Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Com’è difficile dire una parla di verità su se stessi, anche a cinquant’anni di distanza

Com’è difficile dire una parla di verità su se stessi, anche a cinquant’anni di distanza

di Francesco Lamendola - 17/09/2012

 


 

Com’è difficile arrivare a dire una parola di verità su se stessi, su quel che si è, su quel che si è stati, sulle proprie azioni, anche a distanza di molti anni, magari dopo mezzo secolo.

Paradossalmente, forse è più difficile farlo mano a mano che gli anni passano; perché, se è vero che il tumulto delle emozioni si placa e la visione d’insieme si allarga, come quando si osserva un quadro a distanza, in compenso subentrano altre dinamiche che si oppongono a una rivisitazione autocritica, prima fra tutte quella guidata dall’istinto di conservazione.

Ogni essere tende a restare nello stato di equilibrio che è riuscito a raggiungere, fino a quando una urgenza più grave non lo costringe a cercare un nuovo equilibrio; di conseguenza, ogni anima tende a cicatrizzare le proprie ferite e a rappresentarsi il proprio passato nella maniera meno dolorosa o, comunque, tale da poterle assicurare un equilibrio psicologico e spirituale, quello di cui è capace - non necessariamente il migliore.

Rimettersi in discussione, riaprire il giudizio si quel che è stato o su quel che si è stati, è, pertanto, faticosissimo; richiede un coraggio fuori dal comune, perché vi si oppongono le forze più intime e più radicate dell’anima umana. Solo pochi ce l’hanno: coloro i quali si sono conquistati, lottando duramente con se stessi, con la propria pigrizia, con la propria vigliaccheria, non già un equilibrio statico e rigido, basato sul presupposto che nulla debba essere modificato, ma su un equilibrio elastico e dinamico, pronto ad arricchirsi di nuovi spunti e di nuove suggestioni, nella prospettiva di avvicinarsi sempre di più alla pienezza della verità.

In altre parole: la maggior parte degli esseri umani hanno costituzionalmente bisogno di vivere nella menzogna; una piccola minoranza ha il coraggio di alzare le vele nel mare procelloso della notte, ove pericolosi scogli affiorano dalle onde, per confrontarsi costantemente con il pericolo e per respirare a pieni polmoni, con i venti gagliardi e l’aroma di salmastro, l’aspra bellezza della verità, senza finzioni e senza ipocrisie con se stessi.

Ma per non procedere nel nostro discorso in maniera puramente teorica, facciamo un esempio concreto di ciò che intendiamo dire: il caso di un delitto rivisitato a cinquant’anni di distanza, l’assassinio di Rasputin da parte del principe Felix Yusupov, un giovane assai noto per la sua bellezza, per la sua eleganza e per la sua ammiratissima moglie, Irina, che era addirittura nipote dello zar Nicola II di Russia.

L’assassinio, avvenuto a San Pietroburgo il 29 dicembre 1916, venne fatto passare per un delitto politico; il suo autore, che sicuramente agì d’intesa con altri congiurati e con potentissimi protettori dell’ambiente di corte (se la cavò, infatti, senza nemmeno un processo, con una mitissima pena all’esilio in campagna), sostenne di aver voluto liberare lo zar, e soprattutto la zarina, Alessandra Fedorovna, dall’influenza di Rasputin, giudicato un intrigante senza scrupoli che, con il suo ascendente sulla coppia imperiale, stava trascinando la Patria alla rovina, proprio mentre la guerra con gli Imperi Centrali stava andando di male in peggio.

Non diremo una parola sugli antefatti e sulle cause dell’ostilità dell’aristocrazia verso Rasputin, che attengono alla sfera della politica ed esulano dalla presente riflessione; del resto, ne abbiamo già parlato in un altro scritto (cfr. «Rasputin fu ucciso da una cricca di nobili debosciati perché voleva pace e giustizia sociale», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 13/11/2009); ci limiteremo esclusivamente a qualche riflessione sull’aspetto psicologico e spirituale, per illustrare la tesi che ci eravamo proposta.

Felix Yusupov era un povero omosessuale che non riusciva ad accettare la propria condizione (benché studi recenti abbiano dimostrato come essa fosse diffusissima nella “gioventù dorata” cui egli apparteneva e specialmente nel prestigioso reggimento Preobrazhenskij della Guardia imperiale, al quale apparteneva, al punto che lo si definiva, dietro le quinte, “il reggimento degli omosessuali”, e tale era anche il suo nobilissimo comandante): il fatto di avere una bella moglie e che ella fosse strettamente imparentata con lo zar, che li aveva personalmente accompagnati all’altare, lo obbligava, in un certo senso, a recitare la commedia del marito felice all’interno di una coppia perfetta, ammirata e invidiata da tutti.

