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Offrire il proprio cuore

di Francesco Lamendola - 31/10/2012



 

Accade ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, eppure è una cosa sbalorditiva, impressionante, drammatica: che qualcuno sia pronto ad offrire il proprio cuore a qualcun altro, a donare tutto se stesso o tutta se stessa a un altro essere umano.

È una cosa sublime; e anche terribile. Le sue conseguenze sono incalcolabili, così come la sua portata è incommensurabile.

Di solito, nella vita ordinaria, le persone sono piuttosto caute e circospette; hanno paura di essere imbrogliate, tengono stretto il portafoglio, contano diligentemente il denaro ricevuto di resto dal negoziante o dalla cassiera; se sospettano, anche minimamente, di essere stati raggirati, sono pronti a reagire, a protestare, a denunciare.

Nell’amore, invece, si buttano allo sbaraglio con ardore incontenibile, con audacia quasi folle. Vanno avanti come i seicento cavalleggeri britannici della carica di Balaklava, cantata dal poeta Lord Alfred Tennyson: incuranti di qualunque ostacolo, pronti a farsi spazzare via dall’artiglieria nemica piuttosto che indietreggiare.

«Ti offro me stesso (o me stessa); ti offro il mio cuore»: è una frase da far accapponare la pelle, e tuttavia c’è sempre stato, c’è e ci sarà sempre qualcuno pronto a pronunciarla; a pronunciarla con gioia, senza secondi fini; a immolarsi per essa, a sacrificare tutto, ad affrontare ogni sorta di avversità, pur di mantenervi fede. C’è di che restare pensosi.

La riflessione che vogliamo qui fare sarà di tipo puramente filosofico: niente sentimentalismi; niente romanticherie a buon mercato; niente elementi accessori, ma solo la sostanza delle cose, sfrondata di tutto quanto è casuale o estemporaneo. E, soprattutto, cercando di vedere l’insieme della questione, non solo singoli aspetti, per quanto importanti.

Ora, l’offerta del proprio cuore - che, nella prospettiva dell’amor cortese, corrispondeva a una vera e propria cerimonia iniziatica - è, comunque, badando alla sua natura essenziale, appunto una offerta, cioè un dono; e non un dono qualunque, ma il dono di se stessi; e non il dono di se stessi che nasce da una decisione della mente, ma che scaturisce dalle profondità del sentimento, dalla parte passionale dell’anima, non senza una robusta partecipazione dell’elemento erotico e sessuale.

“Offrire”, dunque, non è “donare” e basta; è donare, ma con l’aspettativa di ricevere in cambio; se si dona se stessi per amore, ci si aspetta di ricevere, quale ricompensa, l’amore dell’altro, cioè che anche l’altro si doni a noi, tutto intero e senza condizioni. Non è poco.

Dunque siamo arrivati a un primo punto fermo: donare il proprio cuore non è un atto disinteressato; anche se l’interesse può non essere necessariamente cosciente, esso esiste ed è inseparabile da questo tipo di offerta; nessuno offre il proprio cuore, se non aspettandosi di ricevere,  a sua volta, un dono di valore equivalente: il cuore dell’amato. Jacopo Ortis, che si uccide per amore di Teresa, spera - forse inconsciamente - di ricevere in cambio l’amore eterno di lei, nella forma della memoria.  Dunque è un donare ambiguo, ammesso che esistano doni totalmente disinteressati e donatori che non si aspettano assolutamente nulla in cambio del loro gesto.

Il dono perfetto non è quello che si offre senza aspettarsi nulla, ma quello che si fa senza residui, senza chiedere o porre condizioni, per quanto grande esso sia. Lancillotto accetta perfino di salire sulla carretta dei condannati a morte per amore di Ginevra, cosa supremamente oltraggiosa per un cavaliere; tuttavia ha un momento di esitazione, di umana debolezza davanti alla prospettiva di coprirsi di obbrobrio: e Ginevra, giustamente - secondo il codice dell’amore cortese - non glielo perdona, non ci passa sopra.

O si dona davvero, o non si dona; se si dona l’amore, lo si deve donare in modo perfetto, cioè totale: l’amante non potrebbe offrire, neanche se lo volesse, niente di più, mentre l’amato non può accontentarsi di niente di meno; questa è la legge.

Un secondo punto fermo è che chi dona il proprio cuore, lo dona spontaneamente: nessuno lo obbliga, nessuno lo costringe, nessuno lo ricatta; lo dona perché non potrebbe fare altrimenti, in quanto una forza interna, potentissima, lo sospinge avanti, vincendo qualsiasi resistenza; pertanto non ha senso che, dopo aver donato, egli si penta, recrimini, rinfacci.

