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Usa: i candidati dell’impero

di Michele Paris - 24/10/2012


Nel terzo e ultimo dibattito presidenziale prima del voto del 6 novembre, Barack Obama è sembrato conservare qualche traccia dell’aggressività mostrata nei confronti del suo rivale repubblicano la settimana scorsa a Long Island. Il presidente ha potuto così raccogliere i favori degli elettori che hanno seguito il faccia a faccia in diretta TV dedicato quasi per intero alle questioni di politica estera, attorno alle quali entrambi i pretendenti alla Casa Bianca hanno prevedibilmente assicurato, in caso di successo, una sostanziale continuità delle politiche volte alla difesa degli interessi dell’imperialismo a stelle e strisce nel mondo.

Il dibattito di lunedì sera è andato in scena presso la Lynn University di Boca Raton, cittadina sulla costa atlantica della Florida, ed è stato moderato dal veterano della CBS, Bob Schieffer. Le impressioni raccolte dai media d’oltreoceano hanno indicato un chiaro e rapido deterioramento dell’interesse degli spettatori, in buona parte interessati per lo più ai match di baseball e di football in onda in contemporanea sulle reti nazionali.

L’indifferenza diffusa nei confronti del dibattito testimonia anche della relativa secondarietà dei temi legati alla politica estera americana in un momento di grave disagio economico e, più in generale, della distanza abissale che separa i due candidata alla presidenza, così come tutta la classe politica USA, dalla maggioranza della popolazione.

Inoltre, lo scarso interesse del pubblico è da attribuire anche al fatto che, nonostante gli scambi di battute vivaci tra Obama e Romney, i due hanno mostrato una piena identità di vedute sulle questioni di politica estera, rivelando come le differenze di natura puramente strategica tra le élite economiche e finanziarie sul fronte domestico vengono puntualmente ricomposte quando si tratta di proiettare il potere e gli interessi della classe dirigente americana nel mondo.

Anche i media mainstream, impegnati nello strenuo tentativo di propagandare il voto di novembre come una scelta epocale tra due opposte visioni, hanno perciò dovuto ammettere che i candidati hanno finito per concordare su quasi tutti i temi trattati durante la serata. Entrambi hanno così confermato piena fedeltà a Israele, mentre si sono detti d’accordo sull’uso dei droni, sulla strategia da adottare verso l’Iran e la Siria, sull’approccio agli eventi della Primavera Araba, sulla gestione della crescente rivalità con la Cina, sulla questione palestinese e sul ritiro dall’Afghanistan.

Mitt Romney ha inoltre elogiato Obama per l’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan e, dopo la gaffe della scorsa settimana durante il dibattito alla Hofstra University, ha evitato di attaccare il presidente sulla questione che ha monopolizzato il dibattito politico negli Stati Uniti nell’ultimo mese, cioè la risposta data dalla sua amministrazione all’assalto al consolato USA di Bengasi dello scorso 11 settembre che ha causato la morte dell’ambasciatore J. Christopher Stevens e di altri tre cittadini americani.

Sul Washington Post, ad esempio, l’editorialista David Ignatius ha parlato martedì di una doppia affermazione per Obama, dal momento che il presidente non solo avrebbe espresso le proprie posizioni in maniera più convincente, ma queste ultime hanno anche ricevuto una sorta di approvazione da parte di Romney. L’articolo principale dedicato dal New York Times all’evento di Boca Raton ha invece fatto notare come il dibattito abbia evidenziato differenze prevalentemente di toni e di stile attorno alla politica estera piuttosto che nei contenuti.

Alcuni commentatori si sono poi interrogati sui motivi per cui Romney, come ha fatto fin qui in campagna elettorale, non abbia espresso posizione più estreme, visto anche che tra i suoi consiglieri di politica estera figurano numerosi “neo-con” legati all’amministrazione Bush jr. Tale atteggiamento è dovuto in primo luogo all’estrema impopolarità di queste politiche guerrafondaie, che quindi non possono essere espresse apertamente, ma anche al fatto che le decisioni prese da Obama in questi quattro anni hanno già rappresentato una netta svolta a destra fino ad andare oltre, per molti versi, il suo stesso predecessore.

La relativa reticenza di Obama e Romney non deve tuttavia far dimenticare che, chiunque si insedierà alla Casa Bianca a gennaio, il governo americano proseguirà i preparativi già in atto per nuove e rovinose guerre - contro Siria o Iran - dietro le spalle della popolazione americana.

In sostanza, al di là della retorica di lunedì, ciò che è stato comunicato agli elettori con il dibattito è che Obama e Romney continueranno a mettere in atto una politica estera fatta di guerre illegali, spesso con pretesti di natura umanitaria, di assassini senza giustificazioni legali sul territorio di paesi sovrani che non sono in guerra con gli Stati Uniti, di appoggio od opposizione a regimi autoritari a seconda che essi servano od ostacolino gli interessi delle élite americane.

Se di questi scenari non si è parlato apertamente nel corso del faccia a faccia tra Obama e Romney, il dibattito è comunque poggiato su una premessa implicita ugualmente inquietante e condivisa sia dai candidati che dal moderatore e da tutta l’intellighenzia mainstream, cioè la presunta indiscutibile superiorità morale che permette agli Stati Uniti di mettere in atto le proprie strategie imperialiste senza rendere conto a niente e a nessuno, calpestando i diritti di civili e di paesi sovrani, nonché infliggendo morte e distruzione in ogni angolo del pianeta dove i loro interessi sono in gioco.

Una simile politica estera, così come quella economica che favorisce unicamente i poteri forti, è in realtà fermamente osteggiata dalla maggior parte della popolazione, soprattutto dai lavoratori, dai disoccupati e dai giovani americani, tra i quali si registrano comprensibilmente i più elevati tassi di astensione. Ciononostante, i principali media d’oltreoceano non provano nemmeno a mettere in discussione l’autoproclamata supremazia USA, evitando accuratamente di porre qualsiasi domanda scomoda ai candidati di entrambi i partiti.

Un esempio di tale atteggiamento durante il dibattito di lunedì è stato l’argomento dell’assassinio di bin Laden, un atto illegale condotto contro un uomo disarmato e nel disprezzo di un paese sovrano, considerato al contrario interamente legittimo e utilizzato dal presidente per ostentare le proprie credenziali nell’ambito della sicurezza nazionale.

Ancora, nel discutere l’impatto delle sanzioni imposte in questi anni a Teheran, Obama ha descritto con orgoglio e, nuovamente, come del tutto legittimo il crollo dell’economia iraniana provocato, considerando le sofferenze e i disagi inflitti alla popolazione come trascurabili effetti collaterali.

Per quanto riguarda gli equilibri nella corsa alla presidenza, in ogni caso, anche se Obama avrebbe “vinto” due dibattiti su tre, il bilancio complessivo dei faccia a faccia ha comunque favorito Romney. Il miliardario mormone, infatti, è riuscito ad azzerare nei sondaggi nazionali il vantaggio accumulato dal rivale democratico dopo le convention della scorsa estate, soprattutto grazie all’inaspettata prestazione nel primo dibattito di Denver.

Il percorso di Romney verso la vittoria nell’election day rimane comunque in salita, dal momento che Obama sembra mantenere per il momento un certo margine in alcuni stati chiave, a cominciare dall’Ohio, che risulteranno decisivi per assicurarsi l’ingresso alla Casa Bianca.