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C’è un abisso incolmabile fra il tipo femminile superiore e quello inferiore

di Francesco Lamendola - 08/10/2012




 

Nella settima parte di «Umano, troppo umano», Friedrich Nietzsche afferma che «la donna perfetta è un tipo di umanità più alto dell’uomo perfetto, e anche qualcosa di molto più raro» (affermazione che abbiamo già discusso in un precedente articolo, «La donna emancipata e intelligente è la peggiore compagna possibile per l’uomo?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 17/02/2011); e aggiungeva, in un altro luogo, efficacemente anche se, forse, poco galantemente, che corteggiare le donne intelligenti è un piacere da pederasti.

Quello che Nietzsche non ha detto è che, esteriormente, fra i due tipi femminili estremi, quello superiore e quello inferiore, le differenze sono poche e solo un occhio sapientemente esercitato è in grado di coglierli al volo; altrimenti, solo una lunga frequentazione può tradire, attraverso tutta una serie di indizi, l’impostura che si cela nel secondo tipo.

Non bisogna credere, infatti, che il tipo femminile inferiore corrisponda sempre a una donna particolarmente volgare o grossolana: a parte il fatto che l’abito non fa il monaco, “superiore” e “inferiore” non designano una perfezione astratta, ma essenzialmente una coerenza interna, unita, si capisce, a una serie di qualità dell’anima. Pertanto il tipo femminile superiore (come pure il suo corrispondente maschile) indica colei che incarna senza nascondimenti, senza astuzie e senza trabocchetti, ciò che realmente è, ossia una creatura capace di innalzarsi al di sopra del proprio ego, di fare poco conto delle lodi rivolte alla propria esteriorità e di sapersi rapportare ai propri simili con saggezza, con delicatezza e con bontà.

Il problema, almeno per chi non possiede sufficienze esperienza di vita, è che un tale tipo umano può essere facilmente contraffatto nei gesti e nei comportamenti, almeno sul breve periodo di tempo; ed esiste un tipo femminile che, annoiato dalla mediocrità della propria esistenza, stanco della banalità in cui si muove, vorrebbe disperatamente vedersi promosso, ai suoi stessi occhi e allo sguardo altrui, al tipo superiore, senza possederne, però, le reali caratteristiche, in particolare senza possedere la bontà e la generosità che lo contraddistinguono.

Questa falsa donna-angelo, pertanto, ama presentarsi come colei che risana le ferite, che medica le sofferenze, che incoraggia e che sostiene i viandanti in difficoltà, non per naturale benevolenza o per autentico disinteresse, ma proprio perché vede, nella gratitudine che riesce ad ottenere, il mezzo più sicuro per assurgere a quel ruolo distinto e aristocratico che vorrebbe interpretare e con il quale vorrebbe identificarsi. In realtà, poco o niente le importa del prossimo; ma si cala nella parte della buona samaritana per ricavarne una intima gratificazione e per evader da quella mediocrità che, come una prigione, la spaventa più di ogni altra cosa.

Quasi sempre, la finta donna-angelo è una persona che non ha il coraggio di guardarsi dentro con onestà e, in particolare, che non ha il coraggio di riconoscere il proprio fallimento esistenziale; in fondo alla propria coscienza, ella è convinta di valere molto, e sospetta - ma sospetta soltanto - di essere stata imbrogliata dalla vita, di avere ricevuto da essa molto meno di quanto avrebbe meritato: per esempio, di essersi sposata con un uomo di scarso valore, che non la merita realmente. Però non lo ammetterebbe mai, neppure con se stessa, perché, se lo facesse, dovrebbe anche riconoscersi amareggiata e delusa; mentre è ben decisa a dare di se stessa una immagine lieta e sorridente, quale ci si aspetta di trovare in una vera donna-angelo.

Da questa contraddizione fondamentale tra il suo essere e il suo voler apparire, hanno origine tutta una serie di equivoci e di malintesi nei rapporti col prossimo: ella vorrebbe offrirsi come la donna della serenità e della benevolenza disinteressata, ma, al fondo di se stessa, è il riconoscimento personale quello che cerca; di conseguenza si muove in maniera ambigua, equivoca, manda messaggi assolutamente contraddittori che provocano confusione in coloro che li ricevono: invece di regalare serenità e dolcezza, ella ben presto dispensa ansia e tensioni d’ogni genere, specialmente se nella sua natura esiste una robusta vena di sensualità che malamente cerca di occultare a tutti, e anche a se stessa, ma non abbastanza per evitare che traspaia continuamente e che mescoli richiami e sottintesi carnali alla sua immagine pseudo-angelicata.

