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La Siria è già in guerra

di Spartaco A. Puttini - 14/10/2012

Fonte: Marx21




“Una stampa libera non esiste. Voi, cari amici, ne siete consci e io anche. Nessuno fra noi oserebbe dire la propria opinione liberamente e apertamente [...] Noi siamo le marionette che saltano e ballano quando quelli tirano i fili. […] Non siamo altro che prostitute intellettuali”
[John Swainton, ex direttore del “New York Times”]



A seguito delle scaramucce di frontiera tra la Siria e la Turchia la crisi siriana potrebbe subire una recrudescenza. Ankara ha chiesto una riunione della Nato minacciando un coinvolgimento militare diretto nella vicende siriane a seguito del colpo di mortaio proveniente dal territorio del vicino paese arabo che è costato la vita ad alcuni cittadini turchi in un villaggio di frontiera. Erdogan ha ordinato un bombardamento punitivo su alcune postazioni militari siriane ai confini.

“Guerra a bassa intensità” contro Damasco

In realtà, da un certo punto di vista, la Siria è già in guerra. Il paese è in preda all’assalto di bande armate e commandos in gran parte composti da mercenari provenienti da vari paesi del mondo islamico. Quella della rivolta popolare contro il regime appare sempre più per quello che è: una bufala dei media per camuffare gli eventi della tragedia siriana e plasmare l’opinione pubblica al fine di garantire il consenso, quantomeno passivo, ad una nuova, possibile, escalation bellica occidentale.
Monsignor Kassab è stato lapidario: “per favore non venitemi a dire che si tratta di una battaglia per la libertà, perché sarebbe una bestemmia" [1].
Le bande terroriste che agiscono contro la Siria hanno i loro santuari oltre confine: in Giordania, in Iraq e in Turchia. Proprio il tentativo di impedire la penetrazione in territorio siriano o di inseguire queste bande può aver provocato l’improvvido e grave incidente che ha scatenato la reazione, sproporzionata, di Ankara. Questa tuttavia non è una certezza e il ripetersi della dinamica potrebbe anche indurre a ritenere che le stesse bande armate siano coinvolte in atti di deliberata provocazione al fine di ottenere un supporto più diretto nel loro confronto con l’esercito regolare della Repubblica araba di Siria [2]. Confronto che, stando ad alcuni osservatori [3], sta mettendo a nudo che i gruppi armati sono capaci di destabilizzare il paese ma non di rovesciare il governo imponendo un regime change con la violenza.
Che la Turchia ospiti basi delle bande antigovernative, vere e proprie contras, non è più un segreto per nessuno. Tali bande sono organizzate, finanziate, armate e addestrate da un blocco di paesi eterogeneo ma ben affiatato nel condurre quella che in gergo si definisce una “guerra a bassa intensità” contro la Siria. Tra i sostenitori delle azioni terroriste in Siria, come ormai ammette candidamente la stessa stampa anglo-americana, figurano: Arabia Saudita, Qatar, Giordania, Turchia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, emirati del Golfo, i tagliagole libici che hanno rovesciato Gheddafi e raso al suolo il loro paese riportandolo all’età della pietra, e il network ben collaudato della guerriglia estremista di ispirazione wahhabita che aveva avuto il suo battesimo del fuoco durante la guerra contro l’Afghanistan negli anni Ottanta e che, da allora in poi, è stato spesso arruolato con la funzione di ariete e di junior partner degli Usa e della Nato nelle loro attività di destabilizzazioni di paesi e aree che per ragioni geopolitiche finivano al centro delle attenzioni, non proprio benevole, di Washington.
E’ curioso vedere monarchia assolute e tradizionalmente retrograde come l’Arabia Saudita e gli altri satrapi del Golfo spendere così tante risorse per “costruire” la democrazia in Siria abbattendo lo stato siriano, così come suona stridente sentire le dichiarazioni del governo statunitense che, nonostante tutto il suo operato, si erge ancora a difensore dei diritti umani.
Quella che è in corso è la “demolizione controllata” dello Stato siriano. Controllata per modo di dire, ovviamente, dato che non è la prima volta che l’Occidente segue gli Usa nell’esperimento di evocare il mostro dell’estremismo islamista reazionario, salvo poi rendersi conto di avere aperto il vaso di Pandora ed aver suscitato forze distruttive che possono nuocere persino ai loro padrini. Ma di fronte al premio geopolitico del collasso dell’antemurale siriano e del possibile assoggettamento del Vicino Oriente al proprio giogo nemmeno tragedie come quella compiutasi recentemente a Bengasi possono suggerire prudenza. Era prevedibile che con il ritorno al vertice della politica statunitense di Brzezinski, seppur per interposta persona tramite Obama, gli Usa riesumassero lo storico connubio con le bande islamiste radicali. Fu Brzezinski il fautore dell’appoggio ai mujaheddin afghani contro il governo di Kabul (prima, durante e dopo il coinvolgimento dei sovietici nel conflitto). E’ questo il significato del seppellimento dell’ascia di guerra, della sconfessione della mistica dello scontro di civiltà che era propria degli estremisti religiosi dell’Amministrazione Bush, i quali, a dire il vero, ad una collaborazione con tali settori in altre caselle della scacchiera (Caucaso) non avevano probabilmente mai rinunciato.

