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La montagna era viva

di Francesco Lamendola - 30/09/2012


 


 

«Parigi era viva», s’intitola il famoso libro di memorie di Gualtieri di San Lazzaro; e così, parafrasandolo, si potrebbe anche dire, con riferimento alle nostre zone alpine e appenniniche, non senza una punta di malinconia: «la montagna era viva».

Ieri ho rivisto, sul filo della memoria, la stazioncina in riva al lago alpestre dove la littorina ci portava, alla domenica mattina, per trascorrere una giornata serena, nella bella stagione, fuori dal solito ambiente cittadino e dall’aria pesante della pianura; ci accompagnava anche il cane, felice di poter essere sguinzagliato per i prati, correndo in assoluta libertà.

Alla domenica, dunque, di solito in primavera o in estate, qualche volta anche oltre, la minuscola stazione ai piedi delle montagne si riempiva di un allegro vociare; una piccola folla di turisti scendeva dal treno e si spargeva per la costa verdeggiante, unendo la sua animazione a quella di un vicino camping, con le roulottes parcheggiate in riva al lago e le barche che drizzavano la vela sulle acque tranquille di color verde smeraldo; i bambini aggiungevano una nota gaia con il loro infantile schiamazzo, che presto si disperdeva nella vastità del luogo, dominato da un costone boscoso molto ripido, che dava allo scenario naturale una suggestione quasi solenne.

Numerosi ristoranti e trattorie a buon mercato esponevano le loro insegne per attirare i clienti; c’era un solo albergo, perché il luogo, benché ventilato, fresco e ameno, non era considerato adatto a un vero e proprio soggiorno per le vacanze, ma piuttosto a una gita domenicale; comunque, le cartoline illustrate esposte sulla porta delle tabaccherie e gli oggettini di artigianato in legno nelle vetrine delle poche rivendite, benché assai banali, creavano un’atmosfera gaia, che faceva subito pensare ad ore serene trascorse nella pace alpestre e alla salubrità dell’aria, così gradita per chi veniva dall’afa delle città soffocate nel cemento e nell’asfalto.

La strada statale correva poco più in alto della ferrovia, snodandosi in pigre curve su per il passo e oltre, e già allora - si era al principio degli anni Settanta - molte famiglie si recavano lassù in automobile, nuovo feticcio del decantato “benessere” e dei suoi individualistici miti; il treno, però, o meglio la simpatica littorina locale, restava ancora un mezzo di trasporto abbastanza popolare, tanto più che essa poteva offrire al viaggiatore, in poco meno di un’ora di dolce arrampicata, una serie di colpi d’occhio veramente notevoli.

Dopo aver oltrepassato gli ultimi lembi della pianura coltivati a vigneto e aver attraversato la cittadina posta quasi a presidio delle colline, scavalcando con alcuni ponti pittoreschi una borgata medievale che sembrava uscita da un film d’epoca, la ferrovia costeggiava tre laghetti tranquilli, il secondo dei quali sovrastato da una imponente centrale idroelettrica, poi sfiorava una torre antichissima e una chiesetta protesa su uno sperone di roccia, quindi si tuffava audacemente in una serie di brevi gallerie parzialmente aperte sul lato che guardava a valle, le quali gettavano alternativamente ombra e luce nei vagoni e permettevano di scorgere, ma solo per fugaci istanti, la bellezza della valle sottostante, via via che la littorina s’innalzava sempre più decisamente e poi, quasi di colpo, sbucava all’aperto, in mezzi ai boschi sulla riva del lago, fermandosi davanti alla stazione-giocattolo.

Una ripida salita a gradini conduceva direttamente nel cuore del borgo, raggruppato intorno alla chiesa dal tetto spiovente e dal robusto campanile, che recava, sulla facciata, un bassorilievo in pietra del Quattrocento, dedicato da un certo tedesco e che raffigurante Cristo in preghiera nell’Orto degli olivi, con l’angelo che scende recando il calice in mano e i tre apostoli, più in basso, immersi in un sonno tanto profondo quanto innaturale. Un cancello di ferro a lato della facciata consentiva di girare tutto intorno all’edificio sacro e di godere, affacciati come su un belvedere naturale, lo spettacolo entusiasmante delle alte montagne verdeggianti e del lago, adagiato in basso, altrettanto verde, ma vivacizzato dalla presenza di parecchie barche dai colori sgargianti, che si dondolavano sui quel magico specchio d’acqua, di origine naturale ma assai ampliato dall’opera dell’uomo, negli ani Trenta del Novecento.

