quale il legame strategico è forte dai tempi dell’URSS, e viene d’altronde spesso ricordata dai commentatori l’importanza della Siria per Mosca, nella misura in cui costituisce al momento l’unica salda garanzia di diretto accesso al Mediterraneo dal porto della città di Tartus. Anche la Cina, fra i colossi emergenti, rappresenta assieme alla Russia un elemento fondamentale di contrapposizione alle istanze dei paesi guidati dal blocco occidentale; Russia e Cina hanno finora neutralizzato in sede di Consiglio di Sicurezza le risoluzioni presentate contro l’establishment siriano, giudicandole non equilibrate.

Sicuramente è una semplificazione forzata, ma forse utile, il rilevare come in buona parte le posizioni sulla crisi siriana, anche in sede ONU, possano considerarsi riflesso di opposte visioni del mondo e collocazione geopolitica. Laddove paesi del blocco occidentale – o paesi ad esso legati – infatti tendono ad avere sulla questione posizioni di ostilità verso il governo, paesi non afferenti alla realtà occidentale e da essa più o meno slegati (andando da relazioni di superficiale freddezza fino all’aperta ostilità con USA e alleati) tendono ad avere posizioni molto meno aggressive e più vicine al principio di difesa della sovranità della Siria e di risoluzione della crisi per via politica e non militare.

Crisi in Siria e nel Mediterraneo: gli interessi dietro la destabilizzazione

E’ evidente dunque come la Siria rifletta un campo di contesa tanto per attori globali che per potenze regionali. Ci chiediamo adesso se la contesa sulla Siria possa, sotto un profilo strategico, coerentemente inserirsi in un disegno che coinvolge l’intero processo di profonda destabilizzazione che ha attraversato la regione e che ha preso la denominazione idealistica di “Primavere”. Anzitutto emerge in questo panorama un’oggettiva convergenza fra le ‘petro-monarchie’ alleate degli USA, delle quali abbiamo ricordato il forte attivismo in questo contesto, ed il blocco occidentale. Tale convergenza trova importante linfa nella comune contrapposizione alla potenza iraniana, elemento di contrasto tanto per gli USA, quanto per i paesi del Golfo nella competizione per il controllo e l’influenza nell’area.

Diventa a questo punto importante far cenno al coinvolgimento degli USA nei processi in corso nell’intera regione. Potremmo a lungo soffermarci sui fattori endogeni che hanno creato terreno estremamente fertile per l’esplosione dei fenomeni di rivolta, tuttavia è possibile – com’è stato autorevolmente fatto – far emergere numerosi segnali di un forte coinvolgimento dello stesso attore egemone nel sostegno alle rivolte dell’area sunnita. Simile sostegno si è concretizzato in diversi contesti sulla falsariga delle cosiddette “rivoluzioni colorate” (e quindi con sostegno logistico, finanziario, mediatico, etc. a gruppi di protesta civile) ma anche con il diretto intervento militare (vedi Libia), e ciò che sicuramente può colpire del sostegno dato a questa massiccia forma di destabilizzazione è che con la stessa non si sono colpiti solamente regimi ostili a Washington (Libia e – come vedremo – Siria) ma anche establishments tutto sommato in buoni rapporti con Washington (Tunisia, Egitto) e che costituivano sicuramente una salda garanzia in un’area così esplosiva.

Perché dunque muovere una strategia simile, andando a colpire anche dei punti di riferimento stabili in un’area delicata? Certamente conta il fatto che gli USA abbiano voluto scaricare dei leader politici ormai molto screditati nel proprio paese, eppure l’ingerenza nel cambio di assetti sembra essere in un certo senso a monte. Difficile dare risposta univoca dunque alla domanda di cui sopra, ma sicuramente possono rilevarsi degli effetti gravi ed immediati che la destabilizzazione ha prodotto nell’area in favore di Washington, relativi alla destrutturazione o comunque grave compromissione di processi di integrazione mediterranea e vicinorientale che andavano sviluppandosi prescindendo dalla tutela del grande egemone, ed anzi spesso finanche trovando sponda nelle nuove potenze emergenti (Cina e Russia in primis). Una situazione di grave preoccupazione per Washington. Si pensi, a titolo di mero esempio, ai rapporti che andava costruendo l’Italia con le altre sponde del Mediterraneo, a partire da quella libica; al corso autonomo che stava intraprendendo la Turchia; ai segnali di positiva interazione strategica fra le stesse Roma e Ankara di concerto con Mosca su di una fondamentale questione strategica quale quella del gasdotto South Stream; sull’avvicinamento reciproco fra importanti realtà dell’area quali Turchia, Iraq, Siria e Iran. Senza dimenticare, in quest’ultimo caso, idee come quella del cosiddetto “gasdotto islamico”, che prevedeva un coinvolgimento degli ultimi tre paesi in un importante progetto potenzialmente in grado di affermarsi nel campo delle forniture energetiche all’Europa.