Quando il gioco, poi, le sfugge di mano e si producono i risultati inevitabili in ogni situazione ambigua, ossia delusione, sofferenza, infelicità, ella, disonesta con sé e con gli altri fino in fondo, non che lasciar cadere la maschera e confessare l’impostura, si arrocca in posizione difensiva, lamenta di essere stata fraintesa, e, quel che è peggio, lancia la freccia del Parto, infliggendo il massimo del dolore gratuito col negare un’ultima parola di rasserenamento e rifugiandosi dietro le sue false buone intenzioni, come in un recinto protettivo.

Il suo ego ipertrofico e narcisista non le consente una ritirata in buon ordine; vuole primeggiare a ogni costo; e, se non può farlo nel bene, allora lo farà nel male (ma senza avere l’onestà di ammetterlo): vuole, in altre parole, lasciare un ricordo indelebile di sé, un ricordo di dolore, visto che non ha potuto essere un ricordo di dolcezza; e si guarderà bene dal fare il minimo gesto per alleviare il dolore della ferita che ha inferto, anche se ciò non dovesse costarle assolutamente nulla. La sua vanità deve trionfare, in un modo o nell’altro: anzi, se sospetta di essere stata smascherata, allora la sua vendetta sarà particolarmente efferata: non potrebbe accontentarsi di nulla di meno che sapere di aver provocato una ferita che continuerà a sanguinare per sempre.

Impietoso è il ritratto del tipo femminile inferiore che lo scrittore Auguste de Villiers de l’Isle-Adam fa per bocca della Sconosciuta, protagonista del racconto omonimo - affetta da sordità congenita -, parlando con il suo giovane innamorato, il conte Felicien de la Vierge (in: Villiers de L’Isle-Adam, «Racconti crudeli»; titolo originale: «Contes cruels», traduzione dal francese di Maurizio Grasso, Roma, Newton Compton Editori, 1993, pp. 200-01):

 

«…Amico, lasciate che vi sveli il mio segreto. La fatalità, dapprima così dolorosa, che ha colpito il mio essere materiale, mi ha affrancato da tante schiavitù! Mi ha liberato da quella sordità intellettuale di cui è vittima la maggior parte delle altre donne.

Ha reso la mia anima sensibile alle vibrazioni delle cose eterne, di cui le creature del mio sesso conoscono, di solito, soltanto la parodia. Le loro orecchie sono murate a questi echi meravigliosi, a questi sublimi prolungamenti! Dimodoché esse devono all’acume del loro udito la facoltà di percepire soltanto la parte istintiva ed esteriore nelle voluttà più delicate e più pure. Sono le Esperidi, guardiane di quei frutti incantati di cui ignorano il magico valore. Ahimé! Sono sorda… ma loro!.Che cosa sentono!... O meglio, che cosa ascoltano nelle frasi che rivolgono loro, se non un confuso rumore, in armonia con il gioco di fisionomia di chi parla loro!Sicché, inattente non tanto al senso apparente, quanto alla QUALITÀ, rivelatrice e profonda, insomma al VERO senso di ogni parola, si accontentano di discernere un’intenzione adulatrice che le accontenta ampiamente. È quanto esse chiamano il “positivo” della vita, con uno di quei sorrisi…Oh! Vedrete, se vivrete! Vedrete quali misteriosi oceani di candore, di sufficienza e di bassa frivolezza, e nient’altro, si celino dietro quel delizioso sorriso! L’abisso d’amore incantevole, divino, scuro, veramente stellato, come la Notte, che provano le creature della vostra natura, provate a tradurlo a una di loro!... Se le vostre espressioni riescono a filtrare fino al suo cervello, vi si deformeranno, come una sorgente pura che attraversa un acquitrino. In realtà, quella donna non le avrà sentite. “La vita non può esaudire questi sogni”, vi diranno, “e voi chiedete loro troppo”. Ah! Come se la Vita non fosse fatta per i vivi! […] Sì […], una donna non sfugge a questa condizione naturale, la sordità mentale, a meno forse di pagare il suo riscatto a un prezzo inestimabile, come me. Voi attribuite alle donne un segreto, poiché esse si esprimono solo mediante atti. Fiere, orgogliose di quel segreto, che esse stesse ignorano, amano lasciar credere che lo si possa scoprire. E ogni uomo, lusingato di credersi l’atteso indovino, mette a repentaglio la propria esistenza pur di sposare una sfinge di pietra. E nessuno tra loro riesce a elevarsi IN ANTICIPO fino alla riflessione che un segreto, per quanto terribile sia, non viene MAI espresso, è identico al nulla.»