Questa posizione falsa, questa ambiguità e la costrizione della maschera che doveva indossare ogni giorno devono aver causato in lui delle tensioni fortissime, che a un certo punto non fu più in grado di controllare. Secondo alcuni studiosi, si sarebbe rivolto a Rasputin proprio perché lo aiutasse a risolvere il suo problema di identità sessuale; su che cosa poi sia accaduto fra i due, è possibile fare solo delle congetture. Recentemente due studiosi russi, Aleksandr e Danil Kotsiubinskij, psicologo il primo, storico il secondo, hanno avanzato l’ipotesi che il principe abbia ucciso Rasputin per sottrarsi alle “avances” omosessuali di quest’ultimo, che lo mettevano impietosamente a tu per tu con la propria natura profonda. Una tesi che non convince, perché è noto che a Rasputin piacevano le donne, forse anche troppo; e che pure quella tragica sera egli fu attirato in casa del principe proprio dalla promessa che, più tardi, sarebbero stati raggiunti dalla bella Irina. E poi, il delitto era stato lungamente preparato e, come si è detto, favorito da una vasta cerchia di congiurati: Yusupov non ne fu che l’esecutore materiale.

A noi sembra molto più verosimile che non per difendersi dalle improbabili “avances” del monaco, ma per difendersi, se così vogliamo dire, dalle proprie pulsioni omosessuali, Felix Yusupov abbia deciso di uccidere Rasputin, grande conquistatore di donne, che desiderava anche sua moglie e dal quale, forse, egli era attratto: voleva esorcizzare il lato oscuro di se stesso. Quel che ci intessa qui, peraltro, non è questo, ma il modo in cui l’autore di quel delitto ha poi rielaborato la propria azione e ha continuato a riviverla in se stesso per tutto il resto della propria vita.

Su una cosa non ci sono dubbi: Yusupov attirò Rsputin in un tranello, parlandogli di sua moglie e facendogli intravedere un abboccamento con lei, indi lo uccise somministrandogli dei biscotti pieni di arsenico, che tuttavia non produssero che modesti effetti, quindi sparandogli con una pistola da distanza ravvicinata, mentre quello, avendo compreso cosa stesse accadendo (e che nella stanza accanto c’erano altri complici) , gli si era gettato contro e lo stava strangolando con le sue mani di ferro; infine il corpo venne chiuso in un sacco e gettato nella Neva ghiacciata, mentre ancora dava dei segni di vita. Questa è la versione che lo stesso Yusupov ha divulgato, mettendola per iscritto e senza mai venire smentito da alcuno; né ci sono ragioni per dubitarne.

Il principe, dunque, è un assassino confesso, anche se cerca di presentare la sua azione come ispirata dall’amor di patria e anche se afferma di aver provato una intima ripugnanza a compiere quello che, comunque, ritenne un suo preciso dovere. Si potrebbe pensare che un assassinio, e per giunta un assassinio così truculento, dovrebbe aver lasciato qualche traccia di pietà, se non proprio di rimorso, nei confronti della vittima; o, quanto meno, che il suo autore avrebbe dovuto cercare di dimenticarlo, per quanto possibile, o di relegarlo in qualche zona profonda dell’anima, sia pure dopo averlo razionalizzato nella maniera che abbiamo detto, cioè raccontando a tutti, e anche a se stesso, che a muoverlo erano state unicamente delle nobili ragioni di tipo ideale.

Invece, che cosa accade? A mezzo secolo di distanza, il principe, che non ha mai fatto un’ombra di autocritica, nemmeno nel silenzio della propria coscienza, e che non è mai stato capace di guardarsi dentro fino in fondo, anche riguardo alla propria omosessualità - emigrato in Francia, rimase “felicemente “ sposato con la bella Irina e continuò la sua vita frivola e sfarzosa, grazie ai gioielli di famiglia, quando altri nobili emigrati si riducevano a fare i camerieri o i facchini -, egli trovava la voglia di collaborare con il regista Robert Hossein per un film sul delitto, intitolato appunto «J’ai tué Raspoutine», nel quale veniva riproposta la versione “ufficiale”.

