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Francesco: il più inascoltato dei santi italiani

di Franco Cardini - 25/10/2012



Non so, e senza dubbio può essere una mia personale ignoranza, chi abbia mai pronunziato per primo la peraltro fortunata formula “Francesco, il più santo degli italiani, il più italiano dei santi”. Si tratta senza dubbio di uno slogan efficace: molti lo attribuiscono a Benito Mussolini, il quale effettivamente lo fece proprio fin da quando nel 1926, in coincidenza con la celebrazione del settecentenario del Transito del Povero d’Assisi, volle conferire all’evento il carattere della celebrazione nazionale segnata da una solennità paragonabile a quanto si era fatto cinque anni prima, in coincidenza con il seicentenario della morte di Dante. Il nesso tra Dante e Francesco, a parte il celebre canto XI del Paradiso, era evidente: si tratta dei due principali fondatori della lingua e della poesia italiane, e nel processo di costruzione dell’identità nazionale necessario al consolidamento dello stato nazionale l’idioma era valore fondamentale.
E’ tuttavia credo possibile (personalmente non ho fatto verifiche) che la celebre formula sia dovuta non già a Mussolini, bensì ad Antonio Rosmini: nel qual caso è molto probabile che essa sia stata segnalata al Duce, che la fece propria, da Giovanni Gentile il quale del Rosmini appunto era attentissimo studioso. Essa è d’altronde azzeccata nella misura in cui ci si pone il problema di quando sia nata la nazione italiana, di quando si sia potuto cominciar a parlare di italiani (e non solo di “italici”, vale a dire di abitanti della penisola). Non c’è dubbio che una nazione si definisce primariamente attraverso l’idioma: in questo senso, il Cantico delle Creature – che è tra l’altro, con la sua lode altissima al Creatore e al Creato, un perfetto e inimitabile manifesto anticataro scritto proprio in un momento nel quale la Chiesa era impegnata nella lotta (anche armata) contro l’eresia che veniva ordinariamente chiamata “albigese” – ha il valore di un vero e proprio atto di fondazione dell’identità nazionale.
Se tutto ciò non serve a comprovare che Francesco sia davvero “il più santo degli italiani” (anche perché stabilire un Guinness dell’intensità santorale resta cosa ardua se non impossibile), vale quanto meno a verificare la validità della seconda parte di quella fortunata definizione: “il più italiano dei santi”, nel senso che nessuno tra i canonizzati dalla Chiesa ha mai fatto per la lingua e quindi per l’identità nazionale italiana quel che ha fatto Francesco in quanto scrittore e poeta.
Ma da qui a ritenere che sul serio se ne possa ricavare un modello di “santità italiana”, ce ne corre. Specie adesso, in tempi di Modernità sia pure in crisi e di consumismo sia pure in pericolo.