Simili importanti progetti di medio periodo, indicati a titolo esemplificativo, erano potenzialmente in grado di aprire le porte a progetti di lungo periodo ancor più ambiziosi; essi sono stati minati in maniera più o meno profonda – ma in ogni caso netta – dagli sconvolgimenti in corso; senza contare anche certi vantaggi di breve periodo, quali l’aver reso le frontiere tunisine ed egiziane molto più porose e funzionali alle operazioni militari contro la Libia di Gheddafi ed aver favorito un humus ostile contro l’establishment siriano. Consideriamo poi quella che, pur se in sordina rispetto ai grandi media, va profilandosi come un fondamentale oggetto di contesa, ovvero il rilevamento recente di giacimenti gasiferi e petroliferi molto ingenti nel Mediterraneo, in un’area che coinvolge Grecia, Turchia, Cipro, Israele, Libano e Siria. Si è infine menzionata la Russia, ma lo stesso vale per la Cina, la cui penetrazione sempre più forte nel Mediterraneo rende questo un terreno di contesa ed un luogo ove diventa per gli USA importante sbarrarne la penetrazione, come già a livello globale vediamo fare con il comando militare Africom nel continente africano e con il rafforzamento della presenza nell’area pacifica, la quale oramai risulta apertamente oggetto di un forte slittamento strategico degli USA in questa nuova fase strategica.

Concludendo in merito al coinvolgimento USA nella regione delle ‘primavere’, non bisogna dimenticare che l’area mediterranea è contigua a quella centroasiatica ed insieme costituiscono le principali “cerniere” dell’Eurasia, la cui destabilizzazione darebbe linfa vitale alla penetrazione statunitense nella massa continentale. L’area centroasiatica, quella dei “Balcani eurasiatici”, secondo la definizione del noto politologo Brzezinski, si presenta come un’area molto ricca di risorse, potenzialmente esplosiva sul piano delle conflittualità etnico-religiose, nelle quali un peso importante assume la presenza di gruppi jihadisti, spesso di matrice wahhabita. Diversi analisti si sono interrogati sul fatto che i disordini ndell’area mediterranea possano infine ‘contaminare’ quella centroasiatica, con la possibilità che il problema della instabilità finisca così per irrompere entro i confini interni della Russia in primis ed anche in Cina.

Prospettive

In conclusione, torniamo nuovamente alla Siria, dove per mesi ci si è interrogati sulla sopravvivenza del regime di Assad e sulla possibilità che la crisi possa trovare sbocco in un intervento armato esterno. Cosa dire al riguardo?

Dopo lo spettacolare attentato terroristico del 18 Luglio, che ha colpito alti esponenti governativi, la stampa ha molto esaltato l’‘avanzata’ dei ribelli prima a Damasco e poi ad Aleppo. In realtà è apparso evidente infine come il governo abbia dimostrato forte resilienza e sia ancora ben in grado di guidare il paese e di impedire ai ribelli di prendere il controllo prolungato di aree della Siria che non siano zone di confine, o comunque strategicamente non rilevanti. Ciò non toglie che la lotta armata di opposizione causi evidenti danni alla vita civile, sociale, economica del paese; possiamo dunque affermare che, allo stato attuale delle cose, i ribelli possono continuare ad essere elemento di destabilizzazione solo con il massiccio appoggio esterno, e tuttavia questa destabilizzazione può avere al più funzione di logoramento e non di capovolgimento degli assetti di potere, o almeno non nel breve periodo. E’ chiaro invece che simile logoramento, unito a pressioni internazionali, potrebbe al più avere effetti decisivi in tempi lunghi. Ed invece l’unica possibilità di caduta del regime nel breve periodo parrebbe poter aver luogo mediante intervento militare esterno, nelle varie forme concepite da politici ed opinionisti in questi mesi, tenendo però ben conto anche da questo punto di vista che la Siria non è affatto la Libia per una serie di ragioni, dalle capacità militari agli appoggi internazionali, senza dimenticare affatto i gravi effetti destabilizzatori che un intervento militare potrebbe far dirompere prepotentemente nell’intera regione ed anche oltre.

Ma è concepibile dunque un intervento diretto armato nel breve periodo? Come è detto da più parti, nei prossimi mesi pesa sicuramente la campagna elettorale statunitense nello scongiurare eventuali – quanto mai imprevedibili – avventure belliche. Possiamo fare un azzardo nel dire che il presidente in carica negli USA, la cui rielezione appare abbastanza probabile, faccia riferimento ad un pensiero strategico teso a mantenere un approccio ‘soft’ nell’area e a valorizzare invece altre regioni del globo, quale la già ricordata area del Pacifico. Tuttavia ogni valutazione deve essere presa con profondo beneficio di dubbio, essendo da tempo ricompreso nelle mire strategiche di Tel Aviv e Washington un cambio di assetti politici in Siria ed Iran ed essendovi forti pressioni in seno all’establishment USA affinché un simile cambio venga promosso in tempi brevi. E’ probabile che in tempi brevi si avrà l’accentuarsi di una dialettica interna all’élite USA – e già molto intensa – fra una visione interventista nel “Grande Medio Oriente”, anche sul piano militare, ed una strategia che invece cerca nell’area un approccio di ingerenza indiretta, concentrando la proiezione strategica del paese su altre aree del globo, a partire da quella del Pacifico, come ricordato.