Una sorta di psicodramma liberatorio, forse? Anche questa sarebbe una interpretazione possibile: dopo aver covato e incistato nella propria anima una esperienza traumatica, senza mai averla  metabolizzata, l’assassino sente il bisogno di metterla in scena sotto forma di rappresentazione, per estrarne il pungiglione velenoso e riuscire a riconciliarsi con il proprio passato, togliendone la  dirompente carica di senso di colpa, di vergogna e, probabilmente, di rimorso non riconosciuto come tale. Invece non è stato così: si è trattato della ennesima esibizione narcisistica, con il vecchio Yusupov che istruisce gli attori affinché parlino, gesticolino e si muovano esattamente come faceva lui da giovane; e della ennesima e suprema menzogna, cioè che il delitto fu soltanto politico e che il suo autore, nella propria vita, non aveva proprio nulla da nascondere.

Così scrive nelle sue memorie il nobile polacco Alex-Ceslas Rzewuski, in seguito fattosi frate domenicano, che dei coniugi Yusupov era stato amico intimo, nel suo libro «Confessioni di un domenicano» (titolo originale: «A travers l’invisible cristal», Paris, Librairie Plon, 1976; traduzione dal francese di Rita Bardi, Milano, Rusconi, 1984, pp. 163):

 

«… Quando, alcuni anni fa, mi fu comunicata la morte di Felix, scrissi poche parole a Irina, che mi rispose con un semplice biglietto, scritto di suo pugno. Il testo era breve, ma amabile. Poco dopo seppi che anche lei era deceduta. È tutto!

Non li incontrai mai più, ma li vidi un giorno al cinema. Mentre ero a Ginevra, qualche anno fa, lessi su un manifesto vicino a una grande sala: “L’uccisione di Rasputin” di Yussupov! Avevo appreso dai giornali che Felix, all’età probabilmente di ottantacinque anni, aveva diretto lui stesso il film, con l’intenzione di correggere gli errori commessi fino ad allora in lavori analoghi sullo stesso tema. Decisi di andare a vedere lo spettacolo che aveva girato insieme con il regista Hossein. Confesso che ne fui turbato perché il regista aveva avuto l’idea di far precedere il film da alcuni primi piani di Felix e Irina, seduti uno a fianco dell’altra su un banco.

Era trascorso quasi mezzo secolo dal nostro ultimo incontro: Felix, molto vecchio, era irriconoscibile, con immensi occhiali neri che coprivano parte del viso. Al suo fianco Irina, la donna impressa nella mia memoria come la bella “Diane fin de race”, era una vecchia dalle trecce bianche e dal viso triste e rugoso! Seduti su quel banco, avevano l’aria di quei vegliardi che si vedono accanto agli ospizi.

Felix aveva scelto personalmente gli attori,molto adatti ai ruoli assegnati. Aveva insegnato loro certi gesti, perfino certi tic, tipici di lui e di Irina. Era penoso rivederli. Mano a mano che il film si avvicinava al momento dell’assassinio, il mio disagio diventava insopportabile, e molto prima della scena del delitto, lasciai la sala. Temevo di non avere la forza sufficiente per sopportare l’orrore della scena finale.»

 

Che tristezza, quei due vecchi che si ostinano a recitare, fino al’ultimo, la loro parte falsa di coniugi felici; che, giunti ormai alle soglie dell’ultimo viaggio, vogliono tramandare al mondo, attraverso il cinema, una versione addomesticata del loro inconfessabile segreto, ad uso e consumo delle anime nobili e ingenue.

Se il significato profondo della vita di ciascun essere umano è quello di intraprendere il cammino che conduce alla verità, è chiaro che bisogna partire dalla verità su se stessi e che nessuna menzogna su se stessi può diventare una scorciatoia verso la verità; al contrario, ogni volta che si mente  a se stessi e su se stessi, sempre più ci si allontana dalla verità, perché la ricerca di quest’ultima incomincia dall’interiorità delle persone, non dai fatti esteriori, che riguardano altri e sui quali è facile e comodo esprimere giudizi senza mai “scottarsi”.

Eppure, quante persone si comportano in questo modo. Viene in mente quel cittadino di Milano che, scambiato il povero Renzo per un untore e avendolo scacciato in malo modo, seguitò poi per tutta la sua vita -  che fu lunga, precisa il Manzoni - a ripetere, con aria di saggezza e di vita vissuta, che le cose bisogna averle sperimentare di persona, per poterne parlare.

Ma la menzogna su se stessi, la menzogna intenzionale, è ancora più meschina.

Quante persone, dopo aver agito in modo moralmente discutibile, si raccontano una verità di comodo per non doversi confrontare con il rimorso, e vivono per sempre nella propria menzogna: senza rendersi conto che, così facendo, si condannano da sole all’inferno della mancata espiazione...