Le Contras in azione

Che dall’esterno si appoggino i “ribelli”, come vengono definite pudicamente le truppe mercenarie, è il segreto di pulcinella. Si tenga a mente che senza questo appoggio il sangue in Siria smetterebbe di scorrere presto e si potrebbe profilare un vero dialogo per una transizione ordinata. Ma non è questo che interessa ai nemici della Siria, perché una transizione ordinata, ancor più se democratica, lascerebbe probabilmente il potere in mano alle componenti della sinistra nazionalista e antimperialista, e per gli Usa si sarebbe da capo. Tanto vale spazzare via l’ostinata e troppo orgogliosa nazione siriana. Per farlo cosa di meglio che puntare sulla mattanza interconfessionale arruolando pazzi fanatici e avanzi di galera che seguono le incitazioni all’odio settario di un predicatore saudita, Saleh el-Haidan, per il quale un terzo dei siriani deve morire affinché i restanti due terzi possano vivere?
Si spiegano così i documentati racconti sugli efferati massacri indiscriminati di civili effettuati nelle zone che vengono occupate dalle bande e che i nostri media imputano poi al “regime" [4]. Imputazioni che non reggono nemmeno dal punto di vista logico: che interesse può avere Assad, che ha sempre favorito un clima laico di convivenza paritaria tra le varie confessioni religiose, a gettare il paese nell’abisso delle faide settarie che non possono fare altro che minare le basi della convivenza civile e dello Stato? Che senso avrebbe fare saltare in aria le caserme che ospitano i soldati governativi? O decapitare addirittura le Forze Armate?
L’azione terrorista che ha portato allo spettacolare attentato che ha colpito alcuni tra i più alti dirigenti dello Stato maggiore generale deve essere probabilmente inserita nel contesto di una strategia volta ad eliminare i responsabili dalle strutture di comando per poi lanciare un’offensiva su vasta scala contro Damasco con colonne provenienti in modo convergente da varie parti del paese e da oltre confine. L’azione ha molto probabilmente beneficiato della regia satellitare e di intelligence di molti paesi occidentali. Ma Damasco ha tenuto. Le bande, così baldanzose nell’infierire contro i civili per rendere impossibile la convivenza e il dipanarsi della normale vita quotidiana dei cittadini siriani che si piccano di difendere, si sono rivelate comunque impotenti a tener testa all’esercito regolare, almeno per ora. Questo nonostante la partecipazione sul campo di istruttori ed esperti in guerriglia e controguerriglia provenienti dai più diversi paesi (compresi Francia e Turchia, ma anche la Gran Bretagna rivendica la presenza di numerosi membri dei suoi corpi d’élite).
Il piano di destabilizzazione in corso ricorda in modo impressionante quello orchestrato contro il Nicaragua sandinista negli anni Ottanta tramite le contras (oltre che quello già menzionato contro l’Afghanistan nello stesso torno di tempo). Risulta apparentemente inspiegabile come tale connessione non sia balzata agli occhi di quella parte di opinione pubblica che un tempo non aveva esitato a mostrare la propria inclinazione pacifista e che ora sembra obnubilata dalla massiccia e unidirezionale propaganda guerrafondaia antisiriana.
Una delle corde toccate dalle sirene più sottili della propaganda consiste nel dipingere il “regime” siriano come una dittatura settaria e clanica la cui sorte è legata allo scontro interno al mondo musulmano (fitna) tra sciiti e sunniti. Non a caso gli alawiti, in qualche modo sciiti, avrebbero tessuto l’asse con gli ayatollah, si sostiene.
Ma l’alleanza con l’Iran venne stabilita sulla base della convergenza strategica in funzione antimperialista nella regione, al di fuori di qualsiasi possibile contiguità ideologica tra i due regimi politici, mentre le insinuazioni sulla concentrazione del potere nelle mani della minoranza alawita risultano ad una sommaria verifica pura propaganda. Il “regime” è sempre stato laico e multi-confessionale e se ne è sempre fatto un vanto. Questo spiega perché le numerose comunità cristiane siriane si siano schierate con il presidente. Alle alte cariche dello Stato e della pubblica amministrazione siedono esponenti provenienti da qualsiasi gruppo confessionale, con ovvia prevalenza della maggioranza sunnita. La stessa moglie di Bashar Assad è sunnita..
Con questo non si vuole abbellire il regime politico siriano, comunque meglio dei suoi omologhi nella regione che vorrebbero deporlo, ma guardare i fatti per quello che sono e non per quello che vorremmo. L’alternativa alla attuale situazione politica non risiede nell’astrattezza dei sogni o delle aspettative nutrite dalle disinformate opinioni pubbliche occidentali ma è legata alla situazione concreta sul campo. Il mito del diffondersi della democrazia e di una non meglio precisata libertà, che per qualcuno può essere portata col carico dei bombardieri, è appunto solo una leggenda. Come diceva un militante antibonapartista francese, Rogeard, uno che di libertà se ne intendeva, “la leggenda è la bruma della storia. Guai a chi osa correre in quella nebbia! Ci sono popoli che hanno smarrito il loro cammino”.