Oggi ho rivisto quei luoghi non senza emozione e li ho trovati terribilmente silenziosi; è pur vero che non è domenica, col suo carico di villeggianti e che la montagna, quando l’ora del tramonto si avvicina - e lassù si avvicina sempre molto più presto che in pianura - inevitabilmente si vela di una patina di serietà pensosa.

Tuttavia, non è solo questo. Uno dei ristoranti che ricordavo è caduto letteralmente in rovina, ridotto a un ammasso di muri e di tegole anneriti e franati; l’unico albergo è stato trasformato in casa di riposo per anziani; niente più cartoline e oggettini in legno per i turisti; la canonica non c’è più, il vecchio prete è morto e ora provvede il parroco del capoluogo comunale, ma viene solo alla domenica, per dire la messa e via; poche macchine in giro, quasi nessun passante, e molte case malandate, in stato di abbandono; infine, più eloquenti di tutto, diversi cartelli appesi alle finestre con la scritta: «Vendesi».

Tira un venticello gradevole, che scende giù dalla montagna e porta il profumo dei boschi vicini; mi sforzo di vedere le cose in senso positivo.

La scarsità di traffico, ad esempio, è dovuta all’apertura dell’autostrada, che corre più in alto e che prosegue, dopo una stasi ventennale, per una ventina di chilometri ancora; d’altra parte, per realizzare quest’opera gigantesca è stata violentata nel modo più orribile la vallata sul versante opposto, con i piloni ciclopici in cemento e le immense arcate della sopraelevata che scavalca gli alberi e le case come fossero moscerini, imbruttendo irreparabilmente quei luoghi, che avevano la quiete come unico ornamento alla loro bellezza schiva e ritrosa.

La vecchia stazione ferroviaria è adesso in disuso, silenziosa e abbandonata; in compenso, ne hanno costruito una moderna ed asettica proprio di fronte ad essa: per raggiungerla, bisogna discendere un ripido sottopassaggio. I treni che passano sono pochissimi; e il silenzio che regna incontrastato fa male al cuore, ricordando la vivacità e l’animazione di allora.

Mi fermo a fare due chiacchiere con una signora del luogo che, nata e vissuta sempre qui, ben ricorda i tempi passati e, per la verità, non sembra rimpiangerli affatto. «Ha visto che bella la nuova stazione?», mi chiede orgogliosa, illuminandosi in un ampio sorriso. Da lei apprendo che l’edificio della vecchia stazione è stato affittato da una associazione parrocchiale, che vi organizza dei campi estivi di boy-scout: sempre meglio che niente, piuttosto che lasciarla cadere a pezzi…

Le faccio notare il ristorante andato in rovina e le molte case poste in vendita; mi risponde che il ristorante verrà presto restaurato e riaperto e, quanto alle case in vendita, dice che non sono, come pensavo, di gente del posto che si è stufata di quella vita isolata ed è stata sedotta dal miraggio cittadino, ma di persone di fuori, che hanno deciso di investire altrove i loro soldi e, forse, di portarsi più in alto per le loro vacanze estive.

Non è affatto scontenta dei cambiamenti e questo mi fa riflettere. Certo chi viene da fuori non ha il diritto di giudicare, bisogna vivere in montagna, viverci d’estate e d’inverno, con le difficoltà della pioggia e della neve, con la solitudine delle lunghe e precoci notti invernali e il senso di isolamento che si insinua nelle pieghe dell’anima e vi scava le gallerie sotterranee dalle quali, talvolta, erompono forme di autentica depressione; bisogna provare tutto questo in prima persona, prima di giudicare con severità lo spirito pratico che, sfrondati certi fronzoli romantici, introduce elementi di modernità, anche a dispetto dell’estetica e dei diritti della memoria.

La chiesa è chiusa, naturalmente; ma sono fortunato: il marito della signora, che ha le chiavi, vi si sta recando appunto per regolare l’orologio del campanile, che resta indietro di un’ora; così posso approfittare per introdurmi a visitare l’interno. Resto colpito dalla sua piccolezza e dalla sua semplicità: all’esterno, per lo spessore dei muri e soprattutto per la posizione dominante dell’edificio, si poteva immaginare un’aula di notevole ampiezza, invece è piccola e incredibilmente disadorna, anche se - come sempre da queste parti - pulitissima e molto ben curata.

Vi sono un paio di tele di qualche pregio; ma la maggior parte dei muri sono totalmente spogli; in compenso, si respira un’atmosfera di dolce raccoglimento, favorita dalla penombra che gli stretti e rari finestroni creano, senza dubbio, anche nelle mattine di sole. C’è un odore di legno e di cera; si sente l’anima schietta della gente di queste montagne, abituata da sempre a una vita frugale, ma sorretta da una fede robusta nelle realtà invisibili; una fede che le ultime generazioni non hanno saputo conservare e trasmettere a loro volta ai propri figli. Eppure, qui più che altrove essa ancora resiste, anche in forme di religiosità popolare: nelle sagre, nelle processioni e in una caratteristica festa che ricorre proprio in questi giorni, lassù in mezzo al bosco, presso una antica chiesetta, poco più di un’edicola sacra, dedicata alla Madonna.