 

Felicien, irruento e inesperto, sentendola parlare così, crede di aver trovato in lei una donna del tipo più eccelso e, incurante della sua infermità e delle sue proteste, le propone di sposarla e di unire per sempre le loro vite; ma ottiene solo un deciso rifiuto, il che gli fa esclamare (ibidem, p. 203):

 

«… Ma voi aprite nel mio cuore dei baratri d’infelicità e di collera!ono giunto alla soglia del paradiso e devo richiudere davanti a me la porta che affaccia su tutte le gioie! Siete la tentatrice suprema? Insomma… mi sembra di veder risplendere nei vostri occhi non so quale orgoglio per avermi reso disperato.»

 

Per fortuna, il tipo femminile superiore, o perfetto, come lo chiama Nietzsche, esiste, e talora si ha la ventura di incontrarlo; o, per esprimersi meglio, lo si incontra quando si intraprende con onestà e con coraggio il proprio cammino di consapevolezza. Nella vita, infatti, il simile chiama il simile e si fanno gli incontri che corrispondono al proprio livello di consapevolezza. Cioè, fra tutti gli incontri che continuamente facciamo, in maniera apparentemente casuale, divengono significativi per noi quelli che corrispondono al nostro grado di chiarificazione interiore. Chi si è spinto un po’ più avanti lungo il sentiero, riconosce facilmente la differenza fra il tipo femminile superiore e quello inferiore, che ne è la caricatura e, alla lettera, il tentativo di contraffazione; così come una persona esperta riconosce di primo acchito la moneta buona da quella falsa.

Vi possono essere, tuttavia, delle circostanze particolari, per cui tale riconoscimento non avviene, o non avviene subito: per esempio, l’estrema stanchezza del cammino, la sete ardente, il bisogno istintivo di trovare comprensione umana e riposo; in tali situazioni, anche un’anima che sia fondamentalmente onesta e coerente può incorrere in un fraintendimento e lasciarsi ingannare dalle apparenze.

La caratteristica fondamentale del tipo femminile inferiore è la mancanza di onestà. La donna che vi appartiene sa quel che le manca e quel che la rende insoddisfatta, ma, per orgoglio, non lo vuole ammettere; preferisce così costruirsi un castello di menzogne e di illusioni, una sorta di bovarismo alla rovescia, perché pensa che, se riuscirà ad ingannare gli altri, potrà ingannare anche se stessa quanto basta per mettere a tacere il sordo scontento che le brontola in fondo all’anima. Egoista, superficiale, vendicativa, vorrebbe apparire altruista, profonda e generosa: perché la maschera le venga strappata, è necessario che incontri il tipo umano superiore (sia esso maschile o femminile), perché solo così le sue finzioni verranno neutralizzate.

Raro è dunque incontrare, sui sentieri della vita, il tipo femminile superiore; ma forse bisognerebbe precisare che tale rarità è dovuta, almeno in una certa misura, al fatto che sono pochi i viandanti assolutamente puri e disinteressati, che si mettono per via armati di coraggio, disposti a rimettersi continuamente in discussione e a strapparsi le maschere con le quali un po’ tutti, per istinto di conservazione, tendiamo a nasconderci e a spacciarci per quel che non siamo.

È molto più facile, da un punto di vista esteriore, fingere di essere piuttosto che essere: ed è proprio questa la radice di quasi tutti i mali che rendono così faticosa e tribolata la vita, e non solo quella affettiva, in mezzo ai propri simili. Chissà, forse è proprio questo che sentiva quel marinaio scozzese di nome Alexander Selkirk, il quale, dopo aver trascorso più di quattro anni su di un’isola disabitata del Pacifico, quando venne salvato da una nave e riportato in patria, fu visto spesso aggirarsi per i boschi e udito sospirare: «Oh mia amata isola, se non ti avessi mai lasciata!».

Il fatto è che tipi superiori raramente si nasce, di solito si diventa: e si diventa tali attraverso cadute, errori e sofferenze; ma, soprattutto, a prezzo di sacrifici, di coerenza e di coraggio. E sia il coraggio che la coerenza si sviluppano mediante la volontà, perché dipendono da noi, non da un destino misterioso e incomprensibile. Possiamo diventare quel che vogliamo, se lo vogliamo davvero. E, se ci mettiamo sulla via del perfezionamento, verrà una Forza dall’alto, ad assisterci e incoraggiarci.

Forse verrà, radiosa, una vera donna-angelo; non una falsa, irretita nelle proprie contraddizioni…