Basta riflettere: in che cosa consiste la Modernità, quanto meno quella che Zygmunt Baumann ha definito “Modernità solida”? Nata nel Quattro-Cinquecento, essa non è certo priva di radici e di una qualche continuità con la storia del mondo occidentale (ch’era a quel tempo l’Europa erede della pars Occidentis configurata dall’Editto di Teodosio e segnata dalla disciplina ecclesiale romana e dall’uso liturgico, giuridico e civile della lingua latina), ma rappresenta tuttavia una vera e propria rivoluzione che ha ridefinito l’Occidente stesso. Si può addirittura sostenere che Modernità ed Occidente moderno e contemporaneo coincidano: che, insieme, costituiscano una indissolubile endiadi e una realtà profondamente rivoluzionaria. Credo si possa adddirittura parlare di una “rivoluzione occidentale” alla base del mondo moderno: essa è anzitutto originariamente  basata su un geniale rovesciamento di rapporti tra produzione e consumo (tra XII e XV secolo si verificò un ribaltamento di piani nell’Europa occidentale, sulla base del quale non fu più il consumo a regolare i ritmi della produzione, come si era sempre verificato e avrebbe continuato a verificarsi in qualunque altra civiltà umana, bensì questa a dover seguire il trend indefinitivamente ascendente di quello in una travolgente corsa verso l’altrettanto indefinita crescita dei profitti). Quella “rivoluzione occidentale”, accompagnata con la decisa riscoperta dei valori filosofici antichi, consentì la nascita di un individualismo sempre più assoluto e del primato dell’economia e della dimensione del progresso (le scoperte e le invenzioni) che le tennero dietro. Le basi della “rivoluzione della Modernità” furono l’individualismo – dal quale nacquero stati assoluti prima, democrazie più tardi – e la Volontà di Potenza applicata in ogni campo, dall’economico al finanziario al politico al militare al tecnologico. Tali le forze che indussero, e che in un certo senso addirittura obbligarono, il mondo occidentale a farsi padrone della terra e dei popoli che la abitano, avviando “economia-mondo” e “scambio asimmetrico”. Tali le forze che adesso sono entrate in crisi in quella che il Baumann ha definito “Modernità liquida”, che le contesta, mostra di non confidare più in esse ma al tempo stesso ha difficoltà a sostituirle con altri valori, con altri obiettivi.
Ebbene: se è così, il Povero di Assisi fu un santo radicalmente antimoderno, sia pur ante litteram. Quando si parla della “povertà francescana”, si dimentica spesso quel che mi sembra fra tutti gli studiosi del nostro tempo sia stato sottolineato con energia, fermezza e lucidità speciali da Giovanni Miccoli: la paupertas  francescana, esattamente in linea con il “Discorso delle Beatitudini” di Gesù, è non già semplicemente egestas, non già puro e limitato rifiuto della ricchezza materiale, bensì totale e radicale rinunzia a qualunque tipo di Volontà di Potenza individuale; a partire dalla sapienza e dalla cultura, a loro volta forme fondamentali di ricchezza e di potere.
Ma appunto in ciò il modello e l’esempio di Francesco colpiscono la radix omnium malorum della Modernità, ch’è in ultima analisi il culto sfrenato e unilaterale di qualunque forma di individualismo e di Volontà di Potenza. Il “farsi pusillo” di Francesco, il proclamarsi Ultimo, il mettersi al servizio degli Ultimi, configura non solo una teologia ma soprattutto un’antropologia  in totale, assoluto e insanabile contrasto con quanto è prevalso in Occidente nell’ultimo mezzo secolo e con quanto il travolgente e prepotente revival liberal-liberistico postmoderno va proclamando da alcuni anni a questa parte.
Francesco va di moda: gli si dedicano romanzi, films, “originali” televisivi. Va di moda in una società che, di fatto, ne disattende, ne offende e ne calpesta di continuo il modello e l’esempio. La Modernità può essere anche “cristiana” e “postcristiana” nelle forme, nelle consuetudini e nell’esteriorità; può confondere la carità con l’umanitarismo e l’altruismo che ne sono  patetica e superficiale caricatura; ma è radicalmente antifrancescana in quanto è radicalmente cristiana, e non ci sono “cristianisti”, non ci sono “atei devoti” che tengano. E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente e irremissibilmente l’Ego a Dio, in quanto predica libertà religiosa e tolleranza solo in quanto legittimazioni di un sistema civile, sociale, morale e intellettuale di vita da viversi etsi Deus non daretur. E’ antifrancescana, e come tale anticristiana, in quanto sostituisce sistematicamente il fiat voluntas Tua del Pater Noster con un blasfemo fiat voluntas mea.
In questo senso, Francesco d’Assisi può anche essere il più affascinante e il più amato dei santi: ma resta anche il più disatteso, il più tradito, il più inascoltato. Se non si capisce tutto questo, il solenne scenario di ogni 4 ottobre  ad Assisi diventa un’oscena e blasfema parodia. Se lo si capisce, da qui deve cominciare la Rivoluzione.