La lunga miccia

La questione non è quella manichea tra bene e male, astrattamente intesi, ma consiste nel porsi la semplice questione: se cade il governo siriano cosa succede?
Se cade il governo la Siria perderebbe la sua sovranità. Senza sovranità non si può avere nessuna democrazia, nemmeno in potenza, con buona pace di tante anime belle. Si scatenerebbe il caos e la Siria diverrebbe un inferno più di quanto oggi non sia a causa della guerra foraggiata dall’esterno. Come è avvenuto in Libia del resto. La scomparsa del paese che storicamente ha rappresentato un argine alle scorribande imperialiste in Medio Oriente comporterebbe un brusco alterarsi dell’equilibrio nella regione con il collasso del Libano e l’isolamento definitivo dell’Iran, prodromo di nuove guerre. Tutto ciò segnerebbe un successo per il tentativo statunitense di imporre al resto del mondo la propria indiscutibile egemonia. E’ questa la ragione per cui Russia e Cina osteggiano il tentativo occidentale di sfruttare qualsiasi pretesto, vero o presunto, per scatenare un conflitto diretto e ricorrono sistematicamente al veto in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La popolarità di Assad, taciuta pudicamente dai media, è determinata paradossalmente anche dalle efferatezze compiute dalle bande armate e dalla prospettiva apocalittica che la loro vittoria si materializzi, cosa che la stragrande maggioranza dei siriani intende scongiurare.
Proprio per questo probabilmente qualcuno negli Usa o tra i loro alleati cerca il casus belli per un coinvolgimento diretto.
Ma un coinvolgimento diretto potrebbe accendere una lunga miccia capace di minacciare potenzialmente la pace a livello mondiale. Di fronte ad un attacco diretto alla Siria l’Iran (che ne è l’alleato principale) non potrebbe stare a guardare e verrebbe facilmente coinvolto. A questo punto gli spazi di manovra per Russia e Cina diverrebbero assai stretti perché le due Potenze non possono mollare l’Iran al suo destino nel quadro del braccio di ferro che ormai ingaggiano a livello mondiale con gli Stati Uniti per scongiurare un nuovo ordine statunitense e affermare un equilibrio multipolare nelle relazioni internazionali.
Ecco perché quella contro la Siria potrebbe non essere una guerra come le precedenti e potrebbe risultare molto difficile circoscriverla. Quando scoppiò la Grande guerra nell’estate del 1914 i principali dirigenti politici dei paesi coinvolti si sentirono trascinati verso il baratro da processi che, una volta avviati, non erano più in grado di controllare. Processi che correvano seguendo la tempistica necessaria delle mobilitazioni. Ma un secolo fa per mobilitare occorrevano alcune ore, oggi per gestire l’ipotetica spirale costituita dal puntamento dei missili, della batteria antimissili, dei sottomarini nucleari, della distruzione dei satelliti e del corredo cyber war necessario e preventivo bastano una manciata di minuti. Un soldato portato al fronte può attendere indefinitamente l’ordine di sparare e, al limite, può smettere di farlo. Un missile lanciato non si può fermare.
Il tempo per pensarci è adesso. Ecco perché le posizioni più responsabili in questa crisi sono quelle dei paesi che invitano a non soffiare sul fuoco, a promuovere il dialogo, a non ingerirsi nelle vicende interne siriane e a non sostenere le bande armate.
Anche solo minacciare un coinvolgimento diretto, al fine di dividere le forze dell’esercito siriano per costringerlo a sguarnire il fronte interno tramite pressioni sui confini, è un gioco pericoloso, che può provocare conseguenze incalcolabili.