Cerco di fare un bilancio mentale e spirituale fra il dare e l’avere, fra quello che si è perduto e quello che, forse, si è guadagnato.

I giovani, questo è certo, non si sentono più legati alla montagna come lo erano i loro genitori e i loro nonni; il loro estremo desiderio non è più quello di trovare il riposo eterno nel piccolo cimitero, a fianco della chiesa dove le precedenti generazioni si sono sposate e dove hanno visto battezzare i loro nipotini. A ciò si aggiungono gli effetti della crisi economica, che spingono e costringono i giovani a cercare e accettare un lavoro, quale che sia, sempre più lontano. Quando i vecchi muoiono, le loro case vengono chiuse e messe in vendita o, tutt’al più, diventano le case per l’estate dei loro figli ormai adulti, che sono andato a vivere in città.

A colpo d’occhio si nota il progredire della vegetazione spontanea, che ormai si spinge fino a ridosso dell’abitato. Vi sono ancora degli orti ben curati, ma altri sono stati lasciati andare e adesso li hanno invasi le sterpaglie, che, con il clima piuttosto piovoso, crescono vigorosissime e coprono tutto nel giro di pochi anni. Già questo è un indizio di abbandono, e non è l’unico. Ne approfittano gli animali selvatici per riguadagnare, passo dopo passo, lo spazio che avevano dovuto cedere all’uomo: non è infrequente, adesso, imbattersi in uno scoiattolo in mezzo alla strada, o trovare le tracce delle volpi che scendono a rovistare fin dentro i bidoni della spazzatura.

Anche i servizi pubblici sono quello che sono: la corriera passa di qui, ma solo due volte al giorno, verso le città poste nelle due opposte direzioni, a valle e a monte. Certo non deve essere facile fare lo studente in una borgata così piccola e isolata; non deve essere facile nemmeno essere giovane, sapendo che i coetanei di città possono godere di cinema, bei negozi e locali dove si fa musica, alla sera, fino a tardi.

Chi vive in montagna deve affrontare dei sacrifici che sono addirittura inimmaginabili per gli abitanti delle città. Quei sacrifici venivano sopportati senza recriminazioni quando la filosofia di vita della nostra gente, in pianura come in montagna, nelle città come nei piccoli centri, era improntata alla frugalità e permeata da un forte senso del dovere; ma le cose sono cambiate da quando si è diffusa la cultura della libertà esasperata e dei diritti senza doveri.

Percorro pensieroso una strada che, dalla piazzetta centrale del borgo, si spinge verso l’alto, in direzione dei boschi che ammantano le pendici della montagna. C’è una pace agreste nei piccoli giardini davanti alle vecchie case e nei balconi rallegrati dai vasi di gerani; da lontano giungono le voci allegre di alcuni bambini che stanno giocando.

Rifletto che, sino ad ora, abbiamo contrapposto il progresso alla tradizione, la velocità alla lentezza, la tecnica alla natura, l’opulenza alla povertà; ma ora, resi saggi dai nostro stessi errori, dovremmo imparare ad uscire dal vicolo cieco di questo ricatto intellettuale e morale. Dobbiamo pensare in termini di vero progresso, che comprende anche il rispetto e l’amore per la tradizione; ciò che non equivale a preferire sempre la velocità e la tecnica, ma solo là dove sia realmente necessario, e secondo modalità che pongano al centro le esigenze veramente umane, non quelle artificiali, espressione del più sfrenato consumismo; dobbiamo riscoprire il valore della sobrietà, il quale, a sua volta, ci farà riscoprire tutta una serie di cose importanti, che avevamo scordate.

Solo allora la montagna tornerà ad essere viva; non prima. Non si può umanizzare la vita agendo solo a livello locale; i mali della globalizzazione si diffondono ovunque, per cui occorre una risposta che sia, anch’essa, totale. Si illudono quegli urbanisti e quegli operatori sociali che pensano di ripristinare un circuito virtuoso intervenendo su singoli segmenti della realtà: finché l’organismo è malato, le singole parti non ritroveranno mai la salute.

Il sole al tramonto getta un ultimo riflesso sulle onde del lago, mentre già le ombre si allungano sulla valle e la natura respira il fresco alito di una sera della tarda estate.