Quando si dona qualcosa, lo si fa liberamente, in caso contrario non si tratterebbe affatto di un dono; e se lo si fa liberamente, allora bisogna assumerne la piena responsabilità, rinunciando in partenza, e in linea di principio, per così dire, a qualunque eventuale recriminazione. Tutto quel che può avvenire poi non modifica la sostanza delle cose: il donatore non era costretto da alcuno, ha agito liberamente, dunque non ha alcun diritto di rivalersi o di protestare.

Ciò non significa che l’amato non abbia delle responsabilità nei confronti dell’amante; significa, però, che tali responsabilità non investono l’oggetto del dono, ossia l’amore che gli è stato offerto, ma, semmai, il modo in cui ha ritenuto di gestire questo “capitale”, questa grande ricchezza che è stata messa, gratuitamente, a sua disposizione. L’amato, infatti, è libero di accettare o no il dono, così come l’amante era libero di farlo. Se lo rifiuta, egli recupera, tutta intera, la sua indipendenza, fermo restando che sarebbe buona cosa saper rifiutare nei dovuti modi un dono così grande, mostrando rispetto per i sentimenti del donatore. Se lo accetta, invece, egli esce dalla sua splendida solitudine e diventa il polo di una coppia, all’interno della quale entrambi devono assumersi delle responsabilità.

Tutto questo può sembrare formalistico, quasi legalistico; ma, in effetti, il fatto del dono instaura una relazione complessa fra due esseri umani, nella quale esiste anche una dimensione etica: e non si dà etica senza che vi sia un discorso sui diritti e sui doveri, dunque un discorso sulle relazioni giuridiche fra due o più soggetti.

Esistono delle possibili obiezioni a quanto abbiamo qui sopra sostenuto. In particolare, l’amante tende a respingere l’affermazione di aver offerto il proprio amore in maniera del tutto libera e spontanea; egli sostiene di essere stato “costretto” ad amare, non da una forza interna, ma dalla presenza stessa dell’amato; ed è proprio per questo che scorge nell’amato un principio di responsabilità nei suoi confronti, se non addirittura una intenzione e una volontà di catturarlo e di sottometterlo.

Qui, in effetti, si sfiora un terreno delicatissimo, dove è quasi impossibile muoversi senza posare il piede su qualcosa di estremamente ambiguo sfuggente: intendiamo parlare del confine, ammesso che esista, fra innocenza e seduzione. Quando nasce un sentimento amoroso, non è detto che chi prende l’iniziativa di dichiararsi e di offrire il proprio cuore, abbia fatto tutto da solo; può essere che egli sia stato segretamente invitato dall’altro e, nei casi più sottili, addirittura manipolato, senza che egli se ne sia neppure reso conto. Ma, se pure questo è avvenuto, debolissimi sono gli indizi, quasi impercettibili; e impossibile il dimostrarlo.

Un caso ancora più ambiguo, e, nello stesso tempo, straordinariamente grossolano, è quello della seduzione alla cieca: di quelle persone, cioè, che distribuiscono a trecentosessanta gradi la loro strategia seduttiva, per poi scegliere con calma se e quando accettare l’offerta d’amore altrui, ignorando o respingendo tutte le altre. Tali persone agiscono come quei pescatori che non vanno a pesca con le reti, ma con la dinamite: a loro non importa di uccidere o mutilare centinaia di pesci, per portare a casa un bottino di poche decine; non si curano della enorme sproporzione esistente  fra il danno che provocano  e il vantaggio che acquisiscono.

Prendiamo, allora, il caso più frequente: quello in cui l’amante non è stato sedotto intenzionalmente, ma è rimasto sedotto dalle qualità dell’amato e gli ha offerto il suo cuore, arrendendosi all’amore senza porre condizioni. Certo, dire che egli ha fatto tale dono “liberamente” può dare luogo a un malinteso: perché quell’avverbio non va inteso in senso assoluto, ma relativo. Egli era “libero” nel senso che non è stato catturato dalla volontà dell’amato, ma da un sentimento che gli è nato dentro in virtù di quella presenza, e al quale non ha saputo resistere. Non era pertanto “libero” in senso assoluto, ma era libero in senso relativo: perché, non essendo costretto nel senso ordinario del termine, avrebbe potuto anche negarsi a quel sentimento e non offrire all’altro il suo cuore (come di fatto accade con persone dalla forte volontà).