C’era una volta il movimento per la pace…

Il grande assente della tragedia è il movimento della pace nei paesi occidentali, specie in Italia. Eppure la Siria è una nazione con la quale abbiamo sempre avuto relazioni commerciali e politiche importanti. Su un numero della rivista “30 giorni”, diretta da Giulio Andreotti, di qualche tempo fa è possibile vedere in copertina l’incontro ufficiale tra Napolitano e Bashar Assad, a cementare la tradizionale amicizia. Ma probabilmente il Capo dello Stato preferisce non ricordare questo episodio, forse il migliore, dopotutto, della sua discutibile presidenza. Eppure in questo clima il ministro degli Esteri, Terzi di Sant’Agata, getta irresponsabilmente benzina sul fuoco e spinge per un drammatico precipitare degli eventi verso la guerra. L’Italia può trarre solo danni e preoccupazioni dall’instabilità del bacino del Mediterraneo, dal proliferare sulle sue coste di gruppi terroristi e dal venir meno di interlocutori stabili. Ma siamo certi che in questo Parlamento di nominati e di pasdaran del governo tecnico nessuno gliene chiederà conto. Perché ormai, grazie ad una martellante propaganda, siamo assuefatti alle parole d’ordine di chi dirige l’orchestra ed anche in questo caso, soprattutto in questo caso, non bisogna disturbare i manovratori di Washington.
Per la stessa ragione, per insufficiente capacità di lettura delle dinamiche della vita internazionale, anche il movimento per la pace ha esaurito la sua spinta. Di quello che fino a qualche tempo fa era stato definito con molta fantasia e scarso realismo “la seconda superpotenza mondiale” oggi non resta molto. L’agitarsi senza tenere presente il reale pericolo che vive l’umanità oggi (tra rischio di un confronto termonucleare e minaccia di un nuovo ordine mondiale statunitense divoratore della sovranità nazionale) porta inevitabilmente ad un affievolirsi delle mobilitazioni per la pace, ad un assopirsi delle stesse coscienze, a un rattrappirsi del movimento contro la guerra.
Al di fuori della presa di coscienza sulla minaccia rappresentata dall’imperialismo e sul legame che corre tra la difesa delle sovranità e lo sviluppo di una politica portatrice di benessere per le classi popolari non resta altro che intendere la pace come una questione di sensibilità, rara se si ritiene (a torto) che la guerra coinvolga solo quei “lontani” popoli. Ma purtroppo la sensibilità è troppo poco per una diffusa presa di coscienza dei pericoli e della nocività di una nuova guerra di aggressione.

NOTE

1 MISNA, cit. in: cambiailmondo.org 03/10/2012

2 Persino il “New York Times” ha ammesso a mezza voce che in realtà “non si sa se i proiettili di mortaio siano stati sparati dalle forze governative siriane o dai ribelli”. Si veda: T. Arango e A. Barnard, Turkey Strikes Back after Syrian shelling Kills 5 Civilians: http://www.nytimes.com/2012/10/04/world/middleeast/syria.html?_r=2&;smid=tw-share&

3 T. Meyssan, Vers un retrait occidental de Syrie; www.voltairenet.org

4 Si veda: U. Putz, “Der Spiegel” versione online 29/3/2012 http://www.spiegel.de/international/world/profile-of-rebels-in-homs-and-their-executioners-a-824603.html; Si vedano anche il documentato articolo di Bahar Kimyongur, Il terrorismo anti-siriano e i suoi collegamenti internazionali; www.resistenze.org 16/04/2012 e S. Cattori, Homs, un testimone racconta il terrore: sono gruppi armati non è Damasco; http://www.silviacattori.net/article2800.html