Ribadiamo il concetto: il dono, qualunque dono - e dunque, a maggior ragione, il dono totale di se stessi - non è un atto così gratuito come sembra; è carico di aspettative e di sottintesi: tutti, tranne i santi e gli idioti, donano nella convinzione che riceveranno qualcosa in cambio, che il loro dono verrà ricambiato. Ecco perché accettare un dono è molto più impegnativo che rifiutarlo; rifiutandolo, ci si scioglie da qualunque impegno; accettandolo, ci si impegna, come minimo, a prendere in considerazione la persona del donatore, e, fino a un certo punto, anche le sue intenzioni, palesi e recondite.

Presso certe tribù amazzoniche, in cui vige una cultura di tipo animista e sciamanico, se un uomo sogna che un vicino gli ha fatto un dono, il giorno dopo si presenta da quell’uomo per riceverlo; e, se questi dice di non ricordare una promessa del genere, si ritiene offeso in misura tale da meditare una vendetta mortale. Questo, per la nostra mentalità, è assurdo; tuttavia, senza volerci addentrare in un’ardua disquisizione di antropologia culturale, e tanto meno sulla natura profonda dei sogni (liberandoci, però, dalla pretesa ridicola di sapere ormai tutto in proposito, grazie al dottor Freud) dovremmo riflettere sul fatto che il dono è un’arma a doppio taglio: impegna colui che lo riceve non meno di quanto colui che lo ha fatto.

Insomma, il vero dono non esiste, se per “dono” si intende qualcosa che viene offerto senza aspettarsi assolutamente nulla in cambio, tranne che da parte dei santi o nel contesto di un rapporto impersonale, come può essere un’opera caritativa e assistenziale che agisce per mezzo della mediazione di altri soggetti. Nel rapporto a tu per tu, diretto, immediato, tutti donano perché si aspettano di ricevere; anche se non sempre ne sono, lì per lì, consapevoli.

Pertanto il dono di sé che avviene sulla spinta dell’amore è il meno disinteressato di tutti i doni: il suo valore è altissimo, ma lo è anche quello di ciò che si spera di ricevere in cambio. Si dona interamente se stessi per ricevere tutto dell’altro: aspettativa più grande non potrebbe darsi, alla lettera. È comprensibile che qualcuno sia esitante ad accettare un dono che possiede implicazioni talmente  forti, dalle quali è così difficile tornare indietro.

E questo è il terzo e ultimo punto: dal dono dell’amore non si torna più indietro. L’amore può finire, le sue conseguenze no. Una centrale atomica produce scorie che rimangono radioattive per qualcosa come quarantamila anni, dunque resta potenzialmente pericolosa moltissimo tempo dopo che sia stata spenta (non sappiamo nemmeno se esisterà ancora il genere umano, fra quarantamila anni). Ripetiamolo un’altra volta: dal dono di sé, totale, che si fa nell’amore, non è possibile tornare indietro, mai più.

E ciò avviene nei due sensi: dell’amante e dell’amato. L’amante, colui che ha offerto il dono, potrà forse disamorarsi di quella persona, ma non dimenticherà mai del tutto il sentimento che ha provato e che lo ha spinto al dono di sé. Anche quando crederà di essersene del tutto scordato, a decenni di distanza, un gesto, una frase, uno sguardo, di colpo glielo faranno tornare vivo e presente: e allora si accorgerà che era rimasto silenzioso, in attesa, per tutto quel tempo, in qualche angolo della sua coscienza. Colui che ha ricevuto un tale dono potrà credere, a sua volta, ma soltanto credere, di averlo dimenticato, sia che l’abbia accettato, sia che l’abbia rifiutato: perché il dono dell’amore è così strano, che qualcosa di esso rimane anche in colui che lo rifiuta. Non è cosa indifferente ricevere una tale offerta, anche se non ci si sente di accettarla: la persona che l’abbia ricevuta non sarà mai più la stessa di prima, non penserà più a se stessa e agli altri negli stessi termini di prima.

Quest’ultima riflessione ci accompagna verso la conclusione del presente ragionamento.

Donare è impegnativo; accettare un dono lo è, se possibile, ancora di più; e se quel dono è l’amore, allora non esiste impegno più grande che sia dato immaginare: roba da far tremare le vene e i polsi. Dante ne era consapevole, quando descrisse la scena, paurosa e tutt’altro che “stilnovistica” (se per stilnovismo si intendono sdolcinate svenevolezze), in cui Amore dà da mangiare a Beatrice il cuore del poeta e poi, piangendo, si allontana con lei verso il cielo.

Gli uomini e le donne dovrebbero essere maggiormente consapevoli di quanto sia impegnativo donare e accogliere l’offerta d’amore. Se non lo sono, andranno incontro a fraintendimenti e sofferenze inutili: inutili, perché avrebbero potuto essere evitati o, almeno, ridotti, con un po’ più di chiarezza nel guardarsi dentro e un po’ più di onestà nel leggervi quel che c